abbagli
Fa rima con sbagli. Un qualsiasi buon dizionario mette lì una sfilza di sinonimi: annebbiamento, appannamento, obnubilamento, offuscamento. Contraddire la luce che illumina: troppa, acceca. Certo ci stanno abbagli indotti o subiti. A volte li si cerca, il più delle volte sono oltre la volontà. Quando l’altro ti vede come non sei, ne è sedotto o ne è respinto; quando all’altro imputi in colpevolezza quello che sta in un desiderio che non vuoi riconoscere come tuo, è paranoia; quando costruisci una figura dell‘altro perché vuoi che l’altro sia quello che non è ...; quando scambi la veemenza sessuale per innamoramento...; quando ... è allora che l’abbaglio diventa uno sbaglio. Al di là della colpa, resta comunque lo scotto, il prezzo pesante da pagare. Prendete il cosiddetto divorzio breve: sei mesi matrimoniali per interrompere? figli o non figli? Che poi non è di per sé il motivo in assoluto costringente – seppure ineludibile per chi abbia un poco di sensibilità - costringente a uno spazio di ben più lungo ripensamento: è la storia di chi lascia e di chi viene lasciato che si intride di graffi sanguinanti a ogni volgere di luna, che piaccia o no a tutta la letteratura del vai dove ti porta il cuore. Sì, il per sempre non è più di moda, e forse non lo è mai stato. Ma un minimo di luce vera, di verità! Tocca le coppie, l’abbaglio di una vita finalmente mia, la parolaccia ormai in uso comune: autorealizzazione; ma tocca anche preti che neppure vivono i sei mesi di una separazione. È la confidenza di un vescovo, e già quindici anni fa: vengono qui non a chiedere un accompagnamento, ma a notificare la decisione di lasciare. Presbiterio? fraternità? condivisione? Macché. La risolutezza prepotente, a volte insolente, di chi ha avuto finalmente l’illuminazione. Nascondendo e nascondendosi. I complici della loro più o meno improvvisata risoluzione – complici ne trovi sempre, perché forse, e nel subconscio, ciascuno si costruisce così un alibi per un potenziale proprio futuro – sono ben lontani dall’essere le vergini che accendono le lampade per rischiarare la strada, a sè ad altri: risparmiano olio per sé, appunto, e tuttavia presentandosi come prodighi in accoglienza. Pensavo al fasto, lo straordinario che luccica, a stordire, nelle giornate di accoglienza dei preti novelli. Ora mi pare si sia in una sobrietà. Ma fino all’altro ieri arrivavano planando da elicotteri, o su calessi trainati da bianchi cavalli, o sul pianale di un’ape (non diverso da una bianca limousine da sposi) l’una e l’altro, e tutto il resto che ora ho cancellato per insofferenza, a confondere l’impegnativa ferialità del futuro nel bagliore di un giorno. Bagliore che obnubila, vista e sensi che appannano la coscienza: e prima o poi si va a sbattere, come in questi giorni di pioggia torrenziale che ti coglie a sbrinatore bloccato in carrabili di campagna. Gli abbagli possono essere ridotti, se i fidanzati sono finalmente aiutati alla sincerità nel raccontarsi l’un l’altro? e nel raccontarsi davanti alla Chiesa? E se i preti si sono offerti veritieramente al discernimento dei propri sentimenti e delle proprie giuste pretese di vita? ma chi compie il discernimento? Il vescovo che impone le mani? Affidandosi, lui, allo Spirito santo? o a coloro a cui ne ha affidato la responsabilità? Nello stillicidio di preti che lasciano, c’è posto per la tristezza per loro che comunque rimarranno graffiati, e la rabbia per noi che non abbiamo ascoltato la cadenza appesantita dei loro passi. Ma c’è posto anche per interrogativi che la Chiesa, la nostra di Bergamo e l’universale, può rivolgersi.
se giusti
Di retorica è piena la terra. Soprattutto alla vigilia di qualcosa che ci descrive o ci potrebbe descrivere. Alla vigilia di un voto: sia esso elettorale o religioso. Soprattutto se si è giovani e gli artigli della vita – illusioni, tradimenti, lontananze – non ti hanno ancora graffiato. E di abuso di frasi retoriche credo che nessuna abbia sofferto come quella di Voltaire: “Io combatto la tua idea, che è diversa dalla mia, ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, possa esprimerla liberamente”. Ma non è bella? non è giusto che stia sulle labbra di tanti? Il problema è che non sta nel cuore. E se ne vedono le conseguenze, appena fuori dall’alone di virtuosità virtuale dentro cui ci si pensava amici del mondo intero. No: sarà politicamente scorretto, ma è corretto umanamente dire che non tutti hanno diritto di poter buttare nel coacervo del mondo le loro idee. Se insane, se menzognere, se omicide. Si fosse fermato Hitler a suo tempo, la Shoah ci sarebbe stata? Forse no, forse sì. Ma neppure con il senno di poi ci si può scusare dal non aver applicato il principio di Tommaso d’Aquino: il tiranno va fatto fuori, che - detto adesso per non attirare l’ipocrisia dei rigoristi – si traduce con un va isolato. Altro che dargli le piazze, o il web! Certo, siamo in tempi in cui la pena capitale non è più nel sentire dei popoli (beh, non proprio di tutti i popoli, se solo pensiamo a chi ancor oggi è condannato a morte dall’America ai paesi arabi): ma cucirgli la bocca, sì. Persino a Voltaire sarebbe stato bene, almeno in certi momenti della vita, e della sua produzione letteraria, che fosse impedito di esserci. E non perché massone o anticlericale: libero di esserlo, costretto pure lui ad ammettere che una intelligenza superiore ci doveva pur stare da qualche parte. Ma: padre dell’illuminismo? O della grande illusione che fa del progresso il grande precipizio dell’anima? Non è in piena rivoluzione francese quella della ghigliottina, che se ne mette la salma, trionfalmente, nel Pantheon parigino? E non c’è persino in questa vigilia di una Europa che si vuole e non si vuole, qualcuno che rispolvera i tribunali del popolo che già lui, l’immortale Voltaire degli animi arrabbiati, anticipava? Tappare la bocca: ecco una operazione che si può fare con una x nella cabina elettorale. La libertà dell'altro? Sì, ma di non fare male. Affinché il male trionfi, è sufficiente che i giusti se ne stiano in sacrestia. Sentirsi giusti, qualche volta, è solo una responsabilità, non una superbia. E, alla fine, riesce a farci sentir bene sulla risposta a quei cattolici di stretta osservanza che mal vedevano la sepoltura di Voltaire nella chiesa che pure il Pantheon continuava ad essere: "... il est bien assez puni d'avoir à entendre la messe tous les jours!”. La legge del taglione per chi non volle distinguere (o non poté? ma allora dove era la ragione di cui lo si dice campione?) tra superstizione e fede cristiana: la punizione nei secoli dei secoli di dover ascoltare la messa tutte le mattine. E provare a pensare a una appropriata punizione del contrappasso per quelli che ci stanno avvelenando la vita con parole prive di speranza? Infliggendogliela comunque con un sorriso: così conviene ai cristiani che qualche volta debbono agire da giusti. Anche se sembra, nel postnewage del cappellone con il cappellino, che il saluto d'ora in poi debba essere la forza sia con voi. Non il Signore sia con voi, e pazienza, non è di tutti; non la bellezza sia con voi, e già c'è da allarmarsi. Tempo di tempi stellari, ahinoi! e la ragione a remengo una volta di più, caro Voltaire.
inganni
Entro in libreria, e tra i titoli che ho in mente vado alla scoperta di qualcos’altro. Per il mio tempo libero - non essendo un calciatore, non essendo un camminatore, non essendo uno smanettatore (della categoria dei digitatori ossessivo/compulsivi di cellulari computerizzati), ma solo un passabile lettore – cerco nelle scansie dei gialli. Se i romanzi insegnano la vita più di un saggio, i romanzi gialli dispiegano l’intelligenza alle sfumature della vita. Narrazioni che non siano certo le rapide letture da viaggio in treno, ma i tomi degli scrittori soprattutto nordici che intrecciano psicologia, società, contemporaneità. Di questo mi convinco sempre più. E potete chiaramente capire che se trovo titoli che non tanto alla larga parlano di robe di chiesa, li prendo anche senza lasciarmi condurre dal risvolto di copertina, che invece è di norma per titoli o autori sconosciuti; e li prendo anche solo per il gusto di confutare quel pressapochismo che scambia gli errori degli uomini per errori dello Spirito Santo. Così sono cascato in un volume, per altro interessante, ma che mi fiondava di pagina in pagina non solo ad anticipare la faccia del colpevole dei misfatti misteriosi, ma a dover capire il perché del titolo dato al libro. Supponete (non voglio fargli pubblicità, e dunque scrivo un titolo di comodo) di aver comprato “I labirinti del vaticano”. Siete a pagina 328 e ancora non vedete né collocazione di luogo, né personaggi vaticani. E cominciate a dirvi che sarebbe davvero grave non essere riusciti prima delle ultime due pagine a scoprire il nesso, voi che al massimo ai tre quinti vi siete già fatti un’idea di dove vi sta portando la trama. Dubitate di star perdendo colpi. Ma la rassegnazione non è propria del giallista: e quando mancano dieci pagine all’incirca prima della fine, capite che il mistero può essere nascosto a pagina 3, là dove trovate il numero delle edizioni, la data di stampa, e il titolo originale con il nome del traduttore. Certamente la colpa non è del traduttore ma dell’editore: una scorrettezza madornale, se vedete che il titolo originale è “Labyrinter av Rom”, labirinti di Roma, e che il vaticano proprio non c’entra per nulla, come già la storia stessa vi aveva allarmato. Da farsi restituire il prezzo maggiorato dal danno morale, dato che ha messo in angoscia la vostra prestazione da lettore sagace! Ma: perché ingannare? per vendere di più, chiaro. E perché vaticano tira di più? Per le nefandezze che si suppongono, e che non possono non nascondersi là dove comunque c’è un’aria di mistero? Ma il mistero che è? ocurantismi medievali dove la ragione non arriva? Il mistero, nel fatto cristiano, è luce: Dio che è luce, e in Lui non essendoci tenebre, è la Luce dell'amore, l'amore che crea. Luce e non tenebra. Quanti si perdono non volendo vedere la luce che chiama al fondo del tunnel della vita, stando a vivacchiare nel cono di un lampione! E quanti inganni ne escono, quante bugie a precludersi e a precludere la verità della vita. E dunque la verità dell’amore. Sì, l’amore non finisce: se si ama davvero si ama sempre, anche quando sembra finito il tempo di un amore. Sì, se lamore è verità.
nel cuore
La pasqua ci ha fatto entrare nel cuore delle cose. Ma ci ha fatto entrare? tutti? e ovunque nella Chiesa universale? Sapendo che il cuore della Pasqua è un uomo, l’Uomo; che non chiede incensi, ma verità; non elegie, ma sentimenti: l’accostare cuore a cuore per rispondere a battiti di vita vera. Non è invece che si siano ancora usate predicazioni un palmo più in alto di ciò che si vive? o tre palmi altrove rispetto a quanto succede? A chi diamo la colpa di chiese dimezzate? e dell’assenza dei giovani? o dei matusa che sonnecchiano il sabato santo, esausti alla pianificazione, propria di una assemblea monastica, di tutte le letture (proposte, si badi!) dell’antico testamento? Vivacizzare? Suonando tamburelli durante il racconto della passione? (tamburelli durante il racconto della passione di Nostro Signore Gesù Cristo?! Ma no! E la solenne sobrietà inseguita per decenni nello spirito conciliare dove va a finire? Va a finire...). Si è denunciato tempo fa, molto tempo fa, l’indimestichezza dei gruppi liturgici rispetto al celebrare: programmando a tavolino contro l’occhio di chi presiede su quelli che sono lì a celebrare? Tra i santi segni e il folclore (o il protagonismo di chi comunque ritaglia la liturgia sul proprio mettersi davanti – e ci sono preti e laici che si pensano solo mettendosi davanti, non accanto, non dietro, e si sa che il vento tira all’indietro l’odore delle pecore), il peccato di scegliere male è tutto lì a tentare; naturalmente con il pretesto che i santi segni debbono essere tradotti: non so, in questo momento, quale nome sia stato dato a questo convincimento, ma certo è una eresia. Voi dite che ce ne sono tante altre? E che quindi possa starci anche questa, che non è poi così grave... eccetera eccetera? Se voi tanto pensate, sappiate che non mi avete dalla vostra parte. E non perché mi senta ortodosso alla rigida maniera degli ultrà ebrei, anzi: è la libera leggerezza che non inquina la sostanza quella che personalmente ho sempre inseguito (senza mai raggiungerla, lo confesso); ma perché c’è una decenza del pregare che mi aiuta a credere. E una bellezza che non posso accettare sia piegata a una estetica senza memoria. E dunque senza verità. Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, umiliò se stesso fino alla morte e alla morte di croce: e per questo Dio lo ha esaltato. Se non ci svestiamo di paludamenti, come vederlo? Se appesantiamo il rito di noi stessi, come ascoltare il richiamo della domanda che percorre i secoli: ma perché stiamo qui questa notte? La semplicità dell’unica risposta si perde se la anneghiamo in troppa parola: siamo qui perché il Dio che ci ha creati, ci ha anche salvati attraverso il suo Figlio: e basta, basta così. Chi sa che un altr’anno la pasqua sia meglio ovunque. Per celebrare nel cuore delle cose che contano. E nel cuore degli uomini che siamo.
selfie
Ovvero: quando un cieco conduce un altro cieco. Lo sanno tutti che io diffido degli esagerati mezzi tecnologici. E che tuttavia sopporto con abbastanza nonchalance gli sguardi compassionevoli che mi rivolgono i consumatori di iPad iPed iPid iPod e iPud (guardate che lo so che l’iPud non esiste: ancora!): li ditano neanche fosse l'antico pallottoliere. Certo non capisco chi ti risponde ancor prima che tu abbia staccato il tuo dito dal tasto di invia ; se son preti, mi chiedo se gli restano ancora libere le mani per benedire; e se sono casalinghe, se poi non gli cade prima o poi il cellulare nel minestrone che (non) stanno preparando. Da pochi giorni ho imparato che cosa è il selfie. Senza nominarlo così, anch’io con la mia macchinetta anni sessanta mi ero fatto un autoscatto, ma mi hanno convinto che non è la stessa cosa: adesso non vieni con faccias-facciata, perché la tecnologia ecc ecc. Ma, subito dopo aver assimilato, mi ha incuriosito la foto di una donna iraniana, il niqab a coprirle tutto il volto meno gli occhi, in posizione di selfie, appunto. Che cosa voleva ritrarre? Solo gli occhi? O anche il nero colore del velo? E mi sono chiesto che cosa è verità. Quella che ti racconti, o quella che è? La verità che è fatta delle tante verità, tacendo alcune delle quali fai diventare menzogna persino una verità vera? La verità che raccogli da quell’esemplare, che ha tradito prima di te la verità sulla sua vita, e dietro il quale neghi te stesso? Quale è la verità della mia vita? quella dell’autoscatto? O la verità è quella di occhi che sanno rivelare la bugia della bocca? o la verità è quella dell’amico che non vuole essere tuo complice, neppure nella tua sofferenza, per aiutarti a non renderti responsabile di una gratuita sofferenza su altri? o, anche, quella di chi mi vuole un bene dell’anima, che io lo capisca o no, e dunque che mi sta accanto perché non imbocchi strade che mi conducano lontano da me? La verità abita nell’interiorità dell’uomo. E l’interiorità si coltiva nella preghiera, che è poi mettersi davanti a Dio in silenzio: non rimuginando, ma saziandosi di silenzio. Non soffocandosi di cose, ma guardando in faccia tutta la fatica di sé. E allora diventa un rinnovamento della mente, che è l’antidoto al conformarsi alla mentalità di questo secolo. E poi: se la verità non si nutre di carità, come tenersi lontani dall’ingiustizia subita che genera altre ingiustizie? Perdona loro chè non sanno quello che fanno: a giorni scenderà dalla croce questa preghiera per ciascuno di noi. È il selfie di Gesù: l’autoritratto della sua misericordia. Della verità piena di carità della sua vita. È il suo amore che ci ha salvato, non il suo dolore. Fa', o Signore, che ce lo ricordiamo.
volere il bene
(Ci sono momenti nei quali anche scrivere diventa difficoltoso. Ma è anche quando trovi qualcuno che, alla lettera, ha i tuoi stessi pensieri, i tuoi sentimenti. Eccoli qui, fatti miei, in grata condivisione).
“La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”(1Cor 13). Chissà come mai nelle cose della vita la misericordia e la fatica di amare vanno sempre insieme. Non esiste affetto, o amicizia che sia, che non chieda di affondare le sue radici nell'atteggiamento misericordioso di chi non dice: "comprendo e rimango nella fatica di camminare con te perché ti amo", ma "ti amo perché comprendo e rimango nella fatica di camminare con te". L'amore spesso non è la radice, è il frutto: chiede una maturazione di consapevolezza, un cammino sfiancante di offerta di sé che non è facile sostenere; per questo l'amore non può accettare di rinchiudersi nella solitudine, ma chiede la fraternità. E capita che talvolta, dentro le cose della vita, non tutti abbiamo le energie e le prospettive capaci di accogliere sempre allo stesso brillante e reattivo modo la fatica di amare fedelmente. Allora ci si ferma, si prende un momento per ravvivare il fiato (quel soffio dello Spirito e della fisiologia che in entrambi i casi è condizione alla vita), per cercare di raccontare e di dare voce a quella fatica e a quella bellezza che abbiamo nel cuore, per guardare allo specchio la nostra vita e riconoscerci ancora anche dentro le rughe delle delusioni o delle critiche. Ci sono ferite e ci sono rughe che necessitano di amicizia suppletiva, di preghiera sofferta, di misure traboccanti di misericordia e di umanità evangelica: non sempre però siamo capaci di offrirle e forse, talora, non siamo capaci di accettarle. Così può capitare - e non è giudizio, credimi - di sperimentare sofferente affetto per chi si è seduto con il fiato corto, forse anche amareggiato con chi ha condiviso percorsi e avventure, perché non ha saputo capire, non ha voluto curare, ha tremendamente procurato dolore. Ma il cristiano ama, sempre (e lo dico con tutta la mia ipocrisia addosso, quella di chi non riesce a farlo abitare nella sua vita quel "sempre"; quella di chi vive la lotta tremenda tra l'esserci e il nascondersi... e non per paura, ma per la esigente carità del Vangelo, quella carità che per viverla ti chiede sempre prima di invocare il nome di Dio come aiuto, speranza, forza, e quando hai cercato di viverla te lo fa invocare come misericordia). (d. a. p.)
con il cardinal Martini, nella sofferenza
E’ molto opportuno meditare sulla debolezza della chiesa, che è la debolezza delle nostre comunità e della Chiesa tutta. Possiamo allora riferirci a quando sperimentiamo il doloroso divario tra la missione altissima della Chiesa e l’incoerenza delle persone a cui è affidata; pensiamo alla carenza di vocazioni e a quanto la Chiesa è povera in questo mondo. Gli ideali sono grandi, ma spesso le realizzazioni sono insufficienti; nelle comunità locali, nelle parrocchie si moltiplicano le controversie e le divisioni, le invidie e le gelosie. Ma è pur vero che più ci rendiamo conto della nostra povertà, più conosciamo la Chiesa dal di dentro, maggiormente siamo colti dallo stupore, dalla meraviglia per la straordinaria forza e l’immensa misericordia di Dio. E’ in fondo la conferma del fatto che il Signore opera attraverso strumenti miseri, deboli, inadeguati; un conferma che ci aiuta a crescere nell’umiltà. Certamente è difficile non soffrire di fronte ai difetti di alcune realtà ecclesiali, alle fughe di persone che promettevano bene, che avevano iniziato con entusiasmo e con spirito evangelico. Tuttavia Paolo ci insegna ad entrare con lui nella logica di Dio, in quella speranza infusa in noi dallo Spirito santo che ci rende capaci di contemplare la gloria di Dio presente qui e ora. In questo modo eviteremo la tentazione di scetticismo, di pessimismo e potremo cooperare umilmente e con gioia alla vita e alla missione della Chiesa.
i dabbene
Gira uno spavento nella Chiesa: non è che questo papa stia conducendo al lassismo? Persone per altro dabbene (!) si chiedono e chiedono se la gente capirà. Ma loro hanno capito? Con quale stile della legge – farisei in buona fede, senza alcun dubbio, nuovi Saulo – immaginano una corsa al tutto ormai si può fare ché tanto si rimane in comunione? Un po’ alla stessa maniera di chi gridava allo scandalo, qualche decennio fa, per quei distributori di sigarette alle porte dei tabaccai, o dei condom fuori delle farmacie: vuoi vedere che tutti gli adolescenti li useranno? Almeno che ci mettano la faccia dentro i negozi! ... nel segno certo non di accorta educazione, ma di una mala punizione. E lo sforzo di chiarire, alle persone dabbene, si scontra con facce di diffidenza che non mutano di uno iota. Raccontare che si sta finalmente parlando di Vangelo? che le stesse cose sono già state dette dalla Chiesa riunita in Concilio ormai cinquantanni fa? Nulla. Le precomprensioni, annidatesi in secoli di rigorismo religioso senza misericordia, hanno la loro violenza, che esclude quanto non sta nell’orizzonte di certezze consolidate, sul modello di un manuale da giovani marmotte: fissate le regole una volta per sempre, e per tutti, neanche fossimo uguali nelle nostre storie di crescita e di sofferenza. Fategli capire che la Chiesa non è cambiata in quest’ultimo anno, che semmai si comincia a percepire un’altra Chiesa, quella del Salvatore, quella che in tanti incontri con giovani fidanzati molti di noi hanno potuto veder danzare finalmente negli occhi del loro cuore: si ricredevano sui niet dogmatici che pensavano essere l'insostenibile zavorra cristiana. Porre le domande giuste, e far emergere la domanda vera sulla vita: questo è la misericordia. Non più chiese per contenere, ma chiese per mandare a vivere il quotidiano che, se è fatto di doni e di bellezza, tuttavia conosce fallimenti: dove è scritto che si punisca la bancarotta di una vita, o la sua diversità, oltre l’amarezza che già comporta di suo? Non certo nel Vangelo di Gesù nella buona notizia di una storia non più afflitta dalle leggi del sabato. In questo si fissano le persone dabbene, quello che pensano che smantellare la corte pontificia voglia dire smantellare la fede. Come farglielo capire? Con la pazienza di chi non si lascia fermare: la stessa di Gesù che nell’andare ha colto anche lui, con i suoi intimi, le spighe per mangiarle. E a quel qualcuno, fariseo, che gli ha detto non è lecito, che risponde? Quello che la Chiesa - e il papa nella Chiesa - ha ricominciato a dire a chiare lettere: se tu avessi compreso che cosa significhi misericordia io voglio e non sacrifici, non condanneresti. Forse è il tempo, lo dico sommessamente a tanti miei amici preti, di stare sul Vangelo senza tanti fronzoli teologici, macchiati dal tempo. Anche dal tempo presente. Anche dai guru più o meno di pancia intellettuale.
70
Mia sorella mi ricorda quanto diceva nostra mamma: che nevicava forte quando siamo nati, di febbraio, a pochi giorni l’uno dall’altra seppure in anni differenti. Oggi invece è giornata che sembra annunciare primavera. Anche se non sempre agli annunci segue l’evento più o meno atteso: perché l’evolversi del tempo, al di là di previsioni oggi quasi puntuali della meteorologia, si distende per folate oceaniche su spazi così estesi, da provocare altro, rispetto a ciò che si delinea. Tanto più nella vita. Tanto più nella vita di un ministro di culto cattolico - come direbbe la dizione più vicina alle scritture anagrafiche - se l'obbedienza non è un tabù. E se l'obbedienza si accompagna a una accettata percezione dei propri limiti accanto alle risorse di natura e di educazione. Ricordo l’incontro riservato con il cardinal Martini nel gennaio del 2001, l’incontro con chi avevo scelto come maestro, e ora mi chiamava come padre per prospettare un cambiamento di responsabilità ministeriale: non è poi avvenuto così. Col senno di poi mi sono chiesto che sarebbe stato, ma mi sono risposto che il disegno su di noi avviene e ci conduce oltre ciò che si desidera o si teme, ed ha un suo buon fine: credo alla Provvidenza, che, da quando mi ricordi, è il mio nome di Dio. Un anno dopo, circa, il cardinale avrebbe raccontato così le stagioni dell’esistenza - Un proverbio indiano narra di quattro stadi della vita dell'uomo. Il primo è lo stadio in cui si impara; il secondo è quello in cui si insegna o si servono gli altri; nel terzo si va nel bosco, il bosco profondo del silenzio, della riflessione, del ripensamento e credo che, allorché si aprirà per me il terzo stadio potrò riordinare con gratitudine tutto ciò che ho ricevuto, ricordare le persone che ho incontrato, gli stimoli che mi sono stati dati e che in questi ventidue anni (anche i miei ventuno anni in S. Lucia n. d. scrivente) non sono riuscito a elaborare (nel bosco, passeggiando tra gli alberi, si rimettono in ordine le memorie). Nel quarto stadio, particolarmente significativo per la mistica e l'ascetica indù, si impara a mendicare; l'andare a mendicare è il sommo della vita ascetica e mi dicono che anche oggi persone ricche, che hanno fatto grande fortuna nella vita, a un certo punto vanno a mendicare, in quanto il mendicante rappresenta lo stadio più alto della esistenza umana. Mendicare significa dipendere dagli altri - ciò che non vorremmo avvenisse mai -, e dobbiamo prepararci. Il tempo del bosco ci prepara, prepara il momento che può avvenire oggi, domani o dopodomani, secondo la volontà del Signore. Con Lui, e in queste sue parole, non potrei ricordare meglio il passaggio dei miei settanta a quanti vorranno farmi accorgere, sostenendolo con la loro presenza amorevole, del momento della mendicità.
sinodo
Giovani e forti (magari giovani nel corpo no, ma nello spirito certamente forti: si spera) i cardinali di santa romana chiesa, i vecchi e i nuovi, sono radunati in concistoro: nella funzione di aiuto al vescovo di Roma a presiedere la Chiesa nella carità. E sono chiamati, ancorché celibi, dunque senza famiglia, ad ascoltare e a dire la loro su questa istituzione che da noi ancora si sa che cos’è, mentre nei paesi anglosassoni un po’ meno (là dove i figli sono premuti a uscire da casa, poco più che adolescenti, per non ritrovarsi a mangiare la pastasciutta della mamma da trentenni bamboccioni – ma se non più bamboccioni, che sono? chiedere per sapere a chi li frequenta, ad esempio, nella prosperosa Inghilterra). Ma la saggezza cardinalizia è accompagnata dagli interventi numerosissimi arrivati da tutte le periferie del mondo, vicine e lontane, alla segreteria del Sinodo che sarà convocato in due sessioni annuali a pronunciare parole finalmente nuove. Su un questionario delle famose trentotto domande. A leggere il testo inviato ai vescovi non è solo e non potrà essere una raccolta di dati derivanti dall'osservazione parrocchiale diretta, ovvero per conoscere come le singole parrocchie si comportano di fronte a determinati avvenimenti che si verificano. Non certo una roba tipo "come vanno le cose dalle tue parti?". Ma un lavoro da fare «in profondità e senza cadere nella casistica» per aiutare i coniugi a vivere con gioia il piano di Dio sulla famiglia, accompagnandoli con «una pastorale intelligente, coraggiosa e piena d’amore». Questo orientamento di papa Francesco instillerà finalmente l’accostamento al male di vivere che non lascia certo quieti neppure i credenti? C’è molta sofferenza, dicono quelli che ci lavorano, nelle risposte arrivate dalle diocesi. E, manco a pensarlo, un primo esame a risaltare sembra essere proprio la sofferenza espressa soprattutto da coloro che si sentono esclusi o abbandonati dalla Chiesa per trovarsi in uno stato di vita che non corrisponde alla sua dottrina e alla sua disciplina. Vedi i divorziati credenti. Uscire dai tavolini giuridici, dai palazzi dove non arrivano l’odore delle pecore, potrebbe essere la sfida da vincere. E qui le periferie da ascoltare sono quelle del cuore dell’uomo: finalmente chiamando ciascuno per nome e non incasellato dentro tipologie. Non sarà semplice, immagino: orizzonti culturali e tradizionali lontani o addirittura opposti, che chiedono alla Chiesa di accettare che l’unità si costruisce nel riconoscimento delle differenze, e non nell’uniformità. Vallo a far capire a chi è ingessato dentro formule dottrinarie che non sanno più il profumo dello Spirito, e il suo vento che turbina sulla terra sconvolgendo certezze nutrite esclusivamente di storia. Con l’iniziativa sinodale si è aperto un cammino di fiducia per molti che l’avevano persa. Un nuovo approccio umano e cristiano: di questo abbiamo oggi bisogno: un approccio che faccia vibrare le persone e le disponga all’ascolto e all’accoglimento di ciò che è bene per loro. Non si tratta di pretendere una cancellazione della sofferenza: si tratta di sentirsi comunque inclusi, anche nei santi segni che ci salvano.