Certamente quella generazionale non esiste. È l’inversamente proporzionale all’uso della parola giovani: sia nel politichese sia nel sindacalese. Quand’ero insegnante – e sono passati decenni – e si trattava nelle classi quinte della differenza cristiana dell’idea di umanità, già allora imputavo al sistema sindacale nostrano una grettezza che si privava del futuro: impegnati solo a difendere i già occupati, senza alcuna cura di chi allora (eppure erano pochi, o forse perché pochi) non aveva lavoro. Ed è strano che una Consulta oggi sia priva di quello sguardo che comprende l’universale di uno Stato, e problematiche molto più complesse dei cosiddetti diritti acquisiti: per cui chi ha una pensione che non riuscirebbe comunque a spendere, se non sprecando, o chi ha liquidazioni che gridano vendetta alla povertà dei disoccupati, e non solo, non può essere toccato. (Per non aggiungere le desolanti vicende dei vitalizi dei consiglieri lombardi, per altro in maggioranza imputati di borseggiare anche oltre il lauto stipendio). Un girone paradisiaco che non si cura dei gironi magari non infernali, ma certo da purgatorio, di chi neppure gode, in tempo di euro, delle mille lire al mese. È sembrato a molti che quella legge-fornero introducesse un principio nella convivenza nazionale: che in tempi di crisi ciascuno concorresse secondo le sue possibilità, e non secondo quella tassa del sale che colpiva ricchi e poveri alla stessa maniera. Prima di difendere i diritti acquisiti, occorre chiedersi quali siano i diritti di tutti allo stesso modo, quelli che fondano l’equità. E certo, in una società dove prevale un individualismo esasperato e una boiataggine sfigurante (andate su Corriere on-line e cliccate sulla festa per i 58 anni di una di quelle signore televisive che indirizzano il consenso anche politico di milioni di casalinghe, le stesse che poi si fidelizzano allo stesso modo aradio-maria, altro logo di consenso acritico) in una società così, chiedere la diversità che fonda l’uguaglianza è da don Chisciotte. Me ne rendo conto. Ma non si può desistere dal cavalcare su lande che stanno desertificandosi ogni giorno più. Quando, e siamo nel 1862, nel pieno della guerra tra Stato italiano e Vaticano, nasce l’Osservatore Romano, sotto la testata appare una locuzione, unicuique suum: e naturalmente si rivendicava il proprio diritto ad esistere. Ora, in tempi di assoluta indifferenza politico-religiosa, quella locuzione va letta in un altro senso. Lo stesso che è legge per i kibbutz: ciascuno dà secondo le sue possibilità e prende secondo il suo bisogno. Qualcuno si scandalizza perché si rifà ad un’idea marxista d’inizio secolo ventesimo? E si scandalizzi: e impari a prender il meglio da chiunque! A ciascuno secondo il suo bisogno: e dunque tu non incassi sottraendo ad altri. Se uno Stato non si occupa anche di questo, e se una Consulta non interpreta la legge secondo la verità dei bisogni condivisi, a che serve? E se non si domanda chi paga il conto, ed è la generazione giovane, cosa è lì a fare? A confermare la lettera di leggi che sono state fatte per i privilegi di chi vive nei Palazzi? È vero; dentro quei rimborsabili ci sta anche chi di pensione netta prende milleduecento euro. Ma tra loro ci sta anche chi ha la saggezza di dire, e l’ho sentito personalmente, che quel che è stato è stato, se ha contribuito con molta probabilità a non farci finire in acque torbide: l’orgoglio di chi ha contribuito dal basso al bene comune! A ciascuno secondo il suo bisogno: il Vangelo è tutto lì. Ma oggi sono soprattutto quei poveracci di ricconi che s’attaccano al rimborso. Come convertirli? Credo non basterà il giubileo della misericordia, scontando naturalmente la grazia di Dio.