A Lucio Anneo Seneca – che come precettore di Nerone non ebbe certamente una vita facile, né una buona morte, data la costrizione al suicidio – si  attribuisce questo detto: Ecco una cosa grandiosa: avere la debolezza di un uomo e la serenità di un dio. Per i tempi che corrono, un buon detto anche per noi. Mantenere la serenità nonostante le avversità di un mondo che si sta costruendo sulla cyber propaganda, dove la verità non ha casa, e dove diffamazione, false credenze, notizie inventate stanno costruendo una nuova democrazia: quella di popoli che non sanno, pensando di sapere. Pur di arrivare al potere, si cavalcano populismi; e, si dice, ora i populismi hanno trovato il loro leader internazionale: quel Putin di cui non si saprà forse mai come sia riuscito da un giorno all’altro a prendersi il Cremlino. A meno che ci si ricordi della sua provenienza dal Kgb. Può ora ben baciare le icone, e accendere le candele della devozione russa: a nessuno è impedito di convertirsi. Ma se gli atti che seguono sono della stessa natura, se l’avidità del potere è la stessa, come conciliano i nostri capipopolo questa devozione al capo russo, già comunista, loro che hanno indiscutibili matrici di destra? (Populismi che inquinano ormai al di là dell’Oceano, e qualcuno ha scritto così: “L’America cafona, becera, ignorante, cupa, arretrata, razzista, xenofoba, l’America povera non necessariamente di soldi ma sicuramente di idee, l’America che cerca qualcosa in cui credere e che non aspetta altro che una demagogia un po’ cialtrona da abbracciare e a cui aggrapparsi, un improbabile salvatore travestito da Zio Sam che prometta di regalare sogni”). C’è adesso una corsa a Mosca, cominciata dal nostro exCav, di pentastellati e di padani, seppure in concorrenza tra loro, per abbeverarsi alle tecniche di assalto al potere. Che è quello soprattutto di inquinare lo spazio pubblico, mediante l’uso dei social: questa costruzione del consenso fondata su una ammodernata catena di santantonio. Tu dimmi, io diffondo, loro amplificano. Fraudolenti della ragione. Ma la ragione ha come proprio vettore la serenità: che non è passività, ma capacità di accettare quel che non si riesce a cambiare senza tuttavia arrendersi mai. A fronte degli ultimi sondaggi, amici chiedono se vale la pena di andare a votare, dato il profilarsi di una vittoria del no, che non è contro la legge proposta, ma contro il governo: e dunque spostando – fraudolentemente – il voto; e dunque facendosi in un certo modo complici della menzogna del risultato. Serenità non è lo star-sereno che è poi diventato un sarcastico modo di rifilare un tranello. Attingere alla serenità è immettersi nel piccolo resto di chi sorride della fragilità umana, e si mette in servizio a curarla senza tuttavia violentarla. Agire sapendo di perdere è proprio degli dei: che lanciano comunque un segnale.  Uno dei piccoli paesi della Bretagna, affacciati sull’Oceano. Un paese di pescatori, e barche ormai dotate di tutti gli aggeggi elettronici che assicurano una buona navigazione. E tuttavia resta quel faro, bianco sulla cima bruciata di un promontorio, che vogliono continuamente alimentato: anche se nei giorno di nebbia fittissima la sua luce  non guida. Ero lì, in uno di quei giorni di nebbia: e ho udito il singulto della sirena del faro. Forse oggi occorre essere quel singulto: senza violenza, e tuttavia macerante l’anima di chi ancora la tiene almeno un po’ aperta. Ed questa la serenità: non arrendersi, non lasciarsi sopraffare dalla delusione per quest’uomo che ci abita attorno, per questa democrazia che non attinge alla verità. Vale per questo mondo l’antica e sempre nuova parola evangelica: le porte degli inferi non prevarranno. Se qualcuno tiene acceso in luce e suono il faro della difficile ma sorprendente navigazione della vita.