dare il nome
Laggiù a Roma si fanno le prove di un cambiamento, o meglio: delle risposte a un cambiamento antropologico. Ma qui in periferia si va via come se fossero cose altre, quelle. Tutto come prima, anzi, peggio di prima se si considera che pure un vento c’è stato. Qui ci si nasconde dietro il codice di diritto canonico per reintrodurre cose che il tempo ha reso obsolete: obsolete naturalmente per chi ha occhi per vedere, e orecchie per ascoltare. Per gli altri sono i fortini dentro cui sviluppare sé, e la propria incapacità di fare buchi in recinti che imprigionano. Di sperimentazione pastorale magari ne leggono, se non addirittura gli capita di scriverne: nei fatti non sanno avvicinarsi. E per timore di essere scomposti, si guardano bene dall’informarsi da chi ha condiviso l’immediato passato. Disturba l’io che si sono costruiti volendo troppo bene a se stessi, alle proprie pratiche; e non si lasciano importunare. Piuttosto, molestano il cammino delle comunità, pensando di far bene: e hanno come ombrello le parole di Gesù scusanti quelli che non sanno quel che fanno - e sembra quasi il loro motto parrocale. Esercitazioni di libertà, là in Sinodo, adesso; qui, adesso, si pensa di compattare le pecore nell’ovile, proiettando progetti di statuti persino là dove il bene si è dispiegato per fraternità vera, per ascolto vero, e non per difensività che scoraggiano persino i migliori. Si rassicura con il fieno della cascina, togliendo la freschezza dei prati. Davvero Nostro Signore pensava a una organizzazione, dove le regole, sotto altre spoglie, copiassero le 613 mitzvò del suo tempo, e non fossero quelle del “suo” sabato? Non mettere addosso ai credenti pesi inutili: non è che i loro pesi servano a loro (ma è retorica questa domanda, lo confesso), alla loro idea ideologizzata? Quella poi che fa comporre gli estremi, reintroduci qui e spazzola via là: dove le due azioni non hanno coerenza ma obbediscono al principio di contraddizione. Ma, voi miei lettori in numero manzoniano meno qualcuno, mi obiettate in buona ragione: se sono stati scelti, i capi sapranno... A volte il proverbio “dove non ci sono cavalli...” diventa un paravento per non cercarli, i cavalli. I cavalli, soprattutto se hanno conservato uno spirito giovane, scalciano: ma la loro gagliardia sa piegarsi alle mani della sapienza. E ci sono: in tutte le chiese, e proprio nelle periferie della periferia ecclesiastica. E così si finisce per mettere in cattedra quel che si trova: e così rimbombano zoccoli d’asino sull’acciottolato mite delle nostre comunità. Ma esploderanno, oh se esploderanno! E allora toccherà a qualcun altro riprendersi il tempo buttato da chi non ha saputo o voluto immettersi in una storia di sperimentazione pastorale per arricchirla. Perché, Signore: fino a quando si dovranno scusare quelli che non sanno e tuttavia fanno? Tu sai che la nostra impazienza è inversamente proporzionale alla tua: scusa anche noi, che pretendendo di sapere (ma, riconoscilo Signore, qualcosa abbiamo studiato nel vissuto di coloro con cui abbiamo condiviso all’osso la fatica di esserci), sperano che nella chiesa finalmente si segua l’unica regola che descrive la propria libertà battesimale: dare il nome. Nomen omen: a volte, volendo cambiare un nome alle cose, si finisce per svigorirle se non per affossarle. Per esserci, per appartenere non per ruolo ma per missione, occorre dare un nome vero alle cose, un nome che fa nuovo. E occorre soprattutto dare il proprio nome per essere un corpo, per fare comunità
medianicità
Il fragoroso arresto in Vaticano dell’ex nunzio già per altro ridotto da tempo allo stato laicale (dunque non più prete) per abusi su minori, e la rimozione del vescovo paraguaiano con la motivazione di aver diviso la Chiesa accusando tutti gli altri vescovi del suo Paese di non essere dottrinalmente ortodossi, ha riempito le pagine di giornali e tv. C’è una accelerazione di quel processo incominciato già con papa Benedetto, per sconfiggere dinamiche clericali che sfigurano il volto della Chiesa. La tanta gente in tutto il mondo che segue con simpatia e attenzione la parola e il messaggio di Francesco papa ha riacceso speranze dopo gli anni degli scandali e degli intrighi di corte patiti soprattutto dal suo predecessore. Un cammino che trova fatali resistenze in quei giochi delle cordate e del carrierismo, che fanno pensare che lo Spirito Santo debba soprattutto rimediare nel dopo – non sempre riuscendoci, visti i risultati - quello che prima è stato prodotto non certo per il servizio al popolo di Dio. Per quanto deciso, papa Francesco non può rimettere magicamente (o miracolosamente) ordine in una struttura che si è data come regola quella della autoriproduzione in un delfinato di nomine che hanno assicurato per decenni che non nascessero voci diverse nel coro di una uniformità senza profezia. Chiedersi dove sono i vescovi che sanno opporsi, non è disfattismo ecclesiastico, ma desiderio di ripresa di uno stile ecclesiale conforme al vangelo: va sconfitta la fronda di chi aspetta la fine di questo papato nella voglia di riprendersi i ritmi da prelati burocrati, lontani dal sentire sofferente degli uomini del nostro tempo, attaccati a privilegi, ossessionati dai cosiddetti principi non derogabili. In questo processo ci si mettono non solo uomini di chiesa a fare i diaboloi, ma una medianicità che fa cogliere dei gesti del papa solo quanto risponde alla pancia di credenti e non. Sradicare i criminali dal loro crimine, metterli nella condizione di non nuocere, rieducarli se si può, certo! Ma il pudore è ancora di casa? A volte si è pensato che il lavare i panni sporchi in casa fosse suggerimento ipocrita: ma non può essere rispetto della persona, per quanto ignobile? E quando si capirà che il segreto in certe situazioni non è omertà? La gogna, no!, per nessuno. E servirsi dei gesti di Francesco per buttare fango sulla chiesa di cui è il primo garante non può essere accettabile da chi trasforma notizie dolorose in un gossip sottilmente irridente e dunque demolitore. Che si sputi sulla chiesa, è inaccettabile quanto sputare sulla propria madre: foss’anche una lucciola (le mamme, comunque, non dovrebbero morire mai, né in morte né in vita). C’è uno scandalo dei piccoli del vangelo che non si può assolvere con lo scandalo orribile del vituperio della dignità di minorenni violentati: il monito della pietra al collo resta valido per ogni facitore di scandali, di qualunque natura. Negarlo, per ossequiare un presunto politically correct, è negare il rispetto dovuto ad ogni uomo, sia Caino sia Abele. E purtroppo il tentativo di trasformare un papa dai tratti evangelici in una popstar, è il peccato di cui si sta macchiando una certa ottusità mediatica che ne violenta la persona e la missione.
Enfasi
Dice il dizionario “calore esagerato, forza eccessiva che, per artificio retorico e per ottenere maggiore effetto, si mette nel tono di voce o nei gesti quando si parla, e anche nello scrivere: gonfiezza, ampollosità, cui non corrisponde, per lo più, una effettiva forza di pensiero o un contenuto adeguatamente significativo”. Sul Sinodo in corso d’opera, e sul suo oggetto che è la famiglia (ogni famiglia è sacra, secondo il logo adottato per un dipinto figurativo presentato al papa) c’è enfasi. Adesso che per la prima volta (per quanto ne sappia) la parola parresia è pronunciata da un papa, distendiamoci senza la paura di soloni che t’aspettano al varco per rimetterti subito in linea: loro che non ascoltano mai. Non che per il passato ci si sia lasciati fermare nel dire dal timore dello scrivere o del pronunciarsi su alcuni gangli di quel sistema linfatico che attraversa tutto il corpo della chiesa; e che aveva fatto suggerire sommessamente dal cardinal Martini che snodi irrisolti dovevano prima o poi essere affrontati, se non si voleva che il disagio diventasse una malattia irreversibile. Con parresia dunque diciamo che sul Sinodo s’è fatta molta enfasi: e da chi si aspetta una rivoluzione dottrinale sul matrimonio, e da chi sottovaluta che la comunione nella chiesa non passi anche attraverso la comunione eucaristica. Gli uni quasi a non porsi il fallimento di una unione sancita da un sacramento, gli altri a definire appartenenti alla chiesa quelli che pure costringe a stare sulla soglia. E con parresia diciamo che sulla famiglia si è fatta molta enfasi: facendola diventare un dogma cattolico. Certo, la famiglia resta una buona notizia; e una volta di più, politically incorrect, mi schiero con lo stile italiano che non sbatte fuori i figli subito dopo l’adolescenza, come è nell’uso anglosassone. Il legame di reciproco affetto abbisogna di una comunione della vita: la chiesa può ignorare le molte forme di convivenza che della famiglia tradizionale hanno la sacralità dell’affetto. Chi potrà osare dire che Dio non può essere presente lì? I padri sinodali sono chiamati a pronunciarsi su un tema particolarmente complesso, della complessità di cui è ormai imbastito questo nostro tempo. Certamente i percorsi che dai cinque continenti prenderanno il suono di voci diverse condurrà ad ingorghi. Non c’è d’aver paura, ha predetto papa Francesco: basta ascoltarsi, e ascoltarsi con umiltà. Quello che conterebbe per una buona uscita, per dipanare la matassa di sensibilità diverse, porsi di fronte alla rappresentazione della realtà così come è, ed enunciando come la si vorrebbe: dal vero reale al vero ideale. Senza il primo, non si dà il secondo. Ora i vitigni rinsecchiscono in colori che sfumano dal rossiccio al cappuccino: descriverli diversamente può solo confortare gli illusi. Ogni stagione è bella se non la si scambia con un’altra: che è poi l’esercizio sterile di chi in inverno va ai tropici, nell’illusione di una perenne estate. Tralci della vita tagliati, e messi ad essiccare. (E poi c’è un enfasi sbagliata su Francesco papa. Così lo si può anche affossare: ci giocano i suoi nemici, dentro e fuori la Chiesa. Ma su questo, un’altra volta.).
Che succede?
L’aver umilmente anticipato Francesco papa nel domandare se fossimo caduti nella terza guerra mondiale, seppure frammentata (una di quelle parentesi esemplificanti che si generano da sé durante le omelie domenicali) non è indice né di un presumere di intuire lo svolgimento di eventi futuri né tantomeno di un telefono privato con Lui (ancora!?). È una sensazione diffusa in molti di noi, che se non prende quel nome inquietante per altro presente in certe visioni apocalittiche di natura religiosa, certo pone domande. Non fosse sufficiente lo sconquasso che avviene nelle nostre quotidiane esistenze – malattie, fallimenti, tradimenti;e suicidi di giovani cui non si è insegnato la fatica dell’amare; e questa nazione che non riparte, e continua a macinare persone senza lavoro - non fosse sufficiente questo, quelli che un tempo chiamavano focolai di guerra ora sono eruzioni vulcaniche. E non solo nella cronica impotenza della Palestina ad uscir fuori da un imparpagliamento, ma in tutte le terre che le stanno a nordest, già alleate per distruggere Israele, e ora in lotta anche tra loro per l’invenzione di quel califfato che ripropone il seicento maomettano nel nostro presente. Gole sgozzate, teste tagliate, violenze su donne e bambini, pulizie etniche e rivendicazioni di storie e territori che come in Ucraina di fatto stilano ogni giorno i loro bollettini di morti. Per non dire dello stillicidio dell’Africa dall’anima più nera, a cominciare dall’assassinio dei monaci di Tibhirine fino a queste ultime esecuzioni di cristiani, laici preti e suore. Che succede all’uomo? donde questa ondata di caini? e dove la risposta dei popoli che si dicono civilizzati? e quale la risposta dei cristiani in questo tourbillon del mondo? Fa specie ai più avvertiti che, eminenti personaggi che antepongono la teologia (la loro!) all’uomo e alla sua fragilità, si perdano nelle regole del sabato, come se non avessero più il Vangelo sui loro tavolini di studio. Fa specie che rincorrano il peggio di quanti non sanno la misericordia, che se si avvale del giudizio, tuttavia non mette alla porta nessuno. Forse quel che succede nel mondo delle guerre guerreggiate deve succedere: all’apice di uno sfruttamento di anime prima che di una ladrocinio di beni creati per tutti, si può credere che si precipiti perché tutto sia rimesso all’inizio, ad un ricominciamento. Non avendo tenuto conto dell’ammonimento biblico sul ridare la terra alla terra nei giubilei cinquantennali, sulle tragedie del mondo i cristiani sembrano svampiti come le miss Italia (quale ritieni sia la cosa più importante? la pace nel mondo) . E non secondo l’articolazione della Pacem in Terris che li vuole protagonisti di un cambiamento, attori fino al dimenticare sé per l’altro, ma rintanati dentro le regole che non fanno la libertà della fede. Per fortuna abbiamo i martiri, anche oggi: che sarebbe una bestemmia chiamarla fortuna, se non fossero loro a mantenere alta la speranza dell’annuncio possibile del Vangelo dentro rovine e fiamme.
11 settembre
11 settembre, sulla stupenda spiaggia di Biarritz, al termine del pellegrinaggio a Lourdes, in uno di quei viaggi che sono fatti di preghiera e di bellezza: perché si vive la vita verso l’invisibile, sapendolo cogliere nei profumi e negli scenari del mondo là dove sono seducenti. È il primissimo pomeriggio di un martedì, e vedo gente che corre dalla spiaggia: alcuni si attorcigliano attorno al televisore del pullman che ci ha portato lì. Mi avvicino, e le prime inconcepibili immagini scorrono. Non ci si crede: qui un sole di fiaba, là un fumo di tragedia. Là? No, qui davanti a noi, giusto a qualche migliaio di kilometri, ma davanti, dall’altra parte di quest’acqua d’oceano. È possibile? O è una riedizione in chiave televisiva de La guerra dei mondi, lo sceneggiato radiofonico trasmesso nel ‘38 del secolo scorso, giusto negli stessi Stati Uniti, rimasto famoso per avere scatenato il panico descrivendo l’invasione di marziani? Lì non sono marziani: si dicono figli di Allah, uomini come noi che scatenano l’inferno. Lo avremmo saputo dopo qualche ora, e dopo qualche giorno avremmo saputo il numero a migliaia dei morti per l’abbattimento di due torri, simbolo dell’orgoglio piuttosto babelico di New York. Che non sia uno sceneggiato a effetti speciali, ma una tragica realtà ce lo conferma nel giro di qualche minuto, per rassicurare, il cellulare della figlia di due nostri compagni di viaggio, e subito dopo l’addetto all’ambasciata italiana che pure ha la mamma con noi: stanno in quella città, di fronte a noi, a qualche migliaia di kilometri, e tuttavia vicinissima per l’angoscia di questi familiari. Che è poi la nostra angoscia. Una bellissima giornata rotta: non c’è più sole che tenga, e neppure l’azzurro terso del mare. È una nebbia dell’anima, la stessa che invade i giorni che stiamo vivendo, per califfati che si ergono a giudizio del mondo, da uomini che bestemmiano Allah dicendosi suoi figli: per teste che rotolano, per donne violentate, per bambini massacrati, per notizie che non tengono oltre qualche giorno, mentre si mantiene l’orrore che non smette. Questo nostro destino di accantonare, di non tener vicino quello che avviene anche ora a migliaia di kilometri, ma comunque davanti a noi, il destino di chi non vuol perdersi il suo sole e i suoi colori, negando il visibile vero che è dato: e così negandosi l’invisibile. È vero: non si può vivere di tragedie sempre: ma se bussano? Se stanno lì, dietro le porte di un egoismo mai sconfitto? Di un egocentrismo che allontana persino i vicini e gli amici, pur di non perdere un proprio io inventato? Come vorremmo non essere traditi mai da figli degli uomini! E invece succede: e sono spine nel fianco della vita. Certo continua il bello: finché non sarà distrutto dalla miopia dell’uomo, occorre coglierlo, per non perdere la speranza che figli di un Dio unico hanno avuto come promessa. Che sia pace: ma quale, ma quando?
Sono stato a Gerusalemme
Non mi riesce di fare la cronaca che fu di don Angelo Roncalli al seguito del suo vescovo Radini Tedeschi, nel primo decennio del secolo scorso. Allora, gli Ebrei non erano rientrati dalle tante diaspore, con il beneplacito delle Nazioni Unite, per abitare un pezzo di Palestina sottratto agli abitanti insediati lì da millenni. Allora, non era ancora avvenuta la Shoah, la tragedia immane che sarebbe diventata lo scudo di un monopolio della sofferenza, contro cui si sarebbe scontrato ogni tentativo di ragionevolezza sui diritti degli uni e degli altri. E, allora, non si erano inaspriti gli avversari fino a generare le due stirpi contrapposte, entro i propri popoli: l’una che fa della distruzione di Israele il fine della vita, avvalendosi del sacrificio di giovani vittime umane mandate alla morte per produrre terrore: e così avallando un muro inaccettabile; l’altra che si avvale di una potenza militare costruita sul denaro per rispondere al lancio di fionde intercettate da una tecnologia raffinata, estendendo sempre più le sue occupazioni di terra altrui: l’inverso biblico di golia e davide. Non mi riesce di cogliere la vena poetica della narrazione di quel papa santo che tra altre grandi cose avrebbe liberato i cristiani dall’idea del popolo deicida. E non perché andare in Palestina non voglia dire anche oggi perdersi – perdersi! - sulle tracce di quella Presenza che ha sconvolto la storia: Dio tra noi, nella persona di un Nazareno! Tracce di pietre, certo; ma tracce di fede,che restano tali, e acuite, dopo l’incontro con chi lì vive la tragedia di una separazione che ricorda Abele e Caino nello scambio ricorrente delle parti. Perché questa è la fatica: non sai darti ragione. Le ottime guide ti hanno avvertito: guarda, ascolta, non prendere subito parte. È la terra delle contraddizioni, fratelli contro fratelli, credenti nel Dio di Mosè contro iperortodossi che credono di credere nel Dio di Mosè: è l’arroganza di chi si sente unico figlio di Dio, e, la mano sulla kippà, pronunciano la bestemmia contro l’elementare teologia del Dio unico per tutti gli uomini, arroganza che diventa una pericolosa stupidità. È terra della guerra tra poveri, musulmani e cristiani nei ghetti dei loro quartieri, a vivere una insofferenza di cultura e tradizioni che ancora impediscono di varcare i confini dell’innamoramento tra un ragazzo di qui e una ragazza di là. Sosti presso il Santo Sepolcro un giorno intero, e su quella pietra puoi pure celebrare: senti lì risalire lo strazio di fraternità tradite, di amicizie interrotte. Il tuo e il loro strazio. Perché il passato illumina di sé il presente: il tuo e il loro. E senti lì l’impotenza di una uscita: dai territori del tuo malessere, e del loro. Lì capisci che la redenzione è un futuro che ha radici nell’oggi, ma non compimento: la Terrasanta come icona del destino del mondo sempre, in una lacerazione che non si ricomporrà che nei cieli e nella terra nuovi. È la tentazione della non-speranza: piegato sulla pietra dei profumi, chiedi di poterla superare, per dare ragione della speranza, contro l’assenza di una ragione di questo odio che annusi. Non solo odio, certo: e sono i più colpiti, familiari di vittime di una parte e dell’altra, che si scambiano i piccoli semi di rinnovamento (è in Terrasanta che vedi il piccolo granello di senape diventato albero). La senape si coltiva in zone molto soleggiate, la senape non ama l'ombra: io invece sono tornato dicendo a tutti che della Palestina ho apprezzato l’ombra, per sfuggire l'implacabile sole di agosto, l'accecante sole delle verità contrapposte. Perché il cammino di Terrasanta è faticoso per il corpo e per lo spirito: e mentre ti affacci sui semi di speranza, accetti tuttavia il limite di una incomprensibilità, che può momentaneamente rinfrancare: anche l’ombra, come la pioggia, è un dono. È una pazienza ristoratrice che quella terra insegna. In Terrasanta non si va oggi per incontrare la speranza. Oggi si va per darsi ragione della fede cui affidi la vita, nonostante. Nei giorni di quel piccolo prete che sarebbe diventato papa, non gli è stato chiesto di guardare un muro e ascoltare sirene di morte. A noi oggi è chiesto di guardare al cielo per non annegare nelle tristezze della terra. Sia pur Santa per i piedi che l'hanno calcata. Ma troppi secoli fa. Troppe generazioni dopo. La Palestina merita di essere visitata: ma nelle pietre dei cuori degli uomini che l'abitano oggi, nelle carni ferite dei loro orgogli e delle loro umiliazioni. E' condizione per scorgere le tracce di Colui che è risorto da morte. (Guardare, ascoltare, non avere pregiudizi per non ripartire con una bandiera contro un'altra, dicono le ottime guide: ma non si può decollare dalla Terra, pur Santa per tanti, senza giudizio). il viaggio si è svolto dal 7 al 14 agosto; nessun pericolo, controlli tra Israele e Transgiordania senza alcun problema; quasi soli come pellegrini: il che ci ha faciltato le visite e i trasferimenti, ma questo sta comportando una situazione di forte disagio per l'occupazione, producendo ancor più grosse difficoltà per i lavoranti palestinesi nelle strutture alberghiere, che sono costrette a ridurre il personale per mancanza di pellegrini_ l'invito assillante è che non li si lasci soli nei momenti difficili.
a pretesto
“C’è un ragazzo di 24 anni che gioca a pallone e guadagna ventimila euro al giorno perché qualcuno ha deciso che è un fenomeno. Questo ragazzo ha un fisico da corazziere, un tocco di palla regale e un tiro che è una cannonata”. Questo è l’incipit di uno dei tanti articoli sul capro espiatorio di una squadra che ha perso non il mondiale ma l’onore. Lui emblema di tutti gli altri, sfaticati, demotivati, preoccupati di propri polpacci (e delle spalle, che cannibali contemporanei ambiscono manducare!): così dicono le cronache, e lo scrivono anche per chi come me le partite non le ha proprio viste. Ma l’incipit mi serve per altro, un pretesto per accusare un certo uso ormai largamente invalso: avete presente la dicitura “lascia qui il tuo commento” che segue a tutti gli articoli online? e i twitter? E allora avete presente tutte le improntitudini a cui tanti si sentono autorizzati nel dire la loro. Autorizzati a dire tutto di tutti, senza aver conoscenza di nulla e di nessuno, che non siano i passaparola di uomini e donne chiaramente frustrati. (Ne ho fatto esperienza personale per quella “culla senza Bambino” travisata da una giornalistucola con un noi tramutato in un perentorio voi; e ripresa in scala nazionale da tv e giornali con commenti appunto farciti da improperi e inviti e sentenze di morte pretesca, accanto, per la verità, ad alcuni consensi – esperienza di cui potremmo piangerci e riderci un’altra volta). Almeno nei discorsi da bar ci si guarda in faccia: qui invece l’anonimato permette a qualsiasi cafone di sputare sentenze che nascono da risentimenti, e/o da pregiudizi. Ciò che rende impuro è quanto esce dal cuore dell’uomo, dice il vangelo: avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza; ma non è discorso per questi cercatori di uno sgabello da cui poter sputare. E, a volte, a suscitare il tutto sono quei cosiddetti cinguettii che hanno una fonetica da raglio. E sono le vittime a volte a cascare appunto come asini. È vero che quel ragazzo di 24 anni è stato più volte brutalmente assalito per la sua pelle nera: ma perché non accettare che lo si può criticare nemmeno lontanamente pensando alla sua pelle, ma a uno stile di vita che certamente non serve al meglio i ventimila euro giornalieri che gli vengono dati per la sua attività? E alla sua dignità? Se gli si dice che ci si aspetta da lui più di una, dicesi una, cannonata, che c’entra la pelle nera? Complesso di inferiorità? Può essere dopo sberle ricevute. Ma allora è problema che non deve chiedere agli sfatti degli spalti di risolverglielo: è lui ad avere bisogno di iniezioni d’orgoglio per la sua bellezza nera. Orgoglio, n0n spacconeria. Magari ironizzando senza cattiveria sulle pelli caucasiche che noi abbiamo. Lui, il ragazzo dal fisico da corazziere, è dunque solo il pretesto di questo scritto (ma pretesto poteva essere il presunto assassino della ragazzina tredicenne, pure lui assediato dai commenti online di chi si erge ad accusa o difesa): un prestesto per invitare i sani che noi siamo e quelli che abbiamo come amici, a lasciare solo agli stolti di usare quelle cassette di frutta per avere finalmente un posto al sole, un pulpito, da cui mettersi a sbraitare le loro insulsaggini nel Central Park che è per loro la rete: altrimenti, se non erro, definita social network. Social? Ma va’! Disastri politici, ma mentali, ma relazionali, quando alla conoscenza e alla verità delle cose si sostituisce l’inganno dell’io. Dunque una crociata? Perché no?
non vorrei
Da qui sotto. Portato via come presunto assassino di una ragazzina. E l’unica cosa che sa dire è sono sereno? sereno perché no, lui non c’entra proprio; o sereno perché in tre anni e mezzo ha ricomposto tutte le tessere del mosaico: trasformando un quadro di figurazione dell’orrore in una scansione di colori che non dicono nulla? Che non gli dicono più nulla? Sono sereno lo dicono in molti, quando calano il sipario sul tuo sguardo per quanto amorevole. Sipario steso su un dramma o una tragedia, a nascondere innanzi tutto a se stessi e poi agli altri qualcosa di insopportabile. Per raccontarsi una verità fabbricata, non la verità così come esce dalle pieghe dell’esistenza. Ma insopportabile perché non condivisa. Sono sereno, allora, te lo dicono prima ancora che tu possa chiedere: non dico investigare. E quando con molta asprezza non lasciano aperto un usciolo, rispondendo al tuo “come va” con un esitante “abbastanza” ma con un assertivo “bene!”, è evidente che non vogliono un aiuto, non vogliono che tu metta mano con le loro per rialzare quel sipario. Sono sereno, e non ti accorgi dei tuoi figli che si stanno aprendo alla vita? e di tua moglie che ha patito, senza sapere, la tua rielaborazione che ha fatto sicuramente di te accanto a lei un altro uomo, giorno dopo giorno? Possibile che, raccontandosi in modo diverso da come sono, non si accorgano della sofferenza che spargono dai pori di un’anima che ha sbagliato - e per chi non ci dev’essere misericordia? - ma si sottrae al lenimento della pena altrui? Qui, dei genitori di Yara? Ma altrove, di quanti irrimediabilmente si sono sentiti invischiati dentro storie che non si sono offerte dentro una vera corresponsione di aiuto? Tragedie che coinvolgono nel male: e non solo nel presente. Vite distrutte da ricomporre in un futuro di pazienza e di amorevolezza: quelle di figli, ma di una madre, la sua; di una donna, la sua; e di quanti la bava del loro male, per quanto finora nascosto, ha insozzato. Non fosse vero! È come quando ti dicono che un tuo familiare ha un cancro irrimediabile: e dici a te stesso che non può essere, che non deve essere. Oh, come vorrei che non fosse lui, il papà di figli che non meritano una pena infinita calata da ora nelle loro vite. Ma fosse, esca da quel sono sereno: si consegni finalmente a se stesso. Per battersi il petto, certo, ma per ricomporre il mosaico di questi lunghissimi giorni da quel gennaio in cui ha bramato fino all’omicidio: è l’unica strada per dare dignità ai suoi figli, dandone a sé.
fase rem
Sarà stato il vento impetuoso dell’altra notte, e il suo danzare veemente con la pioggia torrenziale: nel sottile tetto turbinio sordo, a riverberarsi in casa, rombo che in un primo tempo allarma, e poi culla fino a conciliare il sonno. E il sogno. Eccolo. Si stavano compiendo i giorni di pentecoste, la perfezione della pasqua, ed io mi trovavo in un angolo del cenacolo. Gli altri erano lì, nel mezzo, ad aspettare non sapevano che cosa. Io conoscevo cosa sarebbe accaduto: ero lì ma sapendo di essere venuto dal futuro, con tutte le informazioni che il loro discepolo Luca avrebbe raccontato per i posteri. E dunque il fragore (tanto improvviso che ha spaventato pure me, ma sarà stato un fulmine schiantatosi sul Canto), il loro rialzarsi a guardarsi l’un l’altro quelle fiammelle di fuoco sospese a un centimetro dalle teste: estasiati, proprio come nelle pale d’altare tipo quella di Tiziano, per dire. Incantati. Dimentichi? Sarà che Giuda mi ha inseguito per tutto il tempo pasquale con la sua uscita – dal giovedì della cena quando si alza prima (prima!), fino a questo spettacolo cui assisto in disparte - ma vedo lì Giuda che non c’è. Mi riaccoccolo nel mio angolo, mentre loro sciamano fuori a parlare a tutti, facendosi capire da tutti: parti, medi, elamiti e via via un fracco di forestieri a calcarsi gli uni sugli altri. E per un momento anch’io mi chiedo come non succeda una cosa così anche oggi: parlare e farsi capire da persone dalla cervice dura, costruitesi su precomprensioni che distorcono la verità. Dunque, penso a chi non c’è più lì, a colui che era arrivato dal villaggio di Q?riyy?t nell'intimità della loro compagnia, e mi chiedo se loro sentano la sua mancanza. O meglio, se soffrano quella mancanza, se quella mancanza si è depositata in loro. O l’hanno rimossa? Pietro e compagni hanno rimosso o hanno rielaborato quella uscita? ne sentivano una colpa? Rielaborare, cioè nascondere dentro un nuovo guscio le verità che non si accettano perché ci fanno male. Dichiarandone altre. E vedo il giovane Giovanni che un po’ su Giuda ha le sue precomprensioni - dovete ammetterlo se appena appena affinate l’orecchio sui passi in cui lo cita - bene, Giovanni, saltellante in giro a dire quanto Gesù lo aveva prediletto, avrebbe descritto Giuda come ladro: che sarà stato anche vero, ma perché scriverlo ai quattro venti, lui che è il cantore della carità? Non sarà che il novantenne evangelista ha visto nell’atto di Giuda un amore troppo grande? e ha perciò rielaborato in altro quello che lui non poteva accettare: un amore più grande del proprio, seppur tragico per Gesù e per Giuda? Mi sveglio d’improvviso, lucidissimo: il temporale tace, guardo la sveglia, e non è passata neppure mezz’ora da che ho spento la luce. La fase rem del sonno mi ha servito una volta di più nel modo sorprendente: consegnandomi un po' del me subsconscio. Se ha ragione Freud - e, se proprio non sempre, qualche volta ce l’ha - lì c’è un chiaro desiderio inappagato. Su quale, non ho bisogno di scervellarmi. Posso riaccomodarmi per dormire in sogni che non ricorderò. Ma la grande festa dello Spirito che viene, e sta lì compagno della via, non vuole che dimentichiamo le assenze. Anche perché Giuda io l'ho da sempre amato, nonostante. E chissà perché'.