tradimento?

È bene che ce lo ricordiamo, il giorno dopo il primo anniversario. Perché sembra passata un’epoca, con il vento di Francesco papa. Oggi è il giorno dopo di un anno dopo. Benedetto papa lascia: il più alto atto di governo che potesse fare, riconoscendosi uomo in una fragilità che nessun crisma dell’alto può guarire. Più di tutti conscio degli ultimi tempi del suo predecessore – nei quali il “papato” non poteva più, per la paralizzante malattia, essere nelle sue mani, e dunque anni nei quali chi ha diretto la barca di Pietro non ne era investito – responsabile nella Chiesa di un servizio pieno che sentiva non essergli più possibile, Benedetto riconsegna la Chiesa alla Chiesa. Gesto di una grandezza per cui sarà ricordato nella storia: non costretto come Celestino V, grandeggia fin d’ora pur nel nascondimento dei giardini vaticani. Ma la risonanza allora non fu di riconoscimento unanime: una frangia, quanto ampia si rivelerà nei mesi successivi con il crescere dei “nemici” di papa Francesco, lo imputerà di tradimento. Un papa è per sempre (sarebbe della massima carità non ricordare la gaffe dell’exsegretario facente funzione di papa, quando proclamò che l’altro non scese dalla croce? o sarebbe massima carità ricordarlo, perché nessuno si nasconda dietro quell’exsegretario divenuto cardinale, per continuare in una idolatria del ruolo a scapito dell’obbedienza al Signore che ognuno deve, qualsiasi vocazione abbia?). E la foto del fulmine, sopra la croce della basilica? Quello che l’ha venduta, non vuoi pensare che sia stata ritoccata?, è stato un genio, prestando il fianco a quei fenomeni paranormali di cui alla fine si beano proprio quelli che vedono tradimento in un gesto di santità. --- Ma è anche il giorno dopo della parola tradimento buttata addosso a Napolitano, il presidente di tutti gli Italiani: meno che mio, dicono i leghisti, subito seguiti a ruota dai lettori del giornale di famiglia. E non un anno fa, ma ieri. Avrebbe tradito perché è stato avveduto; ha tradito perché ha cercato di salvare il salvabile, in un  momento di bufera nazionale? Ma questo ce lo diciamo noi. Per loro, avendo corta la memoria (o falsificata a tal punto che la verità è una donzella da stuprare a volontà?) sarebbe stato traditore anche quando ha impedito che in quel novembre dell’11 si andasse a votare, in un momento in cui il capo della loro coalizione sarebbe stato asfaltato, ed oggi non sarebbe qui a risalire dalle ceneri delle loro poltrone. Siamo in tempi  non proprio belli: ci sono ditte delle demolizioni che sono molto brave nel loro mestiere; ma non gli affidereste la ricostruzione: non ne sono capaci. Ad oggi sono stati all’opera i demolitori: grillini leghisti forzitalisti sellisti dpsuicidi. La loro opera l’han fatta: ora chiamiamo altre ditte. Sennò ci ritroveremo a far di conto con nazionalismi e populismi che vogliono distruggere l’Europa per rinserrarsi nei loro orti: a riprendere le guerre di confine tra alto e basso Tirolo o tra Alsazia e Lorena. In attesa di qualche ducetto, di carriera comico, o con le medaglie di figlia di - come quella pasionaria a cui non si vergogna d’andare a braccetto quel lombardo attingente al lauto stipendio europeo (in euri) mentre sbraita che l’euro ci sta portando alla rovina: quello che gli diamo noi ci sta portando alla deriva. Al posto di un Presidente con la testa da generale, ci ritroveremmo sergenti con i piedi pesanti. Altro che tradimento.


pace e guerra

 “Se siamo capaci di investire tante energie per la guerra, perché non facciamo altrettanto per costruire la pace?” ripete il gran vescovo Bettazzi: già propulsore di Pax Christi in Italia, forse allora pensando ai grandi conflitti mondiali, e meno a quelli italiani. Quelli che sono arrivati, in questi ultimi mesi, a un vero e proprio guerreggiare tra parti opposte – per il momento senza spargimento di sangue, ma per il momento - con tuttavia violenze parlamentari degne dell’aula sorda e grigia degli anni venti del secolo scorso: e tutto nella previsione di prendersi manciate di voti, cavandoli dalla pancia della gente, con cui rinforzare la poltrona del proprio cervello senza sinderesi. Insulti fatti diventare slogan che rasentano razzismo e sessismo, in una chiamata alle armi che fanno, di tanti sedicenti rappresentanti del popolo e loro seguaci, dei graffitari sconci sui muri dei siti web. A volte si potrebbe pensare che molta acqua battesimale sia andata sprecata; e dunque -  avviso agli interessati – è inutile che si chieda lo sbattezzo: si potrebbe già essere inseriti nella categoria di quanti sono passati attraverso il segno, sensibile ma inefficace su di loro. È un nuovo possibile presumere tomista? I fatti di questa patria di navigatori e poeti, e di quanto altro ci hanno illuso di essere, dicono che adesso non è più patria di santi, nel significato di santificati: è troppa l’assenza dei doni dello Spirito che fin dal Battesimo sono dati con l’unzione crismale! È vero che lorsignori non sono gli italiani, ma sono molti di costoro che li mantengono lì: così, contro tanto becerume, un  vescovo ha potuto scandire uno scan-da-lo-so che non si sentiva da decenni dalla bocca della Chiesa in Italia. Che, se nella prima repubblica ha tenuto i suoi intrecciparticulari con parti non sempre sacrosante della politica italiana, aveva tuttavia come interlocutori persone di una, almeno passabile, dignità. Ma davvero la pace vale la guerra? Non ricordo se nell’Iliade o nell’Odissea: il gran poeta scrive che le guerre sono un dono degli dèi, perché  sennò ci sarebbe poco da raccontare. Se si potessero dimenticare le meschinità che le fanno scoppiare (questo pezzo di terra è mio) e le atrocità che provocano (lacerazioni di corpo e di anima) si potrebbe condividere. Poi, infatti - al lume ella tua infanzia - ci si racconta storie di amicizie che hanno la loro essenzialità desiderabile, nella loro inconfutabile verità: nel fango di una trincea a cullare un compagno sull’orlo della morte, o nelle marce senza scarpe, spalla a spalla per tenersi su, verso la Francia da conquistare!; o nella scheggia da bombardamento che si prende tua zia nel coprirti bambino; nel pane nero condiviso con chi neppure quello ha, o nell’aprire la tua casa agli sfollati dalla metropoli, che non dimenticheranno più di essere stati per qualche tempo la tua famiglia. Preferiremmo non avere storie così? Storie del fronte e storie delle retrovie? Sì e no. Come ci si convince al bene che le amicizie danno alla pace, se non ci fosse il dramma a ricordare che non c’è retorica nella vita? E che l’amicizia sta lì a dirti che se tradisci, tradisci la vita e inneschi una guerra? Cruenta o incruenta, l’una non è meno insana dell’altra. Investire nella pace è investire nel prossimo che ti è dato come salvezza, non tradendolo per qualcosa che non si dà: non conta chi lo dice, conta che lo si sappia.


domande

Di questa stagione, poco dopo Natale, s’andava nell'alta Svizzera. Con un amico prete, o con un amico e basta. Qualche giorno di sosta, da un missionario degli emigranti italiani di ormai terza generazione. Una bella cittadina, Kreuzlingen, con la chiesa in luminoso barocco dedicata a St. Ulrich. Da questa parte del lago di Costanza, che è invece una città triste con chiese cupe. e una storia che la stigmatizza al grigio. In un appartamento arredato nello stile elegantemente sobrio, ci si faceva da mangiare, si giocava a carte, si leggeva, ci si torceva in discorsi da massimi sistemi - ma senza le paturnie che li accompagnano nel luogo di lavoro; nessuna sbarra alle finestre che si alzavano a solo un metro da un prato innevato:  arricciate tende di pizzo a lasciar fuori eventuali  sguardi indiscreti. Un tempo fermato dentro spazi lontani dalla frenesia che coglie pure una vita da prete: già al valico del San Bernardino lo strapieno di nevicate, ogni anno, separava dal mondo da cui si veniva. Strano – lo penso ora come allora – il bisogno di mettere tra te e quelli con cui vivi la quotidianità, questo stacco, una volta tanto: per riprendersi, nel senso di riprendere quel sé che si diluisce e confonde nelle relazioni necessitate dalla vita? dunque per far riemergere, per re-intimizzare, quei cunicoli di luci e ombre che si confondono nella dispersione dei giorni? Domande. L’angolo migliore era l’ora sul lago: piene di neve le sponde in cui affondavano i passi, pieno di neve il grigio del cielo; intabarrati contro il freddo, a guardare le anatre galleggianti sulla distesa plumbea: immobili per lunghi momenti, spostandosi di poco con un sommesso qua qua. Se non fosse che non c’è reincarnazione, direi che fossero anime messe lì a riflettere le nostre: sospese le loro, e sospese le nostre, a cercare. Il dare senso all'impulso di trovare i perché, lì era impellente: il perché del bene radicale che tuttavia non sconfigge il male storico, in sé e in questa terrestrità umana.  Delusioni e illusioni, disagi e incertezze, voglie e desideri di altro. Tutta la pochezza a risalire quella che infstisce, ma tutta la forzaconsapevole a spingere il ricominciamento. Insomma, tre giorni di esercizi cristiani. Perché non più? non più così? Keuzlingen non esiste più. L’altro posto dove si è trasferito l’amico missionario ha il mare e il sole. Non più la neve e il lago. E  chi gremisce le sponde marine non sa il silenzio che quei piccoli animali senza freddo sanno affollare di domande. Tutto questo si è proiettato in me nella mezz'ora di un blocco dentro la galleria san Roberto: la si percorre in un minuto e mezzo in condizioni normali; ma lì, ieri l'altro di mattina, l'ansia per l'uscita dal tunnel che il tempo prolungava in una distanza irreale, è stata vinta dall'oltre quel buio abitato da paranoie. L'anima, e la sua libertà, è vero, non si possono imprigionare.  


irreversibilità

Principe della Chiesa, era chiamato un cardinale. E fa intendere che si pensasse il papa un re. La sua elezione aveva tutto un cerimoniale strepitoso: ricevimento della nomina portato da un emissario papale in una residenza nobile (propria o affittata per l’occasione), profusione di doni, vestizione milionaria. Ed ora, per i nuovi eletti, un papa che accompagna la nomina ricordando che il segno è per l’effusione del sangue (non necessariamente macabro), e l’invito a una sobrietà. “Sebbene tu debba accogliere questa designazione con gaudio e con gioia, fa’ in modo che questo sentimento sia lontano da qualsiasi espressione di mondanità, da qualsiasi festeggiamento estraneo allo spirito evangelico di austerità, sobrietà e povertà”.  Che sia della sua penna non meraviglia ormai più di tanto: è un papa che prende il telefono e, certo non a tutti, ma a qualcuno anche a distanza fa’ sentire la sua presenza. Ed è un papa che fa precedere queste nomine e questo avvertimento togliendo ai preti l’ambizione al titolo di monsignore, a meno che abbiano 65 anni, alla soglia del pensionamento funzionale, anche se non sacramentale: un bel colpo per chi mirava a indossare qualcosa di rosso. Anche se – e francamente carissimo papa Francesco non capisco perché – si escludono da questa misura gli impiegati di Curia, siano negli uffici vaticani o nelle varie sedi diplomatiche. Beh, se ci fosse qualcuno a cui impedire questa forma di onorificenza, per fargli sentire prima l’odore delle pecore, sarebbero proprio quelli (vero che non è un gradevole odore, quello delle pecore ma tant’è fuor di metafora papale!). Ma un passo alla volta: e Te lo riconosco, io che date le circostanze non posso essere sospettato di “santa” invidia. So che l’avvio di questa sovrabbondante profusione di onorificenze avviene nella Chiesa con il pur beato papa Giovanni, con qualche abbaglio ecclesiastico, se non ecclesiale; dando il via alla chiamata all’episcopato – e, dunque, ancor meno comprensibilmente, scambiando così per onorificenza un sacramento –  proprio gli impiegati della Curia, segretari o sottosegretari di dicastero, senza una chiesa, senza un gregge: appunto, senza odor di pecore. Oltretutto, e sempre Giovanni fu l’autore (ma qui preceduto già da secolari cadute di visione) volendo tutti i cardinali ordinati vescovi, scombussolava del collegio cardinalizio quella distinzione tra diaconi preti e vescovi, che voleva significare le ricchezze differenti dell’Ordine sacro presenti accanto al Vescovo di Roma: noi bergamaschi avemmo i cardinali Maj e Cavagnis, grandi senza essere vescovi, essendo l’uno un bibliotecario e l’altro uno studioso giurista. Ma, appunto, un passo alla volta, e si creino una dietro l’altra certe irreversibilità che accrescano la trasparenza del vangelo: “sono venuto per servire, e voi fate quanto avete visto in me” ha detto il Signore Gesù. Alla faccia di tanti siti che deprezzano questo papa, imputandogli una perdita di grandeur (!) della Chiesa; e di qualche vescovo, che pur a distanza di decenni dalla abolizione delle code e dei caudatari, se ne gira recitando messe alla Pio V: povero Pio come si sta voltolando nella tomba! Come molti, io credo che il miracolo per la canonizzazione di papa Giovanni non è mancante; è la tua elezione, Francesco, a vescovo di Roma, quando lo Spirito, che per molto tempo aveva stabilito la sua dimora in America Latina, ha visto nel vescovo di Buenos Aires  tutta la spiritualità del papa bergamasco: essenzialità contro apparenza, vicinanza al mondo, imperativo della misericordia di Dio più grande di ogni nostra caducità.    


natale, il dopo

Parlarne il giorno dopo non è come dirlo il giorno prima, che natale non è natale così come è stato avvicinato, anche quest’anno, da milioni di battezzati. La spruzzatina della messa di mezzanotte – dopo ultimi acquisti a rivestire se stessi e a lasciar nudo il bambino – non può giustificare l’assenza della domanda che il natale o pone o non è: chi è? che vuole? che pretende, questo piccolo che vien posto in una mangiatoia? Ad orecchie non cristianamente educate, il verbo pretendere risulta dissonante rispetto al buonismo fatto di egoismi che questo giorno sembra reclamare. Eppure è il verbo che risale da ciascuno, quando avviene una chiara dissociazione tra ciò che si vive e quello che verrebbe chiesto di vivere secondo il vangelo. E così il natale è venuto, ed è passato. Ora, tempo di crisi o no, - ma non sarà che questa crisi è solo percepita, e non reale? non è che si è alzato talmente tanto il livello delle esigenze, che ci si sente impoveriti perché oggi ci vien chiesto di misurare almeno un poco il superfluo?  (e certo lo si scrive per la stragrande maggioranza, mentre sicuramente è tangibile l’essere più poveri per quelli che stanno dalla parte stretta della forbice) – dunque, tempo di crisi o no, ci si sta buttando nel prossimo stordimento. Il meno tredueuno a sottolineare un’altra mezzanotte: contraltare di un rito che è vuoto come quello celebrato otto giorni prima in una chiesa. Se è magia. È indubbio: tanti teatrini della santa veglia di mezzanotte – asini trascinati in chiesa a portare una bella ragazza con un bambolo  semovente, e presepi viventi che, si sa, esaltano i registi e meno l’evento che si vorrebbe celebrare – non hanno nulla da invidiare agli spumanti che si rincorreranno nell’illusione che tutto cambierà: magia. Almeno, ai miei tempi (non più belli di questi, ma sicuramente si preoccupavano del segno di senso per tutte le cose) i doni ai bambini li portava gesù-bambino. Oggi impera babbo-natale: che si arrampica persino sulle facciate delle chiese! Quanto ci vorrà a sfatare che il natale non è babbo-natale? se persino negli oratori vengono recitate fiabe di ‘sto genere’? Quanto ci vorrà perché il travisamento della nudità natalizia, quella di un Bambino (questo sì con la maiuscola) che esce dal grembo di una Donna, è la stessa nudità di un crocifisso con lì sotto la stessa Donna, madre di ognuno che vive la bellezza di una nascita e la nefandezza di una morte? Se Natale, il prossimo?, non sarà l’esito di uno scontro con un Dio difficile, resterà un non-natale. Ma non ci rassegniamo. Qua e là, a punteggiare il globo, granelli di sale stanno già dando sapore.


pazienza

Sfascisti. ‘Sta parola appare sui media più spesso oggi, di quando è nata negli anni ottanta del secolo scorso. E la trovate anche qui accanto. Perché davvero non se ne può più di atteggiamenti politici (ma sono politici o antipolitici?)  propri di chi non si preoccupa minimamente delle conseguenze di parole e decisioni  fondate su una critica sistematica: si nega ogni cosa, ogni persona che non stia dalla loro parte, ogni proposta che non abbia la radicalità della distruzione. Si mette al bando, con una vera e propria mira all’avversario: neanche fosse un gioco di birilli, o di cecchini bamboli che generano cecchini anonimi sui murali di Internet. E, in più, con il linguaggio proprio delle taverne, rozzo e volgare. Lo conoscete il Sabatini Coletti? È un dizionarista. Alla parola fascista scrive: chi interpreta i rapporti sociali come rapporti di forza e quindi con prepotenza e intolleranza. E dello sfascismo l’Hoepli dice: è l’atteggiamento di chi, di fronte alla crisi del sistema politico e delle istituzioni, punta a spingere la situazione al collasso, rinunciando a ogni critica costruttiva. È che le due definizioni dicono una evidente identità: sfasciare per agguantare. Noi cristiani, per le cose che riguardano il farsi della città degli uomini, dovremmo stare saldi a Diogneto, quel cristiano che ammoniva: essere cittadino è possedere la pazienza dei tempi. Né sudditi alle grida dei prepotenti né prepotenti della forza del Vangelo. Capacicome tramandano le antiche Scritture, di destreggiarsi tra le età delle vacche grasse e di quelle magre: l’intelligenza delle prime e la pazienza nelle altre. Non c’è pazienza, oggi. Dunque non c’è speranza. E allora bisogna pur ammettere che non ci sono cristiani, seppure battezzati. Tutte le banalità del quotidiano, ma anche le sofferenze, ci hanno contaminato, e non c’è più richiesta di senso: che non sia quelle del possedere adesso e subito, sgomitando: alla carica dei depositi di grano, distruggendo più di quel che si può portar via - non hanno digerito, semmai l'avessero letto, il Manzoni. Per fortuna abbiamo una coscienza del bene comune che resiste: in pochi, ma c’è. E ci salverà una volta di più. In cielo ceruleo, prima del suo spegnersi nel buio della notte che in questi giorni accende qualche stella, tondeggia la luna piena. Da presepe. Si può non sperare, nonostante le parole cattive che ondeggiano sulla terra? Vogliamoci bene, noi che possiamo. Stringiamoci a corte, canta l’inno italiano: mai versetto è stato più attuale.


per gli altri

Se volete ottenere, non pregate per voi stessi. I santi in cielo, nel loro daffare per le raccomandazioni che gli arrivano a valanghe ogni minuto, secernono: queste di qua equeste di là. E al Padre eterno, che unico fa le grazie – persino il figlio Gesù va da lui a implorare, e questa è dottrina cattolica che potete sperimentare in ogni celebrazione eucaristica (bello questo Figlio di Dio che alza le mani con noi! e riempie le nostre parole del suo vento gagliardo d’amore!) – i santi portano queste di qua, solamente. Sempre molto ma molto più poche delle altre: le altre chiedono il rovesciamento del mondo a passare da se stessi, cosa che il Dio di tutti ha deciso che non si fa: il creato è lì, il suo disegno di amore non viene meno anche nelle peggiori giornate della nostra esistenza. E se io non vengo mai meno ad amarti, che ci sia o no la tua riconoscenza, sta certo, dice il Signore nostro Dio, che le cose finiranno a buon punto. Quando?, tu dici nella fretta di avere tutto e subito: abbi pazienza, il mio sguardo non ha bisogno di collirio, le mie braccia sono abbastanza ampie da accogliere ciascuno: fidati, dice il Signore tuo Dio. Se dunque vuoi ottenere, mettile in queste di qua, quelle in cui passa il meno possibile del tuo io. Meno del tutto, lo si capisce, non è pensabile: quando prego per un altro, c’è sempre un perché di amore. Ma prega per lui, per lei, per loro, e su di loro ci sia la ricaduta che chiedi: che ci sia guarigione da un male assassino per un prolungamento di giorni lieti sulla terra, o la guarigione della morte verso la Vita, nelle sofferenze terribili di un male incurabile. Nel mio ormai lungo cammino sulla terra, i santi hanno accumulato sacchi di mie preghiere messe da parte:  ma accanto ad esse, brilleranno sicuramente le tre, forse quattro delle queste di qua. Le migliori della mia vita. Quelle che personalmente non mi hanno portato neppure un iota in più, se non si calcola che ho trovato, in quelle due o tre raccomandazioni accolte - e accolte da santi diversi - la certezza della speranza che ero e sono davanti agli occhi di Dio. Quando ho pregato per gli altri. E ho ottenuto.


segui la stella

Torno dall’ospedale. La mamma di un amico ha avuto la sentenza che nessun figlio vorrebbe mai per sua madre. Come cerco di fare sempre, mi accosto lieve. Lei è sfinita, ma presente mi scruta con lo sguardo di chi non vorrebbe: ma chi vuole?  Donna di fede, di grande preghiera, di una diaconia generosa per le opere del tempio. Anna potrebbe chiamarsi, accanto ad un Simeone nel giorno atteso da sempre, mentre guarda e ascolta: ho veduto la salvezza. Ma si è tristi: e come non esserlo, in questa annunciata vigilia così incognita. Cerca più volte la mano: non vuole essere sola. Mi raccomando: portare nei giorni della fatica un altro, è una benedizione, le dico. Acconsente, in occhi commossi. Torno dall’ospedale, per la superstrada: nella distesa di cielo che confonde la sua opacità con quella della terra, si staglia una stella luminosissima, là, nel sud che volta appena verso ovest. La stella della sera. Che sia o no la stella anche del mattino, adesso è lì, nella sera: che si mostri o no, una stella di luce che chiama c’è sempre. Ci precede sempre: nella bellezza di un’alba che promette un giorno ancora, o nella fiducia di una notte che non ti lascia brancolare impaurito. Certo ci sono i lampioni, luce gialla a segnare le strade. E anche, qua e là, ieri non c’erano, stanno apparendo le luminarie natalizie. Nella vita un soccorso lo trovi sempre, ma non è la luce di senso: prendi le attese che vedi, ma non sono la speranza che non vedi. Lì, sulla soglia , che sia dell’eternità o dell’incontro con un tempo nuovo, non può mancare la stella: di ben altra luce. Ho ringraziato, sceso dall’auto, per averla ritrovata qui, la stella nascosta dagli alberi di questa salita al monte. La stessa, di una luminosità unica nel cielo carico della pioggia che verrà. E mi pare d'averla recuperata per l’amico, per la sua sofferenza. L’ho ritrovata. E non solo per questo breve lasso di tempo. E semmai si nascondesse dietro una tempesta, o andasse dall’altra parte del mondo, ora so che c’è comunque, sempre: per quelli che amo, e per me. Soprattutto per quelli che mi amano. Puntuale ad ogni invocazione.


saccheggiatori

Qualche lettore si meraviglia che da qui non sia in un anno comparso il nome di David Maria Turoldo. La “sfida”, come è stata chiamata dai media che hanno corveggiato, nel giugno dell’anno passato, sul cambio di guardia in questa Rettoria vescovile, qualcuno non la vede. Non la vedrà. Quel frate, quel poeta, quel politico è stato unico. Lui, e nessun altro come lui: magari meglio, ma non come lui. Morto ormai da più di vent’anni, è tenuto vivo dalla memoria non sempre vera; ma soprattutto dal saccheggiare diffuso dei suoi scritti: piegati a sé, senza talvolta l’esegesi di testi che sono nati in giorni di gioia o di angoscia su questa collina che emana effluvi di fascino, e di solitudine. Applicati a sé, senza alcun filtro da anima ad anima, la sua e la nostra. Non è il solo saccheggiato, è vero; ma chi si vuol pitturare di un di più mette le mani sulla sua cospicua, diffusissima produzione, in un copia e incolla che non rispetta quello che è stato, nel bello e brutto tempo della sua vita: da uomo totale, friulano di corporatura e di spirito da frontiera, ridotto a un guru, nelle meste cantilene degli uni, e a un totem buono per tutte le frenesie nelle leggende inventate da altri. In un incontro con lui - qui, sopra lo studio in cui sto scrivendo, nel piano alto della torre (forse è il contro-segno rispetto alla “sfida” cui mi si voleva chiamare) - giovane parroco io, affermato e in piena salute lui, una piacevolissima conversazione:  non il Turoldo furioso per le vicende di una politica insana, non quello amareggiato per una Chiesa che non sa dipanarsi da sé verso il mondo. Il Turoldo intimo, a cui con faccia tosta propria dell’età gli potevo far notare, non poco maliziosamente, se la vanità era ancora un vizio per lui. Ma era lui. Un mito, avrei detto allora, nel linguaggio giovanilistico, quello, ricordate? della "misura- in-cui". Da rispettare, con il pudore di chi non si appropria dell’anima altrui tradotta in parole: che è poi l'accidia per non scavare dentro sé, a trovare parole della propria anima da dare a chi si offre. Non è bello saccheggiare così. Servirsene per sé, sì, ma per lungo tempo fino forse a un mai, se non si arriva alla turbolenza dello spirito di chi si saccheggia. Prima, è un sopruso: che non resuscita chi ne violenta segreti di vita, senza averli di proprio attraversati. Per versi  come questi, e saccheggio io rischiosamente,  

 Tornata e? la quiete, 

anche il vento riposa,
non c'e? più nessuno 
nell' Abbazia:

ma io non chiuderò le porte: 
Qualcuno, sono certo, verrà:

cosi? attendo sereno la Notte.

 chi li può offrire se non chi vive di una qualunque abbazia, in qualunque dimora apertamente rinchiusa; se non chi è stato avvolto da un vento, qualsiasi nome abbia - o il secco favonio che scende dalle Alpi, o l'Ora dolce che sale dalla valle dell'Adda;  se non chi ha rischiato almeno una volta, almeno una notte, di non chiudere le porte del suo abbraccio? Non è solo così che Qualcuno e Notte possono avere la maiuscola dell’eterno?


permettete…

  che vi parli di lei: due mesi fa, come oggi, moriva la mia mamma. Non sono solito parlare del mio privato. Anzi, mi disturba non poco chi mescola parabole evangeliche a storie proprie. Ma lo sto capendo in questi sessanta giorni: tornare là dove abitava chiede il gravarsi di una amarezza; chiede di accettare un vuoto, e così pregnante. E chiede di non stare soli dentro quel vuoto, chiede di condividerlo, per una volta almeno. Sia chiaro, nessuna forma depressiva, nessun rammarico irrazionale: novantaquattro anni di vita sono un bene che non si può pretendere sia travalicato. C’è un limite a tutto, e il tempo è lì ad ammonire: prendi e ringrazia. Ma la mutilazione c’è: e non di una memoria, ma di un presente. Di parole che non passano più, di un sorriso che non si accende più, e di un ammonimento che, mentre ti allontani per prendere l’auto, non tiene conto della tua età (sei sempre bimbo per lei), ma solo e sempre dei rischi che potresti correre. Non una mutilazione di viscere, ma di comunicazione: per quanto affievolita da una debolezza senile, trovarla era trovarsi: viva lei, vivi noi senza peripatetici interrogativi attorno a sé. Una mamma come una quiete antropomorfica: una sicurezza del vivere qui e adesso. E dunque la sua assenza chiama ad una nuova coscienza: adesso ci sono da me, senza le visibili radici di chi mi ha preceduto. Di mio padre, morto tredici  anni fa, ho ancora memoria viva, quasi palpabile; il ricordo di mamma tanto è sfocato e sfuggente da sveglio, quanto è vivo nei sogni, e ricorrente: e non sono neppure due mesi dalla sua sepoltura. Materia da psicanalisi? O ciascuno può capire quanto si voglia avere vita attraversando le rappresentazioni migliori? Quelle appunto che nei sogni intrecciano i momenti di una relazione – dal grembo di mia madre mi hai generato - e costruiscono i desideri al di là del bisogno. Sono stato l’altro giorno al camposanto che sta sulla sponda dell’Adda: i cipressi non ondeggiavano al vento, che pure sfogliava querce e robinia. Non tutte le esistenze sono uguali, e ogni esistenza non è uguale a se stessa, mi son detto. C’è dunque un tempo in cui perdere le foglie, altro in cui lasciar sussurrare, gioiosamente o mestamente, a secondo dei momenti, le compatte scaglie del cipresso che si è? Grazie per avermi permesso, con il pretesto della morte della mia mamma, di scrivervi della fine di un tempo. Il mio.