Fa rima con sbagli. Un qualsiasi buon dizionario mette lì una sfilza di sinonimi: annebbiamento, appannamento, obnubilamento, offuscamento. Contraddire la luce che illumina: troppa, acceca. Certo ci stanno abbagli indotti o subiti. A volte li si cerca, il più delle volte sono oltre la volontà. Quando l’altro ti vede come non sei, ne è sedotto o ne è respinto; quando all’altro imputi in colpevolezza quello che sta in un desiderio che non vuoi riconoscere come tuo, è paranoia; quando costruisci una figura dell‘altro perché vuoi che l’altro sia quello che non è …;  quando scambi la veemenza sessuale per innamoramento…; quando … è allora che l’abbaglio diventa uno sbaglio. Al di là della colpa, resta comunque lo scotto, il prezzo pesante da pagare.  Prendete il cosiddetto divorzio breve: sei mesi matrimoniali per interrompere? figli o non figli? Che poi non è di per sé il motivo in assoluto costringente – seppure ineludibile per chi abbia un poco di sensibilità – costringente a uno spazio di ben più lungo ripensamento: è la storia di chi lascia e di chi viene lasciato che si intride di graffi sanguinanti a ogni volgere di luna, che piaccia o no a tutta la letteratura del vai dove ti porta il cuore. Sì, il per sempre non è più di moda, e forse non lo è mai stato. Ma un minimo di luce vera, di verità! Tocca le coppie, l’abbaglio di una vita finalmente mia, la parolaccia ormai in uso comune: autorealizzazione; ma tocca anche preti che neppure vivono i sei mesi di una separazione. È la confidenza di un vescovo, e già quindici anni fa: vengono qui non a chiedere un accompagnamento, ma a notificare la decisione di lasciare. Presbiterio? fraternità? condivisione? Macché. La risolutezza prepotente, a volte insolente, di chi ha avuto finalmente l’illuminazione. Nascondendo e nascondendosi. I complici della loro più o meno improvvisata risoluzione – complici ne trovi sempre, perché forse, e nel subconscio, ciascuno si costruisce così un alibi per un potenziale proprio futuro – sono ben lontani dall’essere le vergini che accendono le lampade per rischiarare la strada, a sè  ad altri: risparmiano olio per sé, appunto, e tuttavia presentandosi come prodighi in accoglienza. Pensavo al fasto, lo straordinario che luccica, a stordire, nelle giornate di accoglienza dei preti novelli. Ora mi pare si sia in una sobrietà. Ma fino all’altro ieri arrivavano planando da elicotteri, o su calessi trainati da bianchi cavalli, o sul pianale di un’ape (non diverso da una bianca limousine da sposi) l’una e l’altro, e tutto il resto che ora ho cancellato per insofferenza, a confondere l’impegnativa ferialità del futuro nel bagliore di un giorno. Bagliore che obnubila, vista e sensi che appannano la coscienza: e prima o poi si va a sbattere, come in questi giorni di pioggia torrenziale che ti coglie a sbrinatore bloccato in carrabili di campagna. Gli abbagli possono essere ridotti, se i fidanzati sono finalmente aiutati alla sincerità nel raccontarsi l’un l’altro? e nel raccontarsi davanti alla Chiesa? E se i preti si sono offerti veritieramente al discernimento dei propri sentimenti e delle proprie giuste pretese di vita? ma chi compie il discernimento? Il vescovo che impone le mani? Affidandosi, lui, allo Spirito santo? o a coloro a cui ne ha affidato la responsabilità? Nello stillicidio di preti che lasciano, c’è posto per la tristezza per loro che comunque rimarranno graffiati, e la rabbia per noi che non abbiamo ascoltato  la cadenza appesantita dei loro passi. Ma c’è posto anche per interrogativi che la Chiesa, la nostra di Bergamo e l’universale, può rivolgersi.