È l’inizio di giugno: dopo giornate afose, l’aria è tersa, e fresca. Spira una brezza di cui solo queste colline sanno il profumo. Il sole del tardo pomeriggio si spande sul fianco dell’abbazia, estraendo il grigio e l’ambra dalle pietre antiche. Purtroppo, non sono tornate neppure quest’anno le rondini: ma un uccellino, di cui non so il nome, sta saltellando nel chiostro. Basta accontentarsi, per accorgersi che qualcosa avviene. E per grazia qualcosa sta avvenendo. Anche se… Per molto meno, ai tempi dei Borgia, facevano fuori i papi. Esagerando. Ma non tanto, se si tiene conto che i vari siti internet oggi sono un’arma micidiale quanto il veleno. Velenosi nella loro predicazione di un papato altro, che soddisfi la loro mania dell’immobilità; del loro fiuto da naftalina per i paramenti liturgici di un tempo che fu, che vorrebbero indossasse questo papa dell’essenzialità: questo papa che per parlare di sobrietà a un mondo afflitto da milioni di persone denutrite sa di non potersi presentare ingemmato. Un papa così, che svolge ogni giorno da santa Marta il suo vangelo facendo risuonare quello degli evangelisti per le loro note più vive, non piace. Parli in ecclesialese, come tanti suoi predecessori, così che poi ciascuno prenda quel che gli pare. Se poi adesso si mette pure a dire che le rivelazioni sono finite, che non ci si deve aspettare altra parola che non sia quella di Gesù – altro che mettersi lì alle 4 della sera ad aspettare il nuovo messaggio, che poi nuovo non è mai se si sa ascoltare – vi immaginate il subbuglio? Gli affari sono affari, e mettere in dubbio i pellegrinaggi alla ricerca di una novità che non sia quella chiusa dal libro dell’Apocalisse, sono un violento attentato al business che ne è nato. Ricordo che i primi viaggi, allora ero a Terno, erano offerti su un pullman scassato, che ha fatto diventare quell’autista in prestito un imprenditore smagato. Appunto: nei più di vent’anni a S. Lucia non ho mancato occasione di mettere in guardia, quasi un tormentone, un mantra. Certo è una soddisfazione per un prete di periferia vedere finalmente condivise in alto le proprie richieste di essenzialità della fede: credere non è nutrirsi di devozioni fatta di cose, di digiuni comandati, di visioni seppure per interposta persona. Ma soddisfazione amara: vedere fino ai giorni nostri questa assurda credenza in una madonna pendolare! Un madonnificio, non solo palancaio ma pastorale: preti frati e suore che l’identità cristiana se la sono creata in proprio: e in barba agli ammonimenti a guardare più da vicino, a Maria la madre di Gesù, che abita le preghiere di ogni comunità. E dunque chiama lì ad essere attenti pellegrini verso le Elisabette del bisogno. Una fede che, checché se ne dica ad autodifesa, non ha la centralità nella carne quotidiana della vita, ma nel guardare al cielo da cui pure si è stati avvertiti di non lasciarsi tentare. È l’avvertenza provocatoria che gli angeli hanno fatto, dopo l’ascensione, ai discepoli di allora per i discepoli che noi vogliamo essere oggi: il Dio di Gesù si fa trovare nella concretezza del giorno, e non nei cieli dei miracoli. Il cardinal Martini si interrogava così: la fede resisterà alle assurdità della libertà umana? È domanda per quanti vivono la libertà nella chiesa come assurdità di una fede ridotta a religione; e dunque del tutto lontani da Colui che è venuto ad avvertici di non fare una religione di quegli atti religiosi con cui pure alimentare l’abbandono al Signore. Credere è non ripetere lo sbaglio degli antichi, quando scambiavano l’osservanza dei 613 precetti con la fede. Credere è un rischio, il rischio di chi non vede, non sente e tuttavia continua a fidarsi. Ma frati e suore e preti l’han ridotto a un business spirituale: tanto ti do, dammi tanto.