Sfascisti. ‘Sta parola appare sui media più spesso oggi, di quando è nata negli anni ottanta del secolo scorso. E la trovate anche qui accanto. Perché davvero non se ne può più di atteggiamenti politici (ma sono politici o antipolitici?)  propri di chi non si preoccupa minimamente delle conseguenze di parole e decisioni  fondate su una critica sistematica: si nega ogni cosa, ogni persona che non stia dalla loro parte, ogni proposta che non abbia la radicalità della distruzione. Si mette al bando, con una vera e propria mira all’avversario: neanche fosse un gioco di birilli, o di cecchini bamboli che generano cecchini anonimi sui murali di Internet. E, in più, con il linguaggio proprio delle taverne, rozzo e volgare. Lo conoscete il Sabatini Coletti? È un dizionarista. Alla parola fascista scrive: chi interpreta i rapporti sociali come rapporti di forza e quindi con prepotenza e intolleranza. E dello sfascismo l’Hoepli dice: è l’atteggiamento di chi, di fronte alla crisi del sistema politico e delle istituzioni, punta a spingere la situazione al collasso, rinunciando a ogni critica costruttiva. È che le due definizioni dicono una evidente identità: sfasciare per agguantare. Noi cristiani, per le cose che riguardano il farsi della città degli uomini, dovremmo stare saldi a Diogneto, quel cristiano che ammoniva: essere cittadino è possedere la pazienza dei tempi. Né sudditi alle grida dei prepotenti né prepotenti della forza del Vangelo. Capacicome tramandano le antiche Scritture, di destreggiarsi tra le età delle vacche grasse e di quelle magre: l’intelligenza delle prime e la pazienza nelle altre. Non c’è pazienza, oggi. Dunque non c’è speranza. E allora bisogna pur ammettere che non ci sono cristiani, seppure battezzati. Tutte le banalità del quotidiano, ma anche le sofferenze, ci hanno contaminato, e non c’è più richiesta di senso: che non sia quelle del possedere adesso e subito, sgomitando: alla carica dei depositi di grano, distruggendo più di quel che si può portar via – non hanno digerito, semmai l’avessero letto, il Manzoni. Per fortuna abbiamo una coscienza del bene comune che resiste: in pochi, ma c’è. E ci salverà una volta di più. In cielo ceruleo, prima del suo spegnersi nel buio della notte che in questi giorni accende qualche stella, tondeggia la luna piena. Da presepe. Si può non sperare, nonostante le parole cattive che ondeggiano sulla terra? Vogliamoci bene, noi che possiamo. Stringiamoci a corte, canta l’inno italiano: mai versetto è stato più attuale.