Non mi riesce di fare la cronaca che fu di don Angelo Roncalli al seguito del suo vescovo Radini Tedeschi, nel primo decennio del secolo scorso. Allora, gli Ebrei non erano rientrati dalle tante diaspore, con il beneplacito delle Nazioni Unite, per abitare un pezzo di Palestina sottratto agli abitanti insediati lì da millenni. Allora, non era ancora avvenuta la Shoah, la tragedia immane che sarebbe diventata lo scudo di un monopolio della sofferenza, contro cui si sarebbe scontrato ogni tentativo di ragionevolezza sui diritti degli uni e degli altri. E, allora, non si erano inaspriti gli avversari fino a generare le due stirpi contrapposte, entro i propri popoli: l’una che fa della distruzione di Israele il fine della vita, avvalendosi del sacrificio di giovani vittime umane mandate alla morte per produrre terrore: e così avallando un muro inaccettabile; l’altra che si avvale di una potenza militare costruita sul denaro per rispondere al lancio di fionde intercettate da una tecnologia raffinata, estendendo sempre più le sue occupazioni di terra altrui: l’inverso biblico di golia e davide. Non mi riesce di cogliere la vena poetica della narrazione di quel papa santo che tra altre grandi cose avrebbe liberato i cristiani dall’idea del popolo deicida. E non perché andare in Palestina non voglia dire anche oggi perdersi – perdersi! – sulle tracce di quella Presenza che ha sconvolto la storia: Dio tra noi, nella persona di un Nazareno! Tracce di pietre, certo; ma tracce di fede,che restano tali, e acuite, dopo l’incontro con chi lì vive la tragedia di una separazione che ricorda Abele e Caino nello scambio ricorrente delle parti. Perché questa è la fatica: non sai darti ragione. Le ottime guide ti hanno avvertito: guarda, ascolta, non prendere subito parte. È la terra delle contraddizioni, fratelli contro fratelli, credenti nel Dio di Mosè contro iperortodossi che credono di credere nel Dio di Mosè: è l’arroganza di chi si sente unico figlio di Dio, e, la mano sulla kippà, pronunciano la bestemmia contro l’elementare teologia del Dio unico per tutti gli uomini, arroganza che diventa una pericolosa stupidità. È terra della guerra tra poveri, musulmani e cristiani nei ghetti dei loro quartieri, a vivere una insofferenza di cultura e tradizioni che ancora impediscono di varcare i confini dell’innamoramento tra un ragazzo di qui e una ragazza di là. Sosti presso il Santo Sepolcro un giorno intero, e su quella pietra puoi pure celebrare: senti lì risalire lo strazio di fraternità tradite, di amicizie interrotte. Il tuo e il loro strazio. Perché il passato illumina di sé il presente: il tuo e il loro. E senti lì l’impotenza di una uscita: dai territori del tuo malessere, e del loro. Lì capisci che la redenzione è un futuro che ha radici nell’oggi, ma non compimento: la Terrasanta come icona del destino del mondo sempre, in una lacerazione che non si ricomporrà che nei cieli e nella terra nuovi. È la tentazione della non-speranza: piegato sulla pietra dei profumi, chiedi di poterla superare, per dare ragione della speranza, contro l’assenza di una ragione di questo odio che annusi. Non solo odio, certo: e sono i più colpiti, familiari di vittime di una parte e dell’altra, che si scambiano i piccoli semi di rinnovamento (è in Terrasanta che vedi il piccolo granello di senape diventato albero). La senape si coltiva in zone molto soleggiate, la senape non ama l’ombra: io invece sono tornato dicendo a tutti che della Palestina ho apprezzato l’ombra, per sfuggire l’implacabile sole di agosto, l’accecante sole delle verità contrapposte. Perché il cammino di Terrasanta è faticoso per il corpo e per lo spirito: e mentre ti affacci sui semi di speranza, accetti tuttavia il limite di una incomprensibilità, che può momentaneamente rinfrancare: anche l’ombra, come la pioggia, è un dono. È una pazienza ristoratrice che quella terra insegna. In Terrasanta non si va oggi per incontrare la speranza. Oggi si va per darsi ragione della fede cui affidi la vita, nonostante. Nei giorni di quel piccolo prete che sarebbe diventato papa, non gli è stato chiesto di guardare un muro e ascoltare sirene di morte. A noi oggi è chiesto di guardare al cielo per non annegare nelle tristezze della terra. Sia pur Santa per i piedi che l’hanno calcata. Ma troppi secoli fa. Troppe generazioni dopo. La Palestina merita di essere visitata: ma nelle pietre dei cuori degli uomini che l’abitano oggi, nelle carni ferite dei loro orgogli e delle loro umiliazioni. E’ condizione per scorgere le tracce di Colui che è risorto da morte. (Guardare, ascoltare, non avere pregiudizi per non ripartire con una bandiera contro un’altra, dicono le ottime guide: ma non si può decollare dalla Terra, pur Santa per tanti, senza giudizio). il viaggio si è svolto dal 7 al 14 agosto; nessun pericolo, controlli tra Israele e Transgiordania senza alcun problema; quasi soli come pellegrini: il che ci ha faciltato le visite e i trasferimenti, ma questo sta comportando una situazione di forte disagio per l’occupazione, producendo ancor più grosse difficoltà per i lavoranti palestinesi nelle strutture alberghiere, che sono costrette a ridurre il personale per mancanza di pellegrini_ l’invito assillante è che non li si lasci soli nei momenti difficili.