l'umiltà e la forza del seme

Oggi 28 giugno, eucarestia domenicale qui a Fontanella, nel ricordo di quella prima concelebrata 46 anni fa con il vescovo Clemente Gaddi nella cattedrale di Bergamo. Riporto qui la paginetta di quel giovane prete che fui, apparsa sul periodico del Seminario nell’occasione dell’Ordinazione: per associare gli amici - per la distanza tra i propositi e il vissuto - alla richiesta della benevolenza del Signore - implorato perché non guardi ai peccati nei tanti giorni, ma alla fede della chiesa: dato anche il motto scelto sull'immagine dell'annuncio - PRETE PER ESSERE TRA GLI ALTRI, COME GLI ALTRI, ED ESSERE UN ALTRO - tra presunzione e pretesa giovanile che Dio avrà saputo leggere con il suo filo di humour.

L’umiltà e la forza del seme  -  Pure in quei rari momenti in cui la sintesi della propria vita si presenta da sola, non son riuscito mai ad individuare uomini, occasioni o situazioni particolari che servirono da spinta iniziale al mio essere prete. È, anche per me come di un uomo che semina la sua terra; dorme, e si alza la notte e il giorno, e intanto il seme s'apre, ma egli non sa in che modo (Mc. 4,46). O meglio, so che c'è uno Spirito che realizza condizioni uguali da situazioni diverse. E, in un ambito di fede, questo basta alla certezza della mia scelta. Che si è fatta a poco a poco, costruendosi su dati e su acquisizioni, su scontri e su incontri. E mi ritrovo così, a diventar prete con un bagaglio di convinzioni nate da esperienze di cose sofferte. Eccole. Credo, sostanzialmente, che il prete debba sentirsi frutto di una comunità, alla quale ritorna come seme di nuove comunità. Avrà naturalmente tutta l'umiltà del seme: perciò il suo ruolo sarà quello di una presenza al mondo, in uno spirito di servizio che lo assimila al Cristo, "il quale non venne per farsi servire, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti" (Mt. 20,28).­­­ ---- Avrà l'umiltà, ma anche la forza del seme. Che si fa strada tra le zolle che l'hanno pur fatto marcire. Come Gesù, cioè, sarà "profeta potente in opere e in parole" (Lc. 24,20). In opere: prenderà sul serio la fame, la lebbra, le menomazioni degli uomini (Mt. 11,15), senza soccombere alla maledizione del desiderio d'efficienza. Ed evangelizzerà; non mantenendosi nella calma regione dei princìpi, ma calandosi negli argomenti del giorno: il sabato, il tributo a Cesare, i potenti del momento—scribi farisei e la volpe Erode. Ricordando tuttavia che "l’inviato da Dio pronuncia le parole di Dio" (Gv. 3,34). È in questo contesto di convinzioni che vorrei si svolgesse il mio Sacerdozio, ma perché riescano fatti di vita, chiedo a quelli che ho incontrato o incontrerò una continua invocazione al Padre. Poiché conosco i miei limiti. 1 giugno 1969, Attilio Bianchi.


businnes

È l’inizio di giugno: dopo giornate afose, l’aria è tersa, e fresca. Spira una brezza di cui solo queste colline sanno il profumo. Il sole del tardo pomeriggio si spande sul fianco dell’abbazia, estraendo il grigio e l’ambra dalle pietre antiche. Purtroppo, non sono tornate neppure quest’anno le rondini: ma un uccellino, di cui non so il nome, sta saltellando nel chiostro. Basta accontentarsi, per accorgersi che qualcosa avviene. E per grazia qualcosa sta avvenendo. Anche se... Per molto meno, ai tempi dei Borgia, facevano fuori i papi. Esagerando. Ma non tanto, se si tiene conto che i vari siti internet oggi sono un’arma micidiale quanto il veleno. Velenosi nella loro predicazione di un papato altro, che soddisfi la loro mania dell’immobilità; del loro fiuto da naftalina per i paramenti liturgici di un tempo che fu, che vorrebbero indossasse questo papa dell’essenzialità: questo papa che per parlare di sobrietà a un mondo afflitto da milioni di persone denutrite sa di non potersi presentare ingemmato. Un papa così, che svolge ogni giorno da santa Marta il suo vangelo facendo risuonare quello degli evangelisti per le loro note più vive, non piace. Parli in ecclesialese, come tanti suoi predecessori, così che poi ciascuno prenda quel che gli pare. Se poi adesso si mette pure a dire che le rivelazioni sono finite, che non ci si deve aspettare altra parola che non sia quella di Gesù – altro che mettersi lì alle 4 della sera ad aspettare il nuovo messaggio, che poi nuovo non è mai se si sa ascoltare - vi immaginate il subbuglio? Gli affari sono affari, e mettere in dubbio i pellegrinaggi alla ricerca di una novità che non sia quella chiusa dal libro dell’Apocalisse, sono un violento attentato al business che ne è nato. Ricordo che i primi viaggi, allora ero a Terno, erano offerti su un pullman scassato, che ha fatto diventare quell’autista in prestito un imprenditore smagato. Appunto: nei più di vent’anni a S. Lucia non ho mancato occasione di mettere in guardia, quasi un tormentone, un mantra. Certo è una soddisfazione per un prete di periferia vedere finalmente condivise in alto le proprie richieste di essenzialità della fede: credere non è nutrirsi di devozioni fatta di cose, di digiuni comandati, di visioni seppure per interposta persona. Ma soddisfazione amara: vedere fino ai giorni nostri questa assurda credenza in una madonna pendolare! Un madonnificio, non solo palancaio ma pastorale: preti frati e suore che l’identità cristiana se la sono creata in proprio: e in barba agli ammonimenti a guardare più da vicino, a Maria la madre di Gesù, che abita le preghiere di ogni comunità. E dunque chiama lì ad essere attenti pellegrini verso le Elisabette del bisogno. Una fede che, checché se ne dica ad autodifesa, non ha la centralità nella carne quotidiana della vita, ma nel guardare al cielo da cui pure si è stati avvertiti di non lasciarsi tentare. È l'avvertenza provocatoria che gli angeli hanno fatto, dopo l’ascensione, ai discepoli di allora per i discepoli che noi vogliamo essere oggi: il Dio di Gesù si fa trovare nella concretezza del giorno, e non nei cieli dei miracoli. Il cardinal Martini si interrogava così: la fede resisterà alle assurdità della libertà umana? È domanda per quanti vivono la libertà nella chiesa come assurdità di una fede ridotta a religione; e dunque del tutto lontani da Colui che è venuto ad avvertici di non fare una religione di quegli atti religiosi con cui pure alimentare l’abbandono al Signore. Credere è non ripetere lo sbaglio degli antichi, quando scambiavano l'osservanza dei 613 precetti con la fede. Credere è un rischio, il rischio di chi non vede, non sente e tuttavia continua a fidarsi. Ma frati e suore e preti l’han ridotto a un business spirituale: tanto ti do, dammi tanto.


Stadio Koševo

Stadio Koševo, Sabato, 6 giugno 2015, omelia di papa Francesco

Pace”. Parola profetica per eccellenza! Pace è il sogno di Dio, è il progetto di Dio per l’umanità, per la storia, con tutto il creato. Ed è un progetto che incontra sempre opposizione da parte dell’uomo e da parte del maligno. Anche nel nostro tempo l’aspirazione alla pace e l’impegno per costruirla si scontrano col fatto che nel mondo sono in atto numerosi conflitti armati. È una sorta di terza guerra mondiale combattuta “a pezzi”; e, nel contesto della comunicazione globale, si percepisce un clima di guerra. C’è chi questo clima vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente, in particolare coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche coloro che speculano sulle guerre per vendere armi. Ma la guerra significa bambini, donne e anziani nei campi profughi; significa dislocamenti forzati; significa case, strade, fabbriche distrutte; significa soprattutto tante vite spezzate. Voi lo sapete bene, per averlo sperimentato proprio qui: quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, cari fratelli e sorelle, si leva ancora una volta da questa città il grido del popolo di Dio e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà: mai più la guerra!     All’interno di questo clima di guerra, come un raggio di sole che attraversa le nubi, risuona la parola di Gesù nel Vangelo: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). È un appello sempre attuale, che vale per ogni generazione. Non dice “Beati i predicatori di pace”: tutti sono capaci di proclamarla, anche in maniera ipocrita o addirittura menzognera. No. Dice: «Beati gli operatori di pace», cioè coloro che la fanno. Fare la pace è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia. Beati sono coloro che seminano pace con le loro azioni quotidiane, con atteggiamenti e gesti di servizio, di fraternità, di dialogo, di misericordia… Questi sì, «saranno chiamati figli di Dio», perché Dio semina pace, sempre, dovunque; nella pienezza dei tempi ha seminato nel mondo il suo Figlio perché avessimo la pace! Fare la pace è un lavoro da portare avanti tutti i giorni, passo dopo passo, senza mai stancarsi.    Ecome si fa, come si costruisce la pace? Ci dice il profeta Isaia: «Praticare la giustizia darà pace». Quando, con la grazia di Dio, noi seguiamo questo comandamento, come cambiano le cose! Perché cambiamo noi! Quella persona, quel popolo, che vedevo come nemico, in realtà ha il mio stesso volto, il mio stesso cuore, la mia stessa anima. Abbiamo lo stesso Padre nei cieli. Allora la vera giustizia è fare a quella persona, a quel popolo, ciò che vorrei fosse fatto a me, al mio popolo. Ecco gli atteggiamenti per essere “artigiani” di pace nel quotidiano, là dove viviamo. Questo è il cammino che rende felici, che rende beati.


solidarietà?

Certamente quella generazionale non esiste. È l’inversamente proporzionale all’uso della parola giovani: sia nel politichese sia nel sindacalese. Quand’ero insegnante – e sono passati decenni - e si trattava nelle classi quinte della differenza cristiana dell’idea di umanità, già allora imputavo al sistema sindacale nostrano una grettezza che si privava del futuro: impegnati solo a difendere i già occupati, senza alcuna cura di chi allora (eppure erano pochi, o forse perché pochi) non aveva lavoro. Ed è strano che una Consulta oggi sia priva di quello sguardo che comprende l’universale di uno Stato, e problematiche molto più complesse dei cosiddetti diritti acquisiti: per cui chi ha una pensione che non riuscirebbe comunque a spendere, se non sprecando, o chi ha liquidazioni che gridano vendetta alla povertà dei disoccupati, e non solo, non può essere toccato. (Per non aggiungere le desolanti vicende dei vitalizi dei consiglieri lombardi, per altro in maggioranza imputati di borseggiare anche oltre il lauto stipendio). Un girone paradisiaco che non si cura dei gironi magari non infernali, ma certo da purgatorio, di chi neppure gode, in tempo di euro, delle mille lire al mese. È sembrato a molti che quella legge-fornero introducesse un principio nella convivenza nazionale: che in tempi di crisi ciascuno concorresse secondo le sue possibilità, e non secondo quella tassa del sale che colpiva ricchi e poveri alla stessa maniera. Prima di difendere i diritti acquisiti, occorre chiedersi quali siano i diritti di tutti allo stesso modo, quelli che fondano l’equità. E certo, in una società dove prevale un individualismo esasperato e una boiataggine sfigurante (andate su Corriere on-line e cliccate sulla festa per i 58 anni di una di quelle signore televisive che indirizzano il consenso anche politico di milioni di casalinghe, le stesse che poi si fidelizzano allo stesso modo aradio-maria, altro logo di consenso acritico) in una società così, chiedere la diversità che fonda l’uguaglianza è da don Chisciotte. Me ne rendo conto. Ma non si può desistere dal cavalcare su lande che stanno desertificandosi ogni giorno più. Quando, e siamo nel 1862, nel pieno della guerra tra Stato italiano e Vaticano, nasce l’Osservatore Romano, sotto la testata appare una locuzione, unicuique suum: e naturalmente si rivendicava il proprio diritto ad esistere. Ora, in tempi di assoluta indifferenza politico-religiosa, quella locuzione va letta in un altro senso. Lo stesso che è legge per i kibbutz: ciascuno dà secondo le sue possibilità e prende secondo il suo bisogno. Qualcuno si scandalizza perché si rifà ad un’idea marxista d’inizio secolo ventesimo? E si scandalizzi: e impari a prender il meglio da chiunque! A ciascuno secondo il suo bisogno: e dunque tu non incassi sottraendo ad altri. Se uno Stato non si occupa anche di questo, e se una Consulta non interpreta la legge secondo la verità dei bisogni condivisi, a che serve? E se non si domanda chi paga il conto, ed è la generazione giovane, cosa è lì a fare? A confermare la lettera di leggi che sono state fatte per i privilegi di chi vive nei Palazzi? È vero; dentro quei rimborsabili ci sta anche chi di pensione netta prende milleduecento euro. Ma tra loro ci sta anche chi ha la saggezza di dire, e l’ho sentito personalmente, che quel che è stato è stato, se ha contribuito con molta probabilità a non farci finire in acque torbide: l’orgoglio di chi ha contribuito dal basso al bene comune! A ciascuno secondo il suo bisogno: il Vangelo è tutto lì. Ma oggi sono soprattutto quei poveracci di ricconi che s’attaccano al rimborso. Come convertirli? Credo non basterà il giubileo della misericordia, scontando naturalmente la grazia di Dio.


schiaffeggiateli

Prima i no-tav, ora i no-expo. Professionisti del no, che vigliaccamente lanciano pietre e bastoni e bombe carta, e nascondono mani e faccia (all'insegna del nococacola, vivalabirra). Ed ecco la calata di orde di black bloc che come novelli Lanzichenecchi hanno messo a ferro e fuoco Milano. Davvero preoccupanti quelle tute nere abbandonate dopo l’assalto, per eclissarsi ancor meglio. Tattica terrorista, non c’è dubbio, preparata in qualche scantinato, che io sospetto suntuoso, da figli che si mantengono senza lavoro. E dunque nessuno che adesso cerchi di interpretare il loro disagio. Il loro disagio? E magari dopo che su giornali e tv si fomenta da tempo l’opporsi per l’opporsi, in una contiguità tra destra e sinistra che quelli della mia generazione hanno già visto negli anni settanta del
secolo scorso: quando gli estremi si toccavano saltavano i treni, esplodevano cittadini nelle banche e nelle piazze. Ora si toccano persino dentro formazioni politiche; si toccano in  una indistinguibilità mediatica pericolosa, facendo a gara tra fatti quotidiani e quarte colonne. È tempo d’accorgersi, di non sminuire le parole e le urla di pancia a cui prestano microfoni bugiardi. Un evento che ha dato lavoro a gente che altrimenti avrebbe ancor più sofferto la crisi di questi ultimi anni?; e lo avrebbe dato anche a quelle centinaia che l’hanno rifiutato per non dover lavorare di sabato e domenica? Buone ragioni ce ne sono, che piaccia ai loro, o no; e certamente non sminuendo quei tentativi di corruzione più o meno riusciti che hanno accompagnato l’opera. Ma le buone ragioni non valgono per quei criminali. È dunque tempo di intervenire, come la mamma di Baltimora che schiaffeggia il figlio in sommossa: ma lì i soliti - quelli che fomentano i loro, quelli che passano per l’intellighenzia nostrana - a concionare che non si fa, che quel figlio resterà segnato. Che resti segnato dall’amore di una madre, e non dalla neghittosità presuntuosa di patrigni ingannatori! Li avranno pure, tante donne, visti arrivare a casa figli o mariti (compagni?) che puzzavano di bruciato: che hanno fatto? lavato i panni? spugnato la schiena sudata - poverino! - dei loro ragazzi o dei loro uomini? li avranno rinfrancati con una buona pastasciutta (o con crauti se di razza tedesca)? O avranno chiesto? O non  si saranno accontentate di quegli sguardi abbassati a nascondere? O avranno ripreso il diritto di non ospitare chi non sa confrontarsi con lealtà? (Gesù ammonisce - volete andarvene anche voi? - chi sta nella famiglia discepolare non condividendone il progetto, chi dunque non è leale, chi prende senza dare). Eppure, al di là di un enfasi espositiva, che tuttavia sta nella natura di un evento come quello di Milano, il tema doveva essere il loro tema, se davvero fossero quello che urlano. Ma non lo sono: urlano che “un  altro mondo è possibile”, e poi imbrattano contro una tematica che vuole finalmente avvicinare il mondo che mangia a quello che non mangia e non beve, perché manca del giusto? È possibile un altro mondo macchiando saccheggiando incendiando una vetrina come quella che vuole denunciare l’ingiustizia, certo usando la bellezza che mai come ora potrebbe salvare il mondo? Mamme che non vi rassegnate ad aver partorito figli stupidi, schiaffeggiateli. Solo voi potete fermarli. Se non vi riesce di farlo in nome della vocazione evangelica che avete consegnato loro con il battesimo, fatelo per la vostra stessa dignità materna.


luoghi comuni

Ho visto stamane due giovani di color ebano addetti alla raccolta della spazzatura: sacchi fatti volare sui camion. E, per l’ultimo tratto d’auto ad arrivare qui, mi si è  presentato il quadretto di quei due che, accompagnati dalla mamma, si fanno raccomandare per un posto, e dei consoci che bofonchiano perché si sentono derubati: non si capisce se per merito, loro, o per primogeniture di chiamata. E per un (in)felice accostamento, mi sono rintronate le orecchie degli slogan di gente alla Masaniello: ma senza metterci il petto, solo una felpa, gente da piazza televisiva ma senza progettualità (gente che si schiera con chiunque pur di non perdere il posto strapagato nel consiglio europeo dove non ci stanno mai; gente che dice agli altri di andare a lavorare, mentre il loro solo lavoro è quello di mangiar panini regionali mentre sparano cavoli che non servono alle merende dei più; gente che usa linguaggi da osteria, pur con tutte le eccezioni che ci possono stare nelle osterie tra una rissa verbale di tifoserie pallonare: ma senza arrivare a espressioni di nazista memoria come radere al suolo gli accampamenti degli zingari, per altro già precedute da imbottiti di birra con cori ai puzzolenti napoletani). Slogan appunto che declamano: vengono qui a portarci via il posto. Al che, qualunque intelligente persona, facendo due più due, arriccerebbe il naso: saremmo sommersi dalla spazzatura, saremmo con vecchi e ammalati abbandonati in casa e negli ospizi, saremmo con ditte impossibilitate ai trasporti, o imprese edili che dovrebbero chiudere, se non ci fossero questi uomini e queste donne dalla pelle che dal nero africo si stinge nel latteo nordico. Luogo comune di chi quei posti proprio non li vuole, né per sé né per i figli; ma gli serve per giustificare l’assegno dalla cassa integrazione, o per quel nuovo ordito del reddito di cittadinanza (poi si litigherà se gli extra comunitari ne avranno diritto, oppure no – ma dopo). Gesù mette a posto, si fa per dire, i due che gli chiedono il posto (oltretutto nascondendosi dietro la madre); e mette a posto, Gesù, anche gli altri che con molta probabilità non sanno stare al proprio posto: “Potete bere amaro con me?”. Non vino da trani – così era chiamata l’osteria del mio prozio Lio, dal vino di grossa grana che faceva venire dal sud - ma l’agrodolce dei giorni che chiedono coerenza e fedeltà. E dunque fatica. (È mai possibile che persino Francesco papa si lasci circuire dall’entourage per ricevere il convertito di Medjugorje, che, pure lui, si presenta con la sua mamma – sempre dietro figli senza ancora spina dorsale ci stanno genitori senza genitorialità - per ripagarlo, si scrive, da uno scherzo delle Iene televisive?! il convertito che ormai vive dei suoi libri, che raccontano quello che sarebbe opportuno rinchiudesse nel segreto del suo incontro con il Dio che ha incontrato - anche se pare che più che Dio abbia incontrato una madonna? Anch’egli come quel convertito dal musulmanesimo, battezzato nella notte pasquale da un altro papa, e poi messosi nella rissa di chi fomenta odio per tutto l’islamismo, oltre che a chiamarsi fuori dalla chiesa solo cinque anni dopo quel can can cattolico/mediatico. Dai convertiti pubblici ci guardi il Signore, cari conversi vaticani! o vi servono altre lezioni?). La fatica dei giorni la conoscono quelli che non sono amati proprio perché tengono il loro posto. E senza dire rimproverano quelli che vogliono sempre altro. Appunto: senza fedeltà, senza coerenza.


soldi

Possibile che sia sempre una questione di soldi? Quando succedono incidenti mortali negli ospedali, più o meno colposi, le prime parole sono “voglio giustizia”: e subito si capisce che si intende dire soldi; a meno di tre giorni dal dramma del pilota che porta alla morte con sé tutto un aereo con il suo carico di vite, subito si ipotizzano 38milioni di euro che la compagnia dovrà pagare ai familiari; e il risarcimento per quel Lele che ha passato otto anni tra processi e carcere, il giorno dopo (il giorno dopo!) lui lo monetizza in mezzo milione di euro. Ora, si capisce tutto, perché se capitasse a noi... Ma almeno il tempo del pianto urlato o sommesso, il tempo dell’elaborazione di una perdita! O, nel caso dell’imputato (ora ex) del delitto di Perugia, qualche giorno di assaporamento della libertà. Macché. No, subito il dio denaro. Le ragioni del fatto? Medici incapaci, piloti incompatibili, giudici in mala fede? Non interessa cercare, non ci si danno interrogativi: che ci sia subito un colpevole, e da utile capro espiatorio paghi il mio lutto. Che già usare la parola pagare dovrebbe infastidire anche un cammello. Ma ci sono psicologi da rimunerare, cure mediche per indotte depressioni: certamente, e indiscutibile. Ma subito? e subito il pensiero ai soldi? Per altre situazioni, si è inventato il termine di vedove allegre: che è crudo, ma molto descrittivo di un breve pianto che si tramuta in perdita della memoria affettiva. E dietro ci stanno gli avvocati (a parte i miei amici): che si fanno pagare a percentuale di quanto il cliente riesce a lucrare; e che, succede, riescono a ottenere per il nome che si sono fatti, più che per i fatti. Giudici succubi? ora soprattutto che possono temere d’essere a loro volta chiamati in giudizio dagli azzeccagarbugli di fama? In una stagione in cui i modelli offerti soprattutto alle giovani generazioni sono quelli della vanità, del successo a ogni costo, dell'esibizione, dell'incontinenza verbale e comportamentale, i cristiani dovrebbero avere il coraggio e la franchezza di testimoniare notizie capaci di aiutare gli uomini a percorrere cammini di liberazione e non di asservimento a idoli e miti illusori e fallaci. Soprattutto all’idolo del denaro, il massimo oppositore del Dio evangelico. Soprattutto là dove si tratta di vita: perduta o assassinata. È così difficile vivere la libertà dall’avere? Dalla micragneria che, secondo un altro detto nostrano, farebbe uccidere persino la propria madre, per ricavarne profitto? È la settimana santa: e la memoria dei trenta denari è lì ad interrogare chiunque potrebbe consegnare il Cristo nei poveri cristi. Che sia un pilota ammattito, o un medico deconcentrato, o un giudice cui è chiesto di guardare dentro l’ingiustizia senza favoritismi, e tuttavia potendo sbagliare. E pure che sia un avvocato avido: per rimediargli un'altra sete che non sia quella dei soldi.


il nome di Gesù

(a richiesta, il brano letto nella celebrazione della passata domenica, con la riflessione sui martiri che confessano il Signore, sia cristiani sia di altre fedi) 
Il vescovo copto di Giza, cittadina egiziana, nel guardare il video della esecuzione dei ventuno lavoratori cristiani copti, uccisi dall’Isis, ha osservato le labbra dei condannati negli ultimi istanti, e dal labiale ha letto che invocavano il nome di Gesù Cristo. Nell’incendio che si va al largando sulla Libia questa potrà apparire una notizia minore. Non sarebbe stato umanamente più comprensibile, in quell’ultimo istante, supplicare pietà, o maledire gli assassini? Per noi europei, nati in una Chiesa non fisicamente minacciata, è ragione quasi di uno sbalordimento quell’estremo invocare Cristo, nell’ultimo istante. Noi, che, quanto alla morte, ci preoccupiamo che sia “dignitosa” e “dolce”, e magari convocata quando noi riteniamo che sia l’ora. Questa morte dei ventuno giovani copti,non “dignitosa” e atroce, ci colpisce per la statura che assumono le vittime, morendo nell’atto di domandare Cristo. Neppure i terroristi avevano previsto quell’ultimo labiale e non sono riusciti a censurarlo. Ostinato come il «no» della pakistana Asia Bibi all’abiura della propria fede cristiana, fermo come il «no» di Meriam Ibrahim, in Sudan, quando era in prigione, in catene, con un figlio in grembo, e la prospettiva della impiccagione davanti a sé. Noi cristiani del mondo finora in pace fatichiamo a capire. Ci paiono giganti quelli che muoiono, come ha detto il Papa dei ventuno copti, da martiri. Eppure se guardiamo le facce di quegli stessi prigionieri nel giorno della cattura, in fila, i tratti mediterranei che li fanno non così diversi da molti ragazzi nel nostro Sud, ci paiono uomini come noi, certo con gli occhi sbarrati di paura. E allora che cosa determina, nell’ultima ora, quella irriducibile fedeltà a Cristo? Una grazia, forse, e insieme il riconoscere e invocare, con assoluta evidenza, nell’ultimo istante, il nome in cui, perfino nella morte, nulla è perduto: famiglia, figli, madri e padri e amori. Non annientati ma ritrovati e salvati. Pronunciano davanti alla morte quel nome come un irriducibile «no» al nulla, in cui i boia credono di averli cancellati. (Marina Corradi, da L’Avvenire)


Giubileo

Perché? Perché sì. Perché no. L’altra sera, freschi dell’annuncio, si ritrovano alcuni preti. E dicono la loro, come è giusto, dato che si sentono (e sono) la piattaforma della chiesa: costruiteci quel che volete, ma senza la loro Eucarestia diffusa, che Chiesa sarebbe? Dunque, ed inevitabile, i pareri sono discordi: sia in termini ecclesiologici, sia pratici. Con qualche pregiudiziale ideologica, inutile nascondersi, che in due o tre di loro ha la valenza di una carica improvvisa di alti cumuli in una giornata di sole, bianchissimi, a bucare l'azzurro! Da lì l’animazione, comunque allegra per via di quel vino novello sceso giù dalla collina. E dunque c’è chi racconta di una occasione proficua, sperimentata all’inizio del millennio: la parrocchia chiamata a rovesciare ritmi e tempi di prassi pastorali stabilizzate fino all’ingessatura; di chiamate a una solidarietà che si traduce in 25 milioni delle vecchie lire per un villaggio che raccoglie ragazzi buddisti del Bangladesh; di sospensione delle catechesi calendarizzate sia dei piccoli sia degli adulti, per chiamate occasionali di stampo errante, con la sola Parola a guidare; e qualche segno che non costa ma indica bene: come rivoltare il prato attorno al plesso parrocchiale, e lasciarlo lì, incolto per tutto il tempo giubilare, a ricordare che la terra è di tutti, e questo e non altro è il giubileo, eccetera eccetera. E dunque, sì a questa indizione nuova, soprattutto per il tema della misericordia di cui mai come ora investire il mondo. Certo, se fosse che lo si celebrasse così, decentrato e intelligentemente interpretato, dicono quelli del no. Ma le avete sentite le prime dichiarazioni? Roma aumenterà il suo pil di un venti per cento! oltre l’Expo di Milano, un’altra occasione per l’Italia di rifarsi l’economia! e i tour operator, che già stanno allestendo pacchetti tutto compreso, medagliette accluse? Ancora si imparenterà il vaticano al campidoglio, come allora, per raduni oceanici, con costi stellari, a favore di commerci dell’effimero religioso? E quanto tutto questo disturberà la trasparenza spirituale? Sicuramente le intenzioni di Francesco papa porranno un barriera: sobrietà è la sua cifra. Ma argineranno? Quando mammona - che è denaro ma è anche apparenza a nascondere l’essenziale – quando mammona organizza, sconfigge i migliori propositi, a rendere vero che il lastricato dell’inferno è pavimentato dalle buone intenzioni. Ecco perché no. A meno che... e qui si ritrovano i sì e i no, sul far della notte: a meno che sia un giubileo delle periferie. Ogni parrocchia sia sede di giubileo, con nessun bisogno di andare altrove, neppure nei santuari diocesani: già il pellegrinare sui marciapiedi dei propri abitati fa scoprire le occasioni di misericordia. E se proprio (ma perché?), se proprio qualcuno ritiene necessario centrare su Pietro e insieme dare concretamente il segnale delle periferie - il fascino di un papa a Zagarolo, nel provocatorio romanzo di Morselli, ricordate? - lo si faccia con sedi continentali reali e non virtuali, dove Pietro stabilisce la sua residenza e si rende presente per un mese, così che i viaggi di quanti vogliono esprimere unità con chi è stato fatto pietra di costruzione, siano facilitati per tutti, soprattutto ai poveri. Che sia dunque l’anno della misericordia, si dicono uscendo dalla stanza con caminetto. E che per parlare di mettere la miseria altrui vicino al proprio cuore, che non si spenda se non per il pane di ogni giorno: e del corpo e dell’anima. Così, riconciliati come sempre, si dicono.