Discontinuità

Abitavo al confine con gli ambrosiani, che, si sa, si sentono un po’ diversi. Così le loro tradizioni, scavalcando facilmente il fiume, ci hanno contaminato. Per i doni, intendo, e per quel magico venire dall’aldilà di figure benefiche. Una trepidazione, che in famiglia si alleava a silenzi, a sorrisi, a muschio da raccogliere, a cartapesta da ricomporre in montagnole. Non del tutto,  la contaminazione: non so come dire, ma santa Lucia c’era, seppure solo per qualche mandarino. Chi contava era Gesù bambino. E il mattino di Natale vedevi che era passato lui: un bel po’ di roba, anche se di prossima utilità: guanti nuovo, calze nuove, una sciarpa calda calda, e frutta secca e altri mandarini (quelli veri, quelli col nocciolo e il profumo, che adesso sono giù di moda). E per le bambine capitava, un anno, la bambola che avrebbe accompagnato tutta l’infanzia; per i maschietti un cavallo a dondolo, su cui si dondolavano per qualche ora, il giorno stesso, per poi abbandonarlo nella vastissima soffitta piena di cose impolverate. Comunque: Gesù bambino o santa Lucia, quelli erano. Adesso tocca  a un giovane prete soffrire il lamento di una di quelle mamme illuminate che gli rimproverano di togliere magia all’attesa: perché non parla del babbo natale, quel barbuto sovrappeso che le renne trasportano da una città all’altra. Una discontinuità che chiede di essere guardata bene, per la mediocrità che propone; e per tutte quelle mediocrità che ormai si scontrano con il Vangelo del Signore. E se dunque in questo Natale andasse meno gente in chiesa, perché finalmente s’accorgesse della distanza tra quel che pensa in proprio – o in coda a qualche guru mediatico - e quel che il Vangelo chiede, capite che non sarebbe una perdita. Ma, forse, potrebbe essere il primo passo per accorgersi della necessità di  una discontinuità tra abitudini che non cambiano la propria vita e un agire che cambia la vita altrui: come si può cantare il freddo e il gelo del bambino di Betlemme, rifiutando di lasciarsi prendere le viscere dal freddo e dal gelo dei bimbi - bimbi che tutti rimaniamo, a qualsiasi età, se riconosciamo il bisogno come condizione umana - bimbi che attraversano il mare per trovare terra? Una discontinuità che non può non scendere dai pulpiti delle chiese cristiane, nella santa notte e in tutte le notti di questa ottusa umanità. Poiché il Signore salva nella storia che viviamo, e non dalla storia; non ci chiama fuori, ma vuole immergerci; e questo significa che occorre saper vivere le tensioni di un cambiamento. Che può essere difficile, che può portare a sentirsi su sponde diverse: ma è lì che avviene il “concreto vivente”, non in un utopico paradiso recintato, quale vorremmo figurare questo nostro cadente Occidente. Le resistenze a questa discontinuità, se sono ragionate ben vengano: non possono che migliorare la conoscenza del momento storico che viviamo. Ma se  - facendo eco a parole di Francesco papa - nascono dai cuori impauriti o impietriti che si alimentano dalle parole vuote del “gattopardismo” spirituale di chi a parole si dice pronto al cambiamento, ma vuole che tutto resti come prima; o se sono malevole, ché germogliano in menti distorte e si presentano in veste di agnelli, in nome del buon senso che non è altro che egoismo da lupi: allora no. Siti e antenne, blog e social somministrano paure su misura, sospetti e inimicizie. Se non quando odio. E' questo il tempo di reagire a quella mormorazione di sottofondo che c’è oggi nella Chiesa, e che prende di mira gli orientamenti di Francesco, un papa mandato a snidare accomodamenti scandalosi e rigidità farisaiche: non solo sono operazioni teologicamente approssimative, ma soprattutto esistenzialmente aride. Il Natale può diventare la loro occasione vera di discontinuità. Lo si faccia diventare: è un dovere di battezzati aiutare i fratelli a non nascondersi. Senza cacciar fuori nessuno, ma a tutti dicendo di misurarsi finalmente sul Vangelo, che denuda, che non lascia scampo alle nostre miserie di uomini impauriti dalla novità che salva. Non la forza, se non quella della debolezza che ci portiamo nella carne; non l’esclusione, ma l’ospitalità che dà un tetto a Dio che viene nell’uomo: e questo è il Natale cristiano. 


La palude

Ebbene sì, ho votato sì. Convinto che la vera tragedia di un popolo sta nel rifiutare il cambiamento. Per quanto piccolo, per quanto insufficiente, per quanto ancora correggibile. Ho votato sì contro l’arroccamento di chi ha e non vuol perdere minimamente, chiamando a schierarsi quelli che non hanno e così continueranno a non avere. Ho votato sì, perché, nel dovuto rispetto alla pancia, su una scala di valori la faccio precedere dalla testa. Ho votato sì contro l’ipocrisia di chi si è nascosto dietro un quesito di diversa natura, per tentare un golpe: e dunque quanti (e quanti del sessanta per cento?) non sapevano nulla della legge costituzionale, ma hanno voluto votare contro il governo. Presieduto da un tipo troppo giovane, e troppo bauscia, come direbbero i meneghini. Ai tanti dalema e dalemini settantenni sentirsi scavalcati (e scavalcati nelle cose realizzate dal giovin bauscia) non è andata giù. Ai quinci-e-quindi alla Monti - che pure fu orgoglio presentare in Europa dopo le volgarità berlusconiane – lo scout rampante e intraprendente (con il coraggio, lui, di confessare che “certo, sono cattivo”) per quanto di inglese sapesse tanto da farsi intendere, non pareva proprio destinato mai a indossare un look da montgomery, e dunque...  Tentare di uscire dalla palude: questo il traguardo mancato. Un cronista mi aiuta a stilare la lista della palude politica, dentro cui si è deciso di restare ancora per un po’ (ma quanto? quanti anni?). Dunque la conta. Ben ventitre sono i gruppi in Parlamento: dai cosiddetti «peones», sedici, ai sette di quelli che vorrebbero passare per maggiori. Decisamente non siamo bipolaristi: semmai politicamente bipolari. La rete, quella che i pentastellati prendono come unico riferimento democratico, ha insegnato all’urbe e all’orbo che uno può parlare anche solo per il fatto di esistere, non di avere cose da dire, e magari pensate. E la dimostrazione è tutta lì, in quella processione di facce note e ignote: dalle minoranze linguistiche di Alto Adige e Valle d’Aosta a Civici e innovatori (i superstiti di Monti); da Alternativa Libera Possibile (che abbina fuoriusciti Pd e M5S) a Fare! dell’ex sindaco di Verona Flavio Tosi, al Movimento PPA (partito pensiero e azione). Ma anche sigle storiche ridotte al lumicino (ciò che resta del Partito socialista); e la riapparizione di ex ministri, come l’ exDc (ed exUdc, ed ex Pdl) Rocco Buttiglione (ora di nuovo Udc),  e Carlo Giovanardi (ex di varie sigle, ora di Gal); o Ignazio La Russa (ex Msi ex An, ora Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni); o ancora Bruno Tabacci (altro exDc già presidente di Regione Lombardia, ora con Ds-Cd), e Gaetano Quagliariello, di estrazione radicale, divenuto di Forza Italia, fondatore dell’NCD, che lascia per finalmente fondare Idea. Insomma nani e ballerine. Deputati e senatori, non lo dicono, ma è il loro pensiero unico, hanno una sola preoccupazione: salvare la legislatura, quindi le poltrone, e il vitalizio: il 62% sono di prima nomina; deve passare almeno l’estate prossima; resistere resistere resistere. Questo il vero esito della vittoria del no: una vittoria di Pirro come questa, è da guinness dei primati. Questa la palude da cui un referendum per quanto chiamasse a una legge imperfetta voleva tentare di farci uscire. Ma chi vuol lasciare un posto sicuro, con prebende non certo da insegnanti o infermieri, e con vitalizi che fanno comodo in un paese dove tutti tengono famiglia? anche i celibi? Questo il punto. Si abbatte per restare: non crediate che le manifestazioni annunciate - di chi si dice contrario a un governo subito, per elezioni subito – siano di persone credibili. Per fortuna una giornalista dice in faccia, al supponente di turno, di non riuscire a sopportare più di mezz’ora di frasi fatte. Un bello schiaffo, che manderebbe, chiunque non fosse un piccolo saccente sostenuto da un excomico, dietro la lavagna. Eppure, è su quelle frasi fatte, senza un pensiero, che brava gente (gli italiani, appunto!)  ritengono di affidare un futuro. Da cittadino ho votato sì. Da cristiano mi vanto di non essermi impaludato con chi vive di paura, con chi non sa tradurre la speranza nel difficile dei giorni. Non aspettando la perfezione, ma assumendo il limite.


Ipocrisia

Se hai avuto una settimana di immersione nella Parola, accompagnandoti nel silenzio a monache claustrali; se hai chiuso orecchi e mente a quanto nel frattempo è continuato a succedere oltre le mura del monastero; se, insomma, hai avuto possibilità di un digiuno salutare dello spirito, in quella disintossicazione indispensabile a scovare la serenità degli dei; se questo ti è stato dato, non puoi che ringraziare. E infatti. Se però i primi muri che vedi, nel tornare a casa, non fossero tappezzati  da quei sì e quei no che ti aspettano al varco di una gabina elettorale... I manifesti sono dati per informare. Questi non informano. Soprattutto - spiace dirlo per chi lo voterà convintamente un no dopo essersi altrove informato - quelli del no disinformano. Perché chiamano ad altro rispetto a quanto è richiesto da questa tornata elettorale. Mandare a casa il governo è lecito, talvolta doveroso: ma non è questa la volta. Ma se sei un esodato ancora non rientrato nei parametri pieni che ti aspetti; se sei uno che pensava di andare in pensione tra un anno e invece deve aspettare un po’ di più; se hai preteso dalle banche dell’Etruria di avere interessi impossibili, e adesso ti trovi coinvolto nelle loro crisi (a cui hai partecipato anche tu con una certa tua avidità, ammetti?); se hai un familiare padano o pentastellato che perderebbe il posto nella cancellazione dei senatori; se hai fumo negli occhi per la misurazione delle banane imposta dall’Europa ai tuoi gusti: se per tutto questo dai la colpa al governo e con il tuo no ne vuoi la crisi – come ti invitano a fare i muri degli ipocriti -  sappi che non è questa la votazione. Sappi che giocano sui tuoi risentimenti, che hanno il gorgoglio della pancia sociale, e mai su quel piccolo mal di testa che accetti volentieri purché sgorghi dal consentirti di ragionare. Perché tante bugie, e soprattutto la bugia che ti svia dalla ragionevolezza? E perché entrare nello stagno delle nostre passioni pur di ottenere quel che risulta utile a sé, a un consenso che non promuove ma distorce? L’inganno è diventata una virtù? In politica è ormai così, e negarlo è darci ragione sul fatto che la democrazia non sta più nelle stanze di certi capipopolo. Perché democrazia è libertà nella verità, o non è. Una democrazia che, nelle sue distorsioni, entra pure nella Chiesa. Avere dei dubbi sui pronunciamenti papali, è lecito. Purché siano dubbi sinceri: e non sottigliezze interrogative che nascondono proprie certezze da cui non ci si vuole smuovere. Prima l’episodio non bello di cardinali che pubblicano un libro con l’intento di condizionare il sentire di chi è stato ecclesialmente radunato in Sinodo; poi - a Sinodo concluso con le indicazioni racchiuse nella Amoris laetitia - la recente lettera che torna a ridire di fatto, da parte degli stessi, che l’obbedienza non è più una virtù cardinalizia: perché non è più fondata su quell’umiltà da cui forse si è tratti in inganno dai paludamenti purpurei in cui ci si avvolge. Dire nella Chiesa, dire con la parresia dovuta: ma l’ostinazione? Pietro e Paolo si confrontarono in piedi l’uno davanti all’altro. Ma oggi, davanti a Pietro che Francesco è, i Paolo sono proprio quei quattro emeriti per ufficio, e un pochino meno per virtù? Per grazia, scendendo nella quotidianità dal silenzio corroborante di una settimana di esercizi spirituali - hai  fatto passare innanzi tutto attraverso te la Parola che sei stato chiamato a servire alle sorelle claustrali -  trovi l’intervento del patriarca di Costantinopoli. Che scrive: “Indubbiamente, ad avere soffocato e ostacolato le persone - è stata in passato la paura che un “padre celeste” in qualche modo detti la condotta umana e prescriva le usanze umane. È vero esattamente l’opposto, e i leader religiosi sono chiamati a ricordare a loro stessi, e poi agli altri, che Dio è vita e amore e luce. Di fatto, sono queste le parole ripetutamente sottolineate da Papa Francesco nel suo documento, che discerne l’esperienza e le sfide della società contemporanea al fine di definire una spiritualità del matrimonio e della famiglie per il mondo attuale”. Dover sentire questo nell’ecumene, sarà sufficiente a superare certe occulte ipocrisie che s’annidano dietro dichiarate (ma sospette) sottomissioni?


Serenità

A Lucio Anneo Seneca - che come precettore di Nerone non ebbe certamente una vita facile, né una buona morte, data la costrizione al suicidio – si  attribuisce questo detto: Ecco una cosa grandiosa: avere la debolezza di un uomo e la serenità di un dio. Per i tempi che corrono, un buon detto anche per noi. Mantenere la serenità nonostante le avversità di un mondo che si sta costruendo sulla cyber propaganda, dove la verità non ha casa, e dove diffamazione, false credenze, notizie inventate stanno costruendo una nuova democrazia: quella di popoli che non sanno, pensando di sapere. Pur di arrivare al potere, si cavalcano populismi; e, si dice, ora i populismi hanno trovato il loro leader internazionale: quel Putin di cui non si saprà forse mai come sia riuscito da un giorno all’altro a prendersi il Cremlino. A meno che ci si ricordi della sua provenienza dal Kgb. Può ora ben baciare le icone, e accendere le candele della devozione russa: a nessuno è impedito di convertirsi. Ma se gli atti che seguono sono della stessa natura, se l’avidità del potere è la stessa, come conciliano i nostri capipopolo questa devozione al capo russo, già comunista, loro che hanno indiscutibili matrici di destra? (Populismi che inquinano ormai al di là dell’Oceano, e qualcuno ha scritto così: “L’America cafona, becera, ignorante, cupa, arretrata, razzista, xenofoba, l’America povera non necessariamente di soldi ma sicuramente di idee, l’America che cerca qualcosa in cui credere e che non aspetta altro che una demagogia un po’ cialtrona da abbracciare e a cui aggrapparsi, un improbabile salvatore travestito da Zio Sam che prometta di regalare sogni”). C’è adesso una corsa a Mosca, cominciata dal nostro exCav, di pentastellati e di padani, seppure in concorrenza tra loro, per abbeverarsi alle tecniche di assalto al potere. Che è quello soprattutto di inquinare lo spazio pubblico, mediante l’uso dei social: questa costruzione del consenso fondata su una ammodernata catena di santantonio. Tu dimmi, io diffondo, loro amplificano. Fraudolenti della ragione. Ma la ragione ha come proprio vettore la serenità: che non è passività, ma capacità di accettare quel che non si riesce a cambiare senza tuttavia arrendersi mai. A fronte degli ultimi sondaggi, amici chiedono se vale la pena di andare a votare, dato il profilarsi di una vittoria del no, che non è contro la legge proposta, ma contro il governo: e dunque spostando – fraudolentemente – il voto; e dunque facendosi in un certo modo complici della menzogna del risultato. Serenità non è lo star-sereno che è poi diventato un sarcastico modo di rifilare un tranello. Attingere alla serenità è immettersi nel piccolo resto di chi sorride della fragilità umana, e si mette in servizio a curarla senza tuttavia violentarla. Agire sapendo di perdere è proprio degli dei: che lanciano comunque un segnale.  Uno dei piccoli paesi della Bretagna, affacciati sull’Oceano. Un paese di pescatori, e barche ormai dotate di tutti gli aggeggi elettronici che assicurano una buona navigazione. E tuttavia resta quel faro, bianco sulla cima bruciata di un promontorio, che vogliono continuamente alimentato: anche se nei giorno di nebbia fittissima la sua luce  non guida. Ero lì, in uno di quei giorni di nebbia: e ho udito il singulto della sirena del faro. Forse oggi occorre essere quel singulto: senza violenza, e tuttavia macerante l’anima di chi ancora la tiene almeno un po’ aperta. Ed questa la serenità: non arrendersi, non lasciarsi sopraffare dalla delusione per quest’uomo che ci abita attorno, per questa democrazia che non attinge alla verità. Vale per questo mondo l’antica e sempre nuova parola evangelica: le porte degli inferi non prevarranno. Se qualcuno tiene acceso in luce e suono il faro della difficile ma sorprendente navigazione della vita.


Sopportare

Il Papa ha dedicato l’ultima udienza generale del Giubileo, all’opera di misericordia del sopportare con pazienza le persone moleste. È una riflessione che merita attenzione per i giudizi cui ci chiamiamo sia sulle persone di chiesa sia su quelle di servizio alla politica.

«Dedichiamo la catechesi di oggi a un’opera di misericordia che tutti conosciamo molto bene, ma che forse non mettiamo in pratica come dovremmo: sopportare pazientemente le persone moleste. Siamo tutti molto bravi nell’identificare una presenza che può dare fastidio: succede quando incontriamo qualcuno per la strada, o quando riceviamo una telefonata... Subito pensiamo: “Per quanto tempo dovrò sentire le lamentele, le chiacchiere, le richieste o le vanterie di questa persona?”. E anche noi possiamo essere molesti! Succede anche, a volte, che le persone fastidiose sono quelle più vicine a noi: tra i parenti c’è sempre qualcuno; sul posto di lavoro non mancano; e neppure nel tempo libero ne siamo esenti. Che cosa dobbiamo fare? Perché tra le opere di misericordia è stata inserita anche questa? Nella Bibbia vediamo che Dio stesso deve usare misericordia per sopportare le lamentele del suo popolo, ad esempio nel libro dell’Esodo il popolo risulta davvero insopportabile, ma Dio ha avuto pazienza e così ha insegnato a Mosè e al popolo anche questa dimensione essenziale della fede. Facciamo mai l’esame di coscienza per vedere se anche noi, a volte, possiamo risultare molesti agli altri? È facile puntare il dito contro i difetti e le mancanze altrui, ma dovremmo imparare a metterci nei panni degli altri. Guardiamo soprattutto a Gesù: quanta pazienza ha dovuto avere nei tre anni della sua vita pubblica! Una volta, mentre era in cammino con i discepoli, fu fermato dalla madre di Giacomo e Giovanni, la quale gli disse: “Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno”. La mamma faceva lobby per i suoi figli. Anche da quella situazione Gesù prende spunto per dare un insegnamento fondamentale: il suo non è un regno di potere e gloria come quelli terreni, ma di servizio e donazione agli altri. Gesù insegna ad andare sempre all’essenziale e a guardare più lontano per assumere con responsabilità la propria missione. Potremmo vedere qui il richiamo ad altre due opere di misericordia spirituale: quella di ammonire i peccatori e quella di insegnare agli ignoranti. Pensiamo al grande impegno che si può mettere quando aiutiamo le persone a crescere nella fede e nella vita. Penso, ad esempio, ai catechisti – tra i quali ci sono tante mamme e tante religiose – che dedicano tempo per insegnare ai ragazzi gli elementi basilari della fede. Quanta fatica, soprattutto quando i ragazzi preferirebbero giocare piuttosto che ascoltare il catechismo! Accompagnare nella ricerca dell’essenziale è bello e importante, perché ci fa condividere la gioia di gustare il senso della vita. Spesso ci capita di incontrare persone che si soffermano su cose superficiali, effimere e banali; a volte perché non hanno incontrato qualcuno che le stimolasse a cercare qualcos’altro, ad apprezzare i veri tesori. Insegnare a guardare all’essenziale è un aiuto determinante, specialmente in un tempo come il nostro che sembra aver perso l’orientamento e inseguire soddisfazioni di corto respiro. L’esigenza di consigliare, ammonire e insegnare non ci deve far sentire superiori agli altri, ma ci obbliga anzitutto a rientrare in noi stessi per verificare se siamo coerenti con quanto chiediamo agli altri. Non dimentichiamo le parole di Gesù: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”. Lo Spirito Santo ci aiuti ad essere pazienti nel sopportare e umili e semplici nel consigliare».


Popolo

Ti svegli alle sei e un quarto, qualche rapida preghiera per dire al Signore che ci sei, e che vorresti restare davanti ai suoi occhi tutto il giorno, poi accendi la tv per la rassegna stampa che segui ogni mattina. Ed ecco lì il flash: qualche punto ancora, e Trump sarà il presidente degli U.S.A. Per prassi impiantatasi da un secolo, presidente del mondo. Che la sua biografia non sarebbe stata sufficiente a porre degli interrogativi agli elettori d’oltre oceano, non è stato messa in conto da quasi tutti i politologi, i giornalisti e i benpensanti, convinti di una straripante vittoria dell’avversaria: ma chi votava lì era l’istinto, la rabbia. Non la testa. E questo, subito, mi fa ancor più convinto - come ho scritto anche recentemente, scomponendo qualche mio lettore per  il manifesto political incorrect  - che il voto del popolo non è la democrazia, come la si intende a piani alti, quei piani a cui non accederanno mai né i Salvini né le Le Pen, né i fautori della Brexit: ragionevolezza dell’agire per il bene comune. Il popolo – inteso come comunità che vive una appartenenza di reciproco rispetto – non è quello che è chiamato ai seggi, sia in America, sia ora in questa vecchia Europa. Chi ama le divise non ama la conoscenza: e dunque non si cura della biografia di chi elegge a proprio guru, per spingerlo al comando di una nazione. E la biografia di quell’uomo oggi eletto non avrebbe dovuto impensierire solo femministe o benpensanti: una serie di tre mogli (ma questo sembra essere un dato per i capi del populismo anche nostrano: sia la francese che il padano sono anch’essi arrivati, ad ora, a tre partner): e questo nel partito dei protestanti conservatori e puritani?; un affarismo che conduce alla bancarotta ben quattro compagnie, con migliaia di disoccupati, e fornitori non pagati? eppure sembra abbia vinto per lo zoccolo duro dei lavoratori bianchi; un evasore delle tasse, che con una schiera di agguerriti avvocati se la cava, e per un miliardo di dollari: ma non è quello il paese dove l’infamia più grave è appunto quella di non pagare le tasse? E quelle uscite, di una insolenza impossibile da sopportare? Forse la promessa del muro lungo tutto il confine messicano, che gli sarà impossibile da realizzare, gli alienerà tra quattro anni la simpatia di quei nativi bianchi che ad ogni sfumatura di colore, ispanica o afro, vedono rosso come tori in arena? Forse, ma non è detto. Eppure lui è figlio di emigranti tedeschi (e dunque per razza ariana più bianco dei bianchi nativi?). Non conta nulla. Non conta quel che non si conosce, o non si vuol conoscere. Conta l’immedesimarsi dentro una divisa, tanto più pericolosa quanto più la si vuol più pulita che più pulita non si può (vero, grillini, fautori dell'onestà altrui?). E questo è la radice di ogni nascente fascismo. Da di là dell’oceano è suonato un allarme. Non solo là, ma qui: le chiese sapranno tradurre per i propri praticanti la radicalità del Vangelo, che se perdona i peccatori, tuttavia lotta contro il male? E sposterà finalmente l’attenzione su quei peccati sociali che gridano vendetta al cospetto di Dio? per avvertire che non può entrare nell’Eucarestia chi non lascia entrare dalle sue mura chi cerca cibo e libertà? Sono le sette e trenta: spengo, e prego il Signore di restare con i suoi occhi davanti a questo mondo.   9 novembre 2016. - P.S. poi ricordi una foto del Clinton giovane, il marito: cappellone e spinellatore: a parte qualche incidente da sottoscrivania, non è stato un malo presidente. Di tutti si può sempre aspettarsi che entrino in responsabilità. Lo sia anche questo fabbricante di sogni tristi. Tristi per una umanità che si vorrebbe migliore, e da subito, a cominciare dai suoi capi. Ma le biografie possono cambiare in meglio


Commemorare

I cattolici non festeggiano i 500 anni della riforma luterana. Commemorano. Fanno memoria. E lo fanno nella persona di papa Francesco che incontra i luterani svedesi nella loro casa. Questo giorno di ecumenismo, dove ciascuno sta sul suo cavallo, ma non innesta un’asta di guerra con l’altro, trova oppositori sia tra cattolici sia tra protestanti. Persino noi, in questo piccolo luogo collinare, ci siam visti strappare in Abbazia, dal “muro” che racconta di settimana in settimana, i nostri convincimenti, l’annuncio di questa visita: fogli strappati in quattro parti, e abbandonati lì, in terra, in un segno di avvertimento violento. Un cattolico con gli occhi rivolti all’indietro? o un protestante di passaggio, fiero di una diversità che si esprime opponendosi? Pensare a una guerra di religione tra cristiani, oggi, è la cosa più triste che si possa dare. Oggi: quando più che nel passato il sangue di martiri di diversa confessione cristiana si mescola nelle terre nordafricane e in Siria. E triste è vedere un accanimento, in casa nostra, che prende a bersaglio qualsiasi gesto per opporre un proprio rifiuto allo stesso Francesco. O usare di qualsiasi occasione: persino il terremoto, che nel crollo della cattedrale di san Benedetto a Norcia vede il disgregarsi della Chiesa. Una Chiesa di cui, per colpa dell’attuale papato, resterebbe solo la facciata. Una Chiesa che non sarebbe più quella dei tempi di Benedetto, costruttore dell’Europa: un continente ormai lontano da Cristo, tanto quanto fu avvicinato a Lui dal Santo di Norcia. Che poi il papa attuale venga dall’altra parte dell’oceano, dove i cristiani vivono lontano dalle fissità religiose occidentali; che poi chiami a quella misericordia senza la quale non si dà Dio, quello rivelato dalla passione per gli uomini del Figlio da lui inviato nel mondo; che poi Lutero abbia innescato una preziosa riforma - erroneamente chiamata controriforma, nella dimenticanza che sempre la chiesa è reformanda - chiamandoci alla necessità della Scrittura nella costituzione delle pratiche di culto e di carità; che poi questo per qualcuno non sia - che dire? Che Lutero può non piacerci per come ha concluso l’intuizione che primariamente lo ha mosso? Che è finito nell’infernale girone del potere, giustificandolo se accumulato dai principi tedeschi invece che da Roma? Che sulle sue tesi non propriamente affisse a Wittenberg quel 31 ottobre di cinquecento anni fa, e tuttavia certamente sue anche se in data posteriore, siamo colpiti dall’incoerenza di un processo di conversione che si è subito svolto in uno stato di separazione? Non festeggiamo le guerre di religione che ne sono nate; né le migliaia di separazioni di cui i protestanti hanno sofferto, e soffrono, così sconfessando loro l’opera di Lutero. Ma siamo nell’anno della misericordia: vogliamo pregare perché Lutero ne abbia? E ne abbiano quanti, cattolici, si accaniscono oggi ripetendo, mentre lo condannano, lo stesso che fece allora quel riformatore? che da puro si è ritrovato impuro di fronte alla veste senza cuciture del Signore? Loro che si rappresentano puri, nascondendosi nelle pieghe del papa emerito che pure li ha sconfessati? Noi facciamo memoria: perché camminando insieme, ancora su due linee parallele, in alcuni punti possa capitare quanto succede ai binari che si incrociano, per svoltare, quando hanno chiara la meta. E la nostra è Gesù il Signore, e non le Chiese, che sono solo il camminamento terreno che dovrebbe portare a Lui.


Responsabilità

La Chiesa cattolica inglese si è schierata contro la decisione di Londra di uscire dall’Ue e ha firmato molti appelli a favore dell’Unione insieme al primate anglicano, Justin Welby, e molti altri leader religiosi inglesi. Provate a immaginare, a poco più di un mese dal referendum che ci aspetta, se la Chiesa italiana si mettesse di buzzo buono a dire: guardate che per essere cittadini responsabili, occorre votare dicendo sì o no a quel che viene proposto – all’oggetto di quella chiamata alle urne – e non sul consenso a un presidente del Consiglio. È sicuro, volete scommettere?, che immediatamente verrebbe accusata di intromettersi: e da chi naturalmente meno gli importa della materia referendaria, e più di riuscire a ottenere un proprio risultato politico, cacciando un avversario per vie traverse a quelle che pure osano chiamare di democrazia. Eppure: non si può essere cittadini senza essere responsabili. E la responsabilità implica innanzitutto il limite. Il limite del conoscere per scegliere.  Credo che dovrebbe preoccupare quanti “pensano”. Ci si era illusi, scrive il sociologo francese Gérald Bronner, che internet avrebbe diffuso una società delle conoscenze, una democrazia del sapere. Invece ha «accresciuto la forza delle credenze». Che ancor prima di essere quelle religiose – a cui si potrebbe pensare che la parola credenze rimandi – sono quelle delle piazze virtuali  nelle quali tutti si rappresentano capaci di tutto. Anche di scegliere senza conoscere. E così si è diffusa “l’impressione del sapere”, che esclude ormai l’ignoranza, che è invece il principale motore del conoscere. Solo se ho coscienza che non so, mi metto nella condizione di poter apprendere. Così è per quanti soprattutto, di fronte a problemi, non avendo altri argomenti, rimandano a quel facile capro espiatorio che è “siamo in un paese cattolico”. Che è come dire che quelli cresciuti in altra visione religiosa sono necessariamente meglio: i paesi del nord, luterani, quelli con il Welfare dalla culla alla tomba. Se vuoi conoscere la realtà vera, e non quella favola di paesi del benessere, basta darsi un poco a quella letteratura che nella forma del “giallo”– fortemente connotata da una lettura disincantata del proprio paese – descrive una violenza diffusa, e una fuga dalla responsabilità della cura di sé e del prossimo. Cosa che può naturalmente piacere a chi sogna un individualismo senza limiti. Ma che incappa inevitabilmente nel limite di una vera libertà: che non sia quella di rinchiudersi dentro casa, e dentro un bere che stordisce tutto un weekend. Guardare dunque in casa nostra, non per coprire le problematicità che abbiamo, o che stiamo importando, ma per dirci fino a quando potremo nasconderci dietro la fiaba dell’essere retrivi solo per essere in un paese ad educazione cattolica. Ed è stato il radicalismo di cui ha sofferto la Chiesa italiana, per cui non poteva “fare politica”: per la  leggenda che se i preti avessero parlato in prossimità di eventi da cabina elettorale, avrebbero sicuramente spostato i voti. Vero per un certo momento degli anni cinquanta del secolo scorso, ma inverosimile in questo tempo, dove la chiamata è alla maturità del giudizio. Che è esattamente l’opposto di quel mondo virtuale, che impone classi politiche messe su dalla paura dei pochi che agiscono senza pensare (su quattromila abitanti, centocinquanta fanno barricate per impedire l’accoglienza di dodici donne finalmente liberatesi dalla schiavitù: è questo il potere del popolo?!). Quando cominciò a comandare l’urlo, dalla notte dei cristalli si è scivolati nei campi di sterminio. Se i preti chiedono di pensare per poter determinare  la logica di convivenza della polis, si schierano, o invece producono quei sentieri di libertà senza dei quali l’ignoranza sale al potere?


Fraternità

Nella chiesa d’Inghilterra le barzellette arrivano in ritardo (come in ritardo, agli inglesi, arrivano i pentimenti per non accorgersi – loro, i grandi conquistatori del passato – che la storia li sorpassa. Ma questa è questione di Brexit). Forse arriva in ritardo anche in Argentina? O è stato solo un fair play da parte del papa? Certo mancava una gran risata di Francesco: bei sorrisi, e ampi, ma una risata da scrosciare sulla sedia questa ci mancava. E grazie al Primate anglicano. Uno che dev’essere speciale, se è vero che i padri sono fatti “più” speciali dai figli. Non tutti forse sapete che il Primate ha un figlio romanziere, che ha inventato un pastore detective: alla padre Brown per intenderci (è quel risvolto cattolico mai risolto, a mio parere accompagnato da secoli di senso di colpa per un Enrico che li ha svoltati loro malgrado: però, i sensi di colpa, come si sa, se non affrontati, possono generare ulteriori perdite d’orizzonte; ed è ciò che sta allontanando in questi decenni ancor più la chiesa anglicana da quella cattolica, nella visione gerarchica, e dunque di servizio, non di apparenza, né di potere, che il Vangelo chiede alle sue guide). Certo, non ancora Chesterton, ma si spera che ci arrivi il figlio giallista. Dunque la risata - o meglio le risate perché il Primate ha riso con il papa della propria barzelletta - è scaturita da «Sai qual è la differenza tra un liturgista e un terrorista? Con il terrorista si può trattare!». Ripeto: vecchia, vecchissima, e perciò attuale. Chi s’impalca a liturgista, attingendo al proprio sentire di gusto, non sente ragioni altrui: si fa così. Inutile tentare con dei ma, che arrivano da un richiamo alla essenzialità del rito: si fa così perché... e lì naturalmente si blocca tutto, perché un perché non c’è: e tuttavia resta, intangibile, il si fa così. E lì un perché riceve la risposta più antica che esista nelle parrocchie: perché il parroco sono io. Così dalla liturgia si scivola nella pastorale, e dalla pastorale a quel lato amministrativo che compensa, in molti presbìteri cattolici, la loro mancata paternità biologica. Poi è gente che scrive di partecipazione dei laici, o di condivisione presbiterale, magari imbastendo anche convegni sulla fraternità, che servono solo a parlarsi addosso. Perché non c’è che mettere insieme quattro o cinque di quelli, con qualche donna prona e qualche maschio incensiere, per suscitare un movimento, seppure della lunghezza di un’onda in un bicchiere. Onda corta, ma che può far tracimare la goccia che sporca tovaglie di lino. Che sporca l’essenzialità richiesta alla Chiesa: essa, se non deve vivere di uniformità, tuttavia non può mai tentare lo strappo della veste senza cuciture, veste di unità, del suo Maestro. E questo avviene là dove “fa fino” cavalcare l’opporsi per l’opporsi, la moda del distinguersi comunque, dicendo no agli altri per dire sì al proprio ego. Da una parte e dall’altra: e dunque personalmente non mi tiro fuori da questo dito che punto. Ma insomma, c’è chi se ne rende conto, e tenta di emendarsi (tenta?!) e chi no. Ad esempio, prendete chi oggi si oppone al papa: si oppone ai contenuti, o allo stile? e dunque alla freschezza, che non usa giri di parole per riportare le parole al Vangelo? Temono di patire un raffreddore per il vento nuovo? Non ricordano che la Pentecoste è stato un vento di fuoco? Confrontarsi davvero, partendo da una conversione che non fa della fraternità un bel tema da locandina. Confrontarsi perché libertà e uguaglianza siano le basi: libertà dell’avversare, uguaglianza nell’esserci. Senza la stupidità dell'ostinarsi su di sé. È l’indispensabile di una fraternità che non sia un embrassons nous, per lo più formale e poco convincente. Giusto come gli abbracci sul presbiterio di certe cattedrali o in certi altri templi cattolici. (O anche anglicani?). Abbracci che non abbiano il sentore della complicità, ma della verità su di sé e sull'altro.


Capacità

Capacità di vangelo, di eucarestia, di carità. O incapacità, su cui il “conosci te stesso” può finalmente dire quanto uno è credente. Quelle tre indicazioni sono state il filo di un triennio, ma sono il filo conduttore di una vita cristiana: capacità di Vangelo, dunque di ascolto; di eucarestia, dunque di apprendimento dell’amore di Dio; di carità, e dunque di traduzione sul prossimo dell’ascolto della Parola per la via, e dell’amore riversato dal Dio eucaristico su di noi. Chiamati a vederlo, il prossimo, a sentirlo come vediamo noi stessi e come noi in noi ci sentiamo. Meno uno si conosce in se stesso, meno saremo capaci di compassione: essendo per sé la prima compassione. Sto ripassando queste linee date alla nostra Chiesa di Bergamo, e mi accorgo che (conoscendo me conosco gli altri!) ne siamo molto lontani. Lontani dunque anche dal Signore? Beh, questo è più difficile da dire, anche perché sappiamo che noi lontani da Lui, ma Lui sempre vicino a noi. Si dà il caso di parecchi che si attengono ai comandamenti e tuttavia restano lontanissimi da Dio. E si dà il caso del contrario. E di altri che vivono molto di atti religiosi, ma meno di fede. E tra l’una e l’altra ci può essere un abisso. Scandaloso, per chi guarda da fuori; e rattristante per chi vede da dentro. Nella Chiesa c'è abbastanza luce per chi crede e abbastanza ombre per chi dubita, scrive Pascal. Certo è che ognuno di noi ha differenti debolezze, differenti vizi derivanti dal suo patrimonio genetico, dalla sua indole, dalla sua biografia. È esperienza di ogni giorno: gli ostacoli all'amore che si fa prossimo sono differenti per ogni individuo. Ma se il vivere (soprattutto) di religione invece che di fede tocca i pastori della Chiesa? Di p maiuscola o minuscola che siano? Da noi, nelle parrocchie, e sotto l’egida di un vescovo, ci stanno i parroci e i curati: i primi sono i responsabili in primis, gli altri vicari o coadiutori. Tutti preti, ma... ma di difficile composizione se il responsabile in primis ha nel suo invincibile subcoscio (che a volte si rivela) “il parroco sono io”: detto in opposizione al suo coadiutore o ai laici. [E lì si può leggere l’incapacità di far avvenire quanto si è ascoltato dal Vangelo,  celebrato nell'eucarestia, e non si sa tradurre nelle relazioni. Che ti vale credere che Dio è nato nella carne, se non lo fai nascere nella tua carne? insegnava un antico Padre della chiesa]. Curato è un titolo che nella chiesa ambrosiana indica il nostro di parroco: indotto da quel curé francese, di cui si conosce l’accezione soprattutto per il Curé d’Ars. Ma è molto significativo: curato per mettersi in cura. Curato dall’amore di Dio e di tanti, per sapere a partire da Sé come prendersi cura di chi ti è affidato. Calare dunque i comandamenti del Signore alla misura dell’uomo: quello che tu sei e quello che l’altro è. Qui il segreto che svela le incapacità: di predicazione e di gesti. Per rimediarle al meglio. Capacità o incapacità da cittadini e da credenti: per l’unica strada che impedisce il nascere delle guerre, che scaturiscono da quel mio e tuo che non accomuna mai gli uni agli altri ma li divide, impedendo la condivisione degli obiettivi per l’unica cosa che importa per una pace: la polis, questa fabbrica continua della composizione umana. Ecco perché, a partire da una testimonianza vera dei credenti, si può esigere, anche da chi credente non è, che si accorga di quell’essere curato per poter disinteressatamente prendersi cura: capi o capetti della politica, che non si inventano ma si riconoscono messi lì a vivere di onestà e competenza. E di capacità sull’una e sull’altra. Che non si danno se non ci si riconosce nei propri limiti per specchiare al vero quelli altrui. Se la politica è la strada dei compromessi, non lo può mai essere al ribasso; e se la fede è quell’urgenza difficile che ti fa distinguere dalla religione, non può mancare il perché ultimo: per non arenarsi dentro una città terrena che si rinchiude in se stessa, negli interessi del mondo che separano dalla speranza ultima che regge questa consorteria provvisoria della terra. Capaci di onestà e di competenza: su di sé per incontrare gli altri in verità. E servirli senza lasciarsi fermare dagli steccati delle diversità. Umane e culturali. Solo così si è un buon politico e un buon curato.