Free!
Sta estraendo un portamonete, e si sente dire: free, gratuito. Ingresso libero. Un abbaglio comprensibile, se entrando ci si trova di fronte quel gabbiotto stile cinema parrocchiale anni cinquanta, nel duomo di Milano. Il turista può credersi entrato in alcune cattedrali d'Europa, dove non si è liberi di girare, se non per percorsi stabiliti da un biglietto d’ingresso. Il gabbiotto serve per prendersi l’auricolare informativo, naturalmente a prezzo di tot euro. Ma per quanto ancora si sarà free nel cercare i segni del sacro scolpiti dai secoli? Le ragioni ci stanno tutte: costo delle manutenzioni, degli uomini della vigilanza, del mantenimento contro l’usura del tempo... Ma non ci sta la ragione prima: almeno il sacro liberato da gabelle da bottegai, già inviperiti come si è da tante tasse. Ma, se butti lo sguardo in orizzontale, nella navata di là vedi quella piramide di vetro, illuminata tanto che non può sfuggire a nessuno per quanto orbo: e lì medagliette, coroncine, catenelle d’oro e d’argento, libri d’arte, dvd e vario materiale da far scendere il Cristo dalla croce per nuovamente cacciare i mercanti. C’è da dire che il Duomo di Milano non è stato pensato, come i suoi omologhi gotici, con un gran nartece: un portico dove quelle pratiche potrebbero passare l’esame anche del più ostico fautore delle sconfitta delle botteghe nel circondario delle chiese. Ma certo non è bello spettacolo. Infastidisce. Un rimedio ci sarebbe per far fronte a manutenzioni, vigilanza e quanto occorre: basterebbe che i cristiani, per la chiesa del proprio territorio, si sentissero corresponsabili anche dei tetti. Da alcune parti succede: e così i turisti possono entrare free nella bellezza mantenuta, a memoria degli avi, dai loro discendenti. Anche così una comunità si fa: diventa corpo con le pietre che racchiudono il mistero da testimoniare.
di che colore è la pelle di Dio?
Nel giorno in cui si annuncia di voler abolire con referendum il ministero dell’integrazione da parte di frange nostrane, con lo scopo di perseguire ormai l’ombra di sé – essendo privi da sempre di idee, a meno che si ritenga il recintare un’idea di nobiltà umana – ripropongo un mio scritto del 2010: parendomi attuale, seppure possano in questi giorni essere cambiati i bersagli, ma non l’idiozia che alligna sugli spalti degli stadi, e non solo.
A metà degli anni sessanta spirava il vento kennediano delle nuove frontiere: e una folata incantevole di quel vento arrivò pure nella nostra città. Aveva la faccia pulita (così ci sembrò) di aitanti giovani americani, europeidi e afro, ipernutriti e palestrati al punto giusto, dotati di un dentrificio - per noi ristretti tra i Binaca e i Chlorodont - dall’insolito sapore. Americano, appunto: e cioè il meglio, il massimo dell’aspirazione per gente di provincia come noi (i chewingum erano già stati lanciati vent’anni prima ai meridionali). Giovanotti che sarebbero finiti in Vietnam – ma questa, come dicono i grandi scrittori, è un’altra storia. L’ottimismo era la loro cifra; e lo cantavano con entusiasmo sui palchi improvvisati dei palazzetti o delle piazze: se più gente guardasse alla gente con favor / avremo meno gente difficile / e più gente di cuor. Musica e testi lontani dai pur contemporanei De André e Guccini: questi, dotati di un iperrealismo che sfociava in una sorta di pessimismo cosmico - fino all’affermazione interrogativa della morte di Dio - hanno attraversato tre generazioni; quei giovanotti d’Oltreoceano, invece, impazzarono solo per un decennio. Ma le loro ballate ogni tanto riemergono: forse perché di utopia si ha sempre gran fame. E la speranza era quella mischia di gente di colore che dava per sconfitto il razzismo, quella loro falla irrisolta. Sconfitta non ancora, quell’orribile falla, seppur arginata nell’America di oggi. Ma che fosse solo loro, di questo eravamo convinti, fino a quando non sono arrivati qua, quelli che la pelle non ce l’hanno come noi: nelle gialle strade dei cinesi o nei neri mercatini degli africani non si rivela solo disagio, c’è disprezzo e rifiuto. Non sarebbe utile - e che arriccino pure il naso tutti i musici liturgisti che vivono di chiacchiere e distintivo - che all’inizio di ogni eucarestia (o alla fine, è lo stesso) si canti il Di che colore è la pelle di Dio? per ricordarcelo, quando siamo tentati da un rifiuto immotivato, viscerale? Che gente è quella che allo stadio grida a un giocatore di pelle nera vai a mangiare le banane? Sono figli nostri, quei figli di Caino. E non è un mistero, se non per quelli usi a voltar la faccia per negare l’evidenza, che è dagli spalti degli stadi del settentrione che sono partiti i movimenti prima contro i meridionali (si guardino attorno quegli amici venuti dal sud e che parlano in politica l’abatantuonismo) e poi contro gli extracomunitari. Da giovani, non è un’operazione facile la sottrazione: e a quel ragazzo di pelle nera che gioca e segna, ed è italiano a tutti gli effetti, non sarà certo facile sottrarre quel manipolo di fascisti dalla schiera degli sportivi che affollano uno stadio. Quali cicatrici gli fanno rivoltare l’anima, tanto da renderlo già discutibile nelle sue reazioni? È lui che istiga con linguacce e gestacci, o è lui che si difende da orribili e inaccettabili provocazioni? Mentre scrivo, non so come finirà la Conferenza sul razzismo che si sta tenendo a Ginevra: può impunemente prendere la parola un signore che ritiene la Shoah un’invenzione? E che gli facciano da claque regimi politici che fanno quotidianamente strage di diritti umani a casa loro, e che non hanno carte in regola neppure in materia di razzismo essendo noti campioni di propaganda antisemita? Poi certo: chi è attaccato attacca, e sbaglia a sua volta, a volte atrocemente come ultimamente a Gaza. Ma che differenza c’è – so di scompigliarvi l’anima – tra questi personaggi ufficiali dell’antisemitismo, e quei pochi orrendi figli nostri che stanno sugli spalti a urlare a un ragazzo diciottenne negro, nell’accezione americana che quei giovanotti dell’America sana volevano quarant’anni fa finalmente debellare? Mentre leggete, sono in Terrasanta per scoprire che pelle avesse Gesù, l’ebreo di Nazareth; ma da subito scarterei che avesse quella bianco-rosa delle immaginette dei nostri sacro-cuori.
Il beato papa Giovanni
Quella sera ormai lontana del 3 giugno 1963 si abbassarono saracinesche, le piazze si svuotarono, e si fermò il mondo, o almeno tutto il mondo allora raggiunto da radio e televisione. Era morto un vecchio papa, il papa Giovanni come familiarmente era stato chiamato. Si conoscevano di lui i gesti molto accattivanti verso carcerati e bambini, si erano ascoltate parole suadenti. Lo si era detto papa buono, ma non, allora, nell’accezione virtuosa: si tendeva a descriverlo bonario e bonaccione, o con quelle note di buonismo che solo in tempi più vicini ai nostri sarebbe diventato una moda volgare. Quella sera, il silenzio che ha commosso anche chi nel papa non vede un simbolo particolare, poteva già rivelare di lui ben altro. Solo la distanza dalla sua esistenza mortale, e solo la vicinanza a quell’arco della vita - che dal suo “villaggio nativo si piegò fra le cupole e i pinnacoli di San Marco” per risalire vertiginosamente verso la cupola di San Pietro – ne avrebbe restituito l’immagine piena di un uomo, totalmente dedito. La più grande sorgente di conoscenza di Giovanni sarebbe stato Il Giornale dell’anima: una raccolta che copre tutto lo spazio da piccolo seminarista a papa. Un diario della sua anima, uno svelamento del mistero di una storia così improbabile: il gioco della Provvidenza, come l’avrebbe chiamato il Balducci, che conduce dove non ci si aspetta di arrivare. Che cosa sarà di me nell’avvenire? Sarò un bravo teologo, un giurista insigne, un parroco di campagna, oppure un semplice povero prete? Che importa a me di tutto ciò? Devo essere niente di tutto questo e anche più di questo secondo le disposizioni divine. Il mio Dio è tutto: “Deus meus et omnia” (Il giornale dell’anima, anno 1904). A Guitton, il filosofo francese, disse una sera a Castelgandolfo, davanti all’Osservatorio astronomico: “Io mi accontento, come Abramo, di avanzare nella notte, un passo dietro l’altro, alla luce delle stelle”.
Il gioco della Provvidenza
Nell’educazione cristiana che ha ricevuto in terra bergamasca, la Provvidenza era l’inquilina di ogni cosa: chiamata, contemplata, sperimentata. Era il sostegno di una grande povertà, e il grande angelo per ogni rischio che la vita comportasse. Dio provvedeva e lo si vedeva: a posteriori certo, ma la fiducia in Lui preparava il bene per ciascuna famiglia e per ogni persona. Una certa qual dotazione dell’animo contadino ha predisposto la quiete del suo animo, che non si può apprezzare in modo vero se non dentro questa certezza del disegno di Dio, che precede ogni desiderio. Si è visto dalle carte che lo riguardano, che tutti gli impegni che via via gli sono stati richiesti sono nati in seconda battuta, e quasi per sostituzione – dall’essere segretario del vescovo di Bergamo, all’andare a Roma come responsabile delle opere missionarie d’Italia, alla nomina in Bulgaria e a Parigi, fino alla chiamata del tutto anomala a Venezia, ancor prima della morte del patriarca suo predecessore. Ripensando al modo e alle circostanze, alla spontaneità con le quali questo disegno della Provvidenza, per mezzo dei superiori, si è improvvisamente manifestato e si viene ora svolgendo, mi sento intenerito, e costretto a confessare che veramente il Signore è qui. Quante volte, raccogliendo a sera gli episodi della giornata, trascorsa tra le cure dei miei cari giovani, sento in me qualcosa di ciò che faceva tremare, come nel contatto con il divino, il cuore dei due discepoli sulla via di Emmaus. Oh, come è vero che basta fidarsi completamente del Signore per sentirsi provveduti di ogni cosa! (ibid., 1919) La Provvidenza lo conduce, e lo riconduce: e lui risponde con virtù che sono ben lungi da quei tratti di ecclesiastica furbizia o di incosciente ingenuità, che gli sono stati rimproverate dentro e fuori i Palazzi vaticani, lui ancora vivo. È interessante che la Provvidenza mi abbia ricondotto là dove la mia vocazione sacerdotale prese le prime mosse, cioè al servizio pastorale.Ora io mi trovo in pieno ministero diretto delle anime. In verità ho sempre ritenuto che per un ecclesiastico la diplomazia così detta deve essere permeata di spirito pastorale; diversamente non conta nulla, e volge al ridicolo una missione santa (ibid., 1953). Ci si è divisi spesso nel giudizio su papa Giovanni. Di fronte alla immensa schiera di chi non ha visto in lui peccato, ci stanno tutti gli avvocati del diavolo che lo hanno marchiato di una vita facile. Dove per lui la croce? Ha tutti gli onori di una carriera ecclesiastica, tutta la salute e la forza che durano fino agli ultimissimi anni, e le acclamazioni dei popoli, acclamazioni che lui stesso nota ripetutamente nel suo Giornale, pur con il palese distacco di chi vede ben oltre gli osanna degli uomini: dove la persecuzione che contraddistingue i discepoli del Signore? L’immagine di san Francesco di Sales che mi piace ripetere con altri “Io sono come un uccello che canta in un bosco di spine”, deve essere un perenne invito per me. Quindi, poche confidenze su ciò che può farmi soffrire. Le pene, attraverso le quali nei decorsi mesi il Signore ha voluto provare la mia pazienza, per le pratiche circa la fondazione del seminario bulgaro; la incertezza che perdura da oltre cinque anni quanto ai compiti definitivi del mio ministero in questo paese; le angustie e le difficoltà di non poter far di più, e del dovermi contenere in una vita di eremita perfetto, contro la tendenza del mio spirito alle opere del ministero diretto delle anime; il malcontento interiore di ciò che c'è ancora di umano nella mia natura, anche se sin qui sono riuscito a tenerlo in disciplina: tutto mi rende più spontaneo questo santo abbandono, che vorrebbe insieme essere elevazione e slancio verso una imitazione più perfetta del mio divino esemplare (ibid., 1930). Se dopo una nota così, la conclusione è: “Intorno a me, in questa grande casa, solitudine assoluta e bellissima, negli effluvi della natura in fiore; in faccia, il Danubio; e al di là del grande fiume, la ricca pianura rumena, che nella notte talora rosseggia pei depositi petroliferi in combustione” – come dubitare della preziosità della genuinità della gioia che ha saputo comunicare?
Le fonti di una spiritualità
Fin da seminarista compare nelle sue meditazioni il nome di Tommaso da Kempis con la sua Imitazione di Cristo: opera che rappresenta la migliore sintesi dello spirito che suscitò la Devotio moderna. Caduto in disuso (purtroppo?) dal Vaticano II in poi, il libro - che per quattrocento anni ha avuto un’accoglienza straordinaria sia in campo cattolico che no – fu il testo su cui plasmò per tutta la vita i suoi esami di coscienza, la sua sintesi delle virtù. Ci son poi arrivato ad ottenere, per prezioso ricordo del [mio] parroco, il suo Kempis, quello istesso che egli, sin da quando era chierico, usava tutte le sere. E pensare che su di questo libricciolo egli si è fatto santo (ibid.,1898). Non da solo, certo, ma se il Kempis ha prodotto la vita benedetta di un uomo come papa Giovanni, ci si può chiedere se le vie della santità possono prescindere da maestri che riconducono all’intimità pensieri e azioni, prima che pensieri e azioni si perdano nelle regioni affannate del mondo. Di san Francesco di Sales, già citato, è invece l’assimilazione della vita, e in altro modo il segreto della vita di mansuetudine di Giovanni. E’ dal vescovo di Ginevra che attinge il profilo di una santità eccezionale nella “normalità” delle pratiche cristiane; e, a partire da lui, a proporre la modernità di una vita semplice, di un pensiero non complicato. La semplicità che lo fa arrischiare senza particolari patemi di indire un Concilio, la semplicità che non gliene fa calcolare i tempi, ma che affida allo Spirito l’evoluzione delle cose, viene da lontano. Oggi fu un giorno di festa completo; l'ho passato in compagnia di san Francesco di Sales, il mio santo dolcissimo. Che bella figura di uomo, di sacerdote, di vescovo! Se io dovessi essere come lui, non mi farebbe nulla anche quando mi creassero papa. Mi è dolce il ripensare sovente a lui, alle sue virtù, alla sua dottrina; quante volte ne ho letto la vita! come le sue sentenze mi scendono soavi al cuore! come mi sento più disposto ad essere umile, dolce, tranquillo, alla luce dei suoi esempi! La mia vita, il Signore me lo dice, deve essere una copia perfetta di quella di san Francesco di Sales, se vuole essere feconda di qualche bene. Niente di straordinario in me, nella mia condotta, all'infuori del modo di fare le cose ordinarie: “omnia communia sed non communiter”. Ecco tutto (ibid., 1903). Un ecco tutto che riassume al meglio il metodo dell’anima che si apre allo Spirito. Una santità comune, formatasi nel cammino di un popolo, anzi di tanti popoli: li serve, ma ne è servito in ulteriore conoscenza. Quanto avverrà di universale durante il suo papato è sostenuto dall’acutezza nell’osservare, dall’umiltà di apprendere. Le doti che mostrerà al mondo produrranno il miracolo di un santo che piace. Di un santo che attinge da Dio e dagli uomini il metodo di una vita giusta. Dunque di un santo non a metà, solo piegato sulle debolezze degli uomini, o solo rapito dall’attesa della gloria di Dio. Papa Giovanni ha fatto vedere la pienezza che assume anche la debolezza. Anche per questo, è un santo che piace: non nasconde a se stesso le contraddizioni e del suo temperamento e della chiesa, a cui resta sempre mitemente fedele. Il constatare però la distanza fra il mio modo di vedere le situazioni sul posto, e certe forme di apprezzamento delle stesse cose a Roma, mi fa tanto male: è la mia sola vera croce. Voglio portarla con umiltà… Dirò sempre la verità, ma con mitezza, tacendo su quanto mi paresse torto o offesa ricevuta, pronto a sacrificare me stesso o ad essere sacrificato. Il Signore tutto vede e mi farà giustizia. Soprattutto voglio continuare a rispondere sempre bene per male, ed a sforzarmi di preferire, in tutto, il Vangelo agli artifici della politica umana (ibid., 1936). Nella stessa ricerca della calma e della pace, che ritenevo più conforme allo spirito del Signore, non era sottaciuta una tal quale indisposizione all’impiego della spada, e una preferenza a ciò che anche personalmente è più comodo e più facile, anche se di fatto la dolcezza è definita la plenitudine della forza? O Gesù mio, tu scruti i cuori; e il punto giustoin cui la ricerca stessa della virtù può trascinare a difetto o a eccesso, a te solo è noto (ibid., 1950). Dal Giornale dell’anima traspare una originalità cristiana che è tutta da scoprire. Come il Precursore da cui ha preso il nome, fu antico nei costumi della fede e nuovo nell’indicare. Non ebbe paure, papa Giovanni: e questo è davvero il segno di un credente. Per questo la morte di quell’uomo fu santa: santa era stata la sua vita d’uomo.
abbracciare le piaghe
Molti si chiedono che cosa sta facendo il papa. E la risposta ovvia che viene anche da Rio de Janeiro è: sta incontrando. Non attraverso elucubrazioni, ma con gesti: chiari e percepibili da tutti. Libero dalla coorte, libero dagli appannaggi: chi sa che sofferenza per chi godeva dell’odore di naftalina liberato dagli armadi delle sacrestie di San Pietro per rivestirlo di panni degni del re di Francia, prima della ghigliottina. (Ma la loro sofferenza è purificazione, direbbe Proverbi). Incontra: e non tanto - voglio essere politicamente scorretto - detenuti, drogati e prostitute: anche. Incontra la gente del quotidiano: incontra il ladrone pentito e quello non pentito, ma non sapendo neppure lui distinguere l’uno dall’altro, e tuttavia dando a ciascuno il suo sorriso non artefatto. Incontra il desiderio di genitori che offrono un bimbo al suo bacio, genitori che talvolta si fermano lì, in una richiesta magica di salvezza: ma che importa? Cristo è per chi si accompagna e per chi lo sfiora senza sentirne il profumo. Quando la Chiesa è chiamata a cambiare, le forze del male attaccano (il diavolo? vedo che lui lo richiama spesso, ma lo declina rimandando agli uomini che sono diabolon, bastone tra le gambe: vescovi tristi? lobby insane? carrieristi non amati da Dio? arroganti che sottraggono il pane?). Ci sono abbracci che non si possono rifiutare, dice lui, perché ci sono lebbre che hanno nomi diversi. Rifiutare di abbracciare, è rifiutare di essere abbracciati in quei bisogni nascosti nelle pieghe dell’anima. Che neppure si conoscono, e che tuttavia combinano o scombinano la nostra storia. È la sua teologia: la teologia di Francesco papa. La stoltezza di chi non vuol capire – quei settori tradizionalisti che basano la loro fede su merletti e riverenze, o quelli che tutto riducono a categorie di purità e impurità – esige che si sia lì a difenderlo dall’arsenico di chi non vuol cambiare. Scartando così il Gesù dei Vangeli: proprio quello che è lì nella gestualità piena di amore di questo papa. Certo, resto sempre sulla posizione della non enfasi: attenzione a questo papa, attenzione a non coglierlo per moti di pancia, come mi pare qualcuno si limiti a fare: non potendo oltre, forse. Coglierlo per il vangelo che vive e che chiama a vivere: chi vuoi essere? Pilato che si disimpegna? o il cireneo che si impegna? O Maria che con le donne delle Gerusalemme del mondo si accompagna? È la fede fatta amore.
chi si accontenta
Il parroco di Sotto il Monte ha più volte invitato papa Francesco a venire nella terra di papa Giovanni, così dicono i giornali. Il papa gli ha risposto con molto di più: ha deciso la canonizzazione del nostro Conterraneo. Non può bastare? Io credo proprio di sì. Francesco papa che deve venire a fare? E’ chiaro che piace a tutti invitare in casa propria chi si stima e si ama. Ma oggi Francesco, il vescovo che presiede nella carità a tutte le chiese sparse nel mondo, sente il suo impegno rivolto ad altre terre, le periferie di cui ha parlato sin dai primi giorni. Lì è chiamato a costruire ponti, ad essere pontefice. Non che noi non si sia una periferia della fede: troppa indifferenza, e troppa presunzione di salvarsi senza merito allignano anche qui da noi. Ma le Lampedusa del nostro pianeta meritano di più una sua presenza, perché lì può raccontare con gesti nuovi che cosa può essere la Chiesa di Gesù. Francesco ha settantasette anni; per quanto di forte etnia piemontese, ci pensano le irruenze dei pellegrini (e i bergamaschi pure) a debilitarlo con abbracci a volte maleducati; sa di avere un tempo breve per quanto possa essere lungo (e noi glielo auguriamo il più lungo e sano possibile). Ma come ogni giorno si può vedere, sente di avere molto da fare per purificare questa nostra Chiesa a partire dalla stessa sua casa attuale. Lasciamolo stare. Quel che avrebbe potuto dirci, ce lo ha già detto nell’udienza concessa in San Pietro: “Custodite lo spirito di Giovanni XXIII, approfondite lo studio della sua vita e dei suoi scritti, ma soprattutto, imitate la sua santità. Lasciatevi guidare dallo Spirito Santo: non abbiate paura dei rischi. Docilità di spirito e amore verso la Chiesa: il Signore farà il resto. Dal Cielo Egli continui ad accompagnare con amore la vostra Chiesa, che ha tanto amato in vita, ed ottenga per lei dal Signore il dono di numerosi e santi sacerdoti, di vocazioni alla vita religiosa e missionaria, come anche alla vita familiare e all’impegno laicale nella Chiesa e nel mondo. Grazie della vostra visita! Di cuore vi benedico”. Più di così! Siamo generosi: se vuole incontrare altrove che da Roma, lasciamolo libero. Il mondo è grande, e pieno di periferie molto meno visitate dalla grazia. La nostra grazia è di stare con il papa del Concilio - additato, nelle sue origini bergamasche, come un esempio di uomo - : che cosa possiamo pretendere di più?
Simone da Pontida
Al seguito di Gesù non ci sono molti giovani. Voi dite Giovanni? Sì, ma è l’unico. A lui è affidata la Madre? Ma era lui solo ai piedi della croce. Ci fosse stato lo Zelota o il Didimo, credo sarebbe toccato a loro. Ma non c’erano. Nei vangeli si parla di un giovane chiamato da Gesù: ma non è neanche sicuro che fosse un giovane, dato che due altri evangelisti indicano i destinatari di una chiamata, che non avrà risposta, o in un notabile, o addirittura in uno senza identità, un tale appunto. Eppure oggi scopro, a duemila anni di distanza, che il nome di Gesù è fiorito sulle labbra dal cuore di un giovane, un ventunenne che ha dato la vita obbedendo alla chiamata per i poveri. E’ Simone Losa da Pontida, un tiro di sasso dietro questa nostra collina. La sua vicenda risale a dieci anni fa, ma lo scopro solo ora, in un libro che la sua mamma mi ha regalato la sera di domenica scorsa; un libro che raccoglie le lettere degli ultimi otto mesi della sua vita in Perù, dov’era per una obbedienza al Signore che lo aveva chiamato a servire i poveri più poveri del mondo. E poveri soprattutto, lui scrive, quando vogliono imitarci nella nostra ricchezza fatta di tv, droga e apparenza. Bello, Simone, e non solo per il sorriso bello che invita fin dalla copertina di un libro che mi ha riempito l'anima. Bello un giovane che è già grande, che non sa di sapere ormai tutto di quello che si deve sapere per tenere la strada. Bello, per una voglia d'amore che si apre in amicizia fedele e in condivisione generosa. Bello soprattutto per una fede bambina e insieme adulta, che lo mette sicuramente nel richiamo dei fanciulli che ci è chiesto di lasciar andare a Lui, seppure con tutto lo strazio quando una vita giovane muore. Appunto, il Gesù che gli fiorisce dal cuore alle labbra, e alla penna, lo fa essere testimone credibile, un piccolo santo come dicono di lui coloro che hanno vissuto la sua vigilia dell’incontro con quel Gesù che cercava, forse non sapendo di possederlo già. Anzi, di essere da lui prescelto. Simone Losa da Pontida. E i giovani su cui concioniamo continuamente, di cui ci diciamo (ma ci diciamo solo, purtroppo, e non facciamo!) impegnati a dargli un futuro - e bla bla bla - ma che abbandoniamo a se stessi quando ancora non sanno e non possono condursi; ma i giovani a cui intanto non diamo un presente di senso; ma i giovani che ci girano attorno in questo vortice di mondo senza voglia di Dio, hanno, questi giovani, la mamma di Simone, che gli ha insegnato ad essere un uomo facendogli odorare il profumo della fede? Incontrare Simone commuove. Un piccolo santo? Un grande giovane santo. Fatemi incontrare i Simone di oggi, per favore.
architetture, e falsi
Sopra pensiero, si sbaglia la strada. E ci si ritrova a percorrere luoghi che il viaggiare in autostrada ha ormai reso distanti. Così, in questi giorni sono ripassato nella bassa bresciana. Avevo avuto occasione di parlarne già qualche tempo fa con un noto architetto bresciano: una pletora di nuove costruzioni, di condomini e di ipermercati, nati all’insegna della pseudo-novità. In stile greco-romano con capitelli, loggette pensili, timpani triangolari; o in stile rinascimentale, una Las Vegas che sembra fermarsi alle porte di Ponte s/l Oglio _ non che in bergamasca sia tutto meglio, ma di una bailamme così caotica, e alla fine sciatta, non ho segno. Il tutto inserito dentro paesi che fino all’altro ieri erano contadini, con case di ben altro tono, certo meno sfarzoso, ma case su misura della gente che le abitava. Un nuovo vecchio, un nuovo senz’anima. Falso, dunque. Dove l’anima dell’abitare sta nelle facciate pretenziose. A parte il rammarico di non vedere una nota di contemporaneità, che rinnovi senza scopiazzare, quello che infastidisce è questo acquietarsi dentro fantasie da telenovela da parte di popoli che pure hanno una loro grande cultura del costruire, e dunque dell’esserci. E per quella sindrome dell’accostamento con altre realtà - che affligge il pensiero di chi pensa - mi sono ritrovato a rimuginare sull’architettura della Chiesa contemporanea, che alcune parole e alcuni gesti di papa Francesco stanno sottolineando nella sottrazione. Certo l'Istituzione, ma essa non deve aver nulla a che fare con una chiesa di molto apparato, di molta scenografia liturgica e no. Di molti orpelli, che una recente intervista del padre Sorge denunciava, seppure nel suo stile molto dolce: basta con le eccellenze e anelli, basta con vesti rosseggianti e contorni merlettati, basta con tutto quello che nasconde la sobrietà solenne del Vangelo. Dei falsi, dunque. Come sentire l’odore delle pecore se rivestiti di quei fazzoletti a manipolo, nati in tempi di poche lavature e di molte puzze? Riuscirà la svolta? e proprio là, nei gangli che finalmente non accomodino nel “non è tutto lì”, per non cambiare mai radicalmente quanto appanna se addirittura non distorce l’immagine della Chiesa? La rivoluzione è possibile. Occorrono gesti audaci. Della popolarità della sua corte un papa può finalmente infischiarsene: non sono quelli il cuore del popolo di Dio. Stia solo attento ai veleni dei borgia contemporanei.
importanza della meta
Domenica scorsa, nella liturgia, abbiamo dato la benedizione ad alcuni in partenza per Gerusalemme e Santiago de Compostela. In unità con il Signore, abbiamo detto-bene sul loro cammino, verso queste mete antiche della religiosità cristiana, segno dell’andare proprio della vita. Una benedizione, che, checché ne abbia scritto quella santa e narcisistica donna della Zarri, è un segno che si traccia fin dai patriarchi biblici, a dire bene su chi va nelle giungle del mondo: un tempo, cammini per loro natura senza ritorno – distanza, malattie da digiuni, sorprese di briganti. Come nella vita: si va, e non c’è ritorno sui giorni, siano essi pieni di soddisfazioni, o persi per l’incongruenza che non prende ciò che è dato. Cammini che portano con sé la domanda di senso: la meta. Ho fatto anch’io per tre volte la strada di Santiago: non nell’intero, ma per pezzi adeguati a gambe e spirito. E già questo può raccontare il discernimento che ciascuno è chiamato a compiere sulle proprie forze, per non volere di più di quel che si può: anche se può apparire mortificante per l’orgoglio del voler essere. E la meta diventa a poco a poco il perché, mentre si va: perché così, perché la sete, perché tener fede nonostante la fatica. La speranza di intravedere la meta oltre il culmine della prima e della seconda e della ennesima collina: uno scollinare che illude e delude: come la vita. Ma è la meta a reggere: l’invisibile agli occhi, per il lungo-breve tratto dell’esistenza terrena, ma visibile nel cuore della fede. Perché si crede, ci si affida a Dio, ma si vorrebbe poter credere, e dunque affidarsi agli uomini, che di Dio sono per ciascuno l’immagine. Ecco perché serve ricevere benedizione, e che ci sia ancora qualcuno che ponga su di noi le sue mani, segno dell’accompagnamento, segno che non rende mai solitario colui che è solo. Guai a chi non si lascia accompagnare, dice il settimo evangelo, quello che ciascuno di noi sente scritto nella propria carne. L'importanza della meta sta nel trovare attorno, per non perdere ciò che sta davanti.
minoranze e no
A domenica prossima l'annuncio ufficiale delle nomine a nuovi incarichi dei preti per la nostra Chiesa di Bergamo. E sarà una volta di più un bel carosello. Intendiamoci, non che non debba esserci: alcune volte è per preti stanchi, se non sulla soglia dell'anticamera dell'eternità; altre volte è per dare aria nuova a parrocchie che risentono di un chiuso da obsolescenza di proposte; altre volte (ma poche) c'è chi chiede di lasciare per non incorrere nella tentazione di definirsi padrone delle "anime loro". Intanto c'è da dire - anche qui a parte alcune situazioni - che ogni distacco è una pena: per chi lascia, e per chi è lasciato. Sì, proprio come nell'amore. E semmai un rimprovero che può essere fatto, è che per alcune vicende non c'è sufficiente condivisione dell'umano che si strazia. Neanche si fosse dei funzionari. Che è ciò su cui mi sono battuto nell'ultimo Sinodo diocesano: essendo a capo di una minoranza molto, molto ristretta (ma si sa che le maggioranze non sempre hanno le ragioni dello sguardo lungo - e chiamatelo pure profezia se vi riesce). Funzionari: che piaccia o no, questa è l'immagine, ma non solo, che si dà - se si fissa un incarico a tempo per un parroco che invece deve poter vivere di una paternità. Che se viene interrotta, deve pur sempre essere dentro una visione di bene più ampia di un organigramma. Contro i nove anni dell'incarico a termine: che non risolve, ed è lì da vedere, le "precarietà" che chiedono spostamenti anticipati; anzi le giustificano, nascondendosi dietro quella che da norma giuridica è diventata il lasciapassare per eventuali disobbedienze; e non danno fiato a preti più che sessantenni, cui si chiede di ricominciare da responsabili in realtà di cui non avranno possibilità di "sentire l'odore" secondo una felicissima-antiestetica espressione di Francesco papa (felicissima per il calarsi, il sapere il nome e dunque la vita dei propri parrocchiani; un poco infelice perr l'odore di pecora che non è tra i migliori: ma si sa, non si può chiedere tutti i puntini sulle i neppure ai papi, soprattutto se predicano con il cuore in mano:::). I preti non sono superuomini, e forse non è lontano dal vero chi pensa che essi stanno in una particolare categoria dei lavori usuranti: tutti loro dovrebbero dare la vita, e molti lo fanno, in una quotidianità che chiede loro di passare nel giro di un giorno da chi muore a chi nasce a chi sposa, dal dolore alla gioia, dalle speranze alle disperazioni. Se si calano, e lo fanno, sono docce svedesi che non hanno, come quelle, risultati di benessere. Il logorio c'è. Eravamo, nel Sinodo, minoranza per avvertire: ognuno sia contato per la sua storia; e, semmai, cambi il farsi della storia della diocesi, per non chiedere loro quanto non possono dare; e dunque non metterli nella disposizione di un esaurimento psicofisico. Vorremmo i nostri Vescovi, e i loro delegati, non nell'inferno del rancore scaturito da cuori che pure sono puri.
ma che contro!
E' morto. Il prete rosso, il prete di strada, il prete no-global. Don Andrea Gallo è il fondatore della Comunità di San Benedetto al porto di Genova, un'isola di solidarietà nel cuore di una città con mille problemi, che accoglie tossicodipendenti ma più in generale persone in difficoltà: ex prostitute, ex ladri, uomini e donne in transito da un sesso all'altro, e i cosiddetti barboni. Il prete contro, come è stato sempre titolato dai giornali che non capiscono nulla del Vangelo. Per la verità, lui stesso - un santo straordinario, poco da altare, ma non si sa mai con Francesco papa - la fama dell'essere contro può averla alimentata, con quel lato di teatralità che, sigaro e cappello sulle ventitre, gli facilitava. Lui era un prete come sono i veri preti, anche se non si occupano direttamente della strada, ma obbediscono al Vangelo là dove sono mandati. Perché un prete vero non è mai contro, è sempre a favore. Contro se lo possono sentire quelli che ne sono disturbati. e semmai sono questi che sono contro. Ne ho parlato, un mese prima che morisse, con Candido Cannavò, venuto in S. Lucia con il suo libro "I pretacci". Lo invitai a scrivere dei preti che meno sono visibili nelle opere estreme, ma più vivono gli estremi nella quotidianità nascosta delle parrocchie. E più si scontrano con chi li etichetta di cattocomunismo perché predicano un vangelo il più possibile sine glossa, senza facili accomodamenti ai loro fedeli della domenica: che di povertà spirituale vivono talvolta con meno pungoli - di fame e di freddo dell'anima - ad affrontarla. Si ripromise di farlo. Ora don Gallo, che lo incontrerà nell'armonia angelica - e nella verità più vera di una pur santa vita - si affacci con lui dai cirri celesti sulle canoniche più nascoste: e insieme vedano chi ama mettendosi contro, eppure non essendo contro. E lodino insieme il Signore; per gli uni, i pretacci delle strade, e gli altri, i pretini di un'obbedienza meno mediatica.