il papa a Cl
Le parole che abbiamo detto, inascoltati, in quarant'anni; che avremmo desiderato avessero detto i papi eccessivamente amanti dei movimenti; le parole dette ieri agli ottantamila convenuti: e che le loro orecchie siano state toccate dal fruscio del vento dello Spirito! e le nostre labbra lontane dal giudizio, seppur piegate a un innocente sorriso --- Tenete vivo il fuoco del vostro incontro con la misericordia di Gesù. Un fuoco scoppiettante e non uno strato di nobile cenere, da conservare con cura. Ha fatto del bene a me don Giussani, alla mia persona e al mio sacerdozio. In particolare, per quel suo insistere sull’esperienza dell’“incontro” “non con un’idea, ma con una Persona”, con la carezza della misericordia di Gesù. E infatti la morale cristiana non è lo sforzo titanico, volontaristico, di chi decide di essere coerente e ci riesce, una sorta di sfida solitaria di fronte al mondo. No. Questa non è la morale cristiana, è un’altra cosa questa. La morale cristiana è risposta, è la risposta commossa di fronte a una misericordia sorprendente, imprevedibile, addirittura 'ingiusta' secondo i criteri umani, di Uno che mi conosce, conosce i miei tradimenti e mi vuole bene lo stesso, mi stima, mi abbraccia, mi chiama di nuovo, spera in me, attende da me. Vi chiedo di essere ssere decentrati: un carisma 60 anni fa accese in don Giussani l’urgenza di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, per creare un corpo ecclesiale innervato dal Vangelo. Dopo sessant’anni, il carisma originario non ha perso la sua freschezza e vitalità. Però, ricordate che il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù: Gesù Cristo! Quando metto al centro il mio metodo spirituale, il mio cammino spirituale, il mio modo di attuarlo, io esco di strada. Tutta la spiritualità, tutti i carismi nella Chiesa devono essere ‘decentrati’: al centro c’è solo il Signore!. E poi il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata, e fedeltà al carisma non vuol dire ‘pietrificarlo’, giacché è solo il diavolo quello che ‘pietrifica’: il riferimento all’eredità che vi ha lasciato Don Giussani non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Comporta certamente fedeltà alla tradizione ma fedeltà alla tradizione – diceva Mahler – ‘significa tenere vivo il fuoco, e non adorare le ceneri’. Don Giussani non vi perdonerebbe mai che perdeste la libertà e vi trasformaste in guide da museo o adoratori di ceneri. Tenete vivo il fuoco della memoria di quel primo incontro e siate liberi! E da questa libertà nascono braccia, mani, piedi, mente e cuori a servizio di una Chiesa ‘in uscita’: e uscire significa anche respingere l’autoreferenzialità, in tutte le sue forme, significa saper ascoltare chi non è come noi, imparando da tutti, con umiltà sincera. Quando siamo schiavi dell’autoreferenzialità finiamo per coltivare una ‘spiritualità di etichetta’: ‘Io sono CL’ questa è l’etichetta; e poi cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento autoreferenziale, quel guardarci allo specchio che ci porta a disorientarci e a trasformarci in meri impresari di una Ong.
applauso?
Smetto di fare il prete. Ormai sono ricorrenti questi abbandoni. Rassegnati i vescovi, chiamati ad essere burocrati di una decisione sulla quale neppure è richiesta una loro fraterna consulenza. Impietriti alcuni (pochi) fedeli, per i quali la dedizione è un impegno cui si chiamano essi stessi ogni giorno. Per altri non è che una tappa prevedibile: o per il tipo di persona (certe vocazioni si fondano su improvvisazioni di sé non accompagnate da un sincero discernimento: c’era da aspettarselo, dicono i compaesani delle origini); o per il tipo di vita (ed è l’incomprensibilità del celibato per uomini che vivono nel mondo, mentre la compagnia di un monastero lo renderebbe credibile, si pensa); o, e soprattutto, perché la fedeltà non è più una virtù (e si dice, la vita lunga, che oggi è data, diventa due vite: anche per i preti, oltre che per gli sposati). Smetto di fare il prete: lo si può dire sottovoce, o proclamarlo dal pulpito, che son due modi molto diversi di vivere comunque quel passaggio di vita. Quelli che l’annunciano dal pulpito, e dopo magari avere regolarmente celebrato una messa, che suicidio esistenziale! Giustificano questa recita in due atti dicendo che non vogliono essere ipocriti: ma l’ipocrisia sta in quel non tanto subconscio bisogno di seppellire in un gesto teatrale ciò che non riescono neppure a descrivere come un lutto. Certo, ci sono le motivazioni, ci sono i perché: perché ho sbagliato strada, perché mi sono innamorato, perché non credo più alla chiesa. Smetto di fare il prete, perché sono diventato padre: abbastanza ricorrente, ormai. Se non fosse che la notizia di questi giorni aggiunge un particolare: all’annuncio è scoppiato un applauso nella navata. Non un silenzio rispettoso. Non una plausibile costernazione, pur senza condanne. Non una qualche interrogazione su chi è stato quell'uomo per quella comunità. (Cade il silenzio sulle spalle e la luce impura, fino a dolere). Un applauso liberatorio? E che c‘è di male!? mi ha investito uno delle categorie sopra citate. Nulla, ho risposto. Se non fosse che sono contrario agli applausi in chiesa. E soprattutto nei funerali. (Ma sarebbe bello, oltre che utile, discettare finalmente sulla psicologia delle masse: sulla rozzezza che ormai è una cifra delle grandi indistinte quantità, che popolano il web, così ben cucinate dall'idea che la libertà consista in uno spazio libero (come contestava Giorgio Gaber: La libertà non è star sopra un albero, non è neanche avere un’opinione, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione); la libertà non è una bacheca su cui affiggere opinioni non rimuginate (rimuginare? ma quando mai oggi è di moda pensare prima di parlare, o di scrivere sui muri dei siti?). Ma sarebbe ancor più bello che finalmente i vescovi s’accorgessero di quali cristiani abitano le chiese: e non perché applaudono a una notizia di vita - “vi è nato un figlio”; ma perché quell’applauso è una assoluzione di sé in quello là che fa outing: che se non è sacramentale, come vorrebbe essere, è sicuramente sacrilega, lì e così. E se ne accorgessero, i vescovi, per scendere dai palcoscenici, ed entrare nelle case dei presbiteri: a rendersi conto di solitudini e di attese).
memoria
Mio padre è stato un deportato nei campi di lavoro nazisti. Un quadro, 50x35, appeso nella cucina soggiorno, me lo ha ricordato fin dalle prime curiosità dell'infanzia. Accanto ad alcune parole tedesche che tornavano nei racconti serali, da stanza a stanza, vigilia di un sonno che non veniva, non si voleva che venisse, né a lui né a me. Come kartoffel: simbolo di una fame atroce, e non erano patate ma pelli di patate: buttate dall’apparente pietà di uno di quel popolo, che contemporaneamente aizzava un cane latrante; o kaputt: minaccia totale ricorrente per ogni spossatezza. Mio padre è tornato dopo tre anni di prigionia, ha potuto raccontare quei giorni e l’antipasto che fu la sua guerra di Albania e Grecia, degli stracci ai piedi al posto di calzature nei trasferimenti kilometrici da Firenze a Mentone. (Ma anche di quelle lenzuola fresche che, per una notte di allontanamento dal quel marcio esercito, ha trovato dalla zia suora in servizio all’ospedale di Nizza). Credo di capire, a risalire da quella memoria - certo un po’ meno sventurata (ma quanto?) - che Olocausto o Shoah non sia un dilemma linguistico, letterario, ma una inderogabile disuguaglianza da difendere; e che dunque si voglia ben distinguere tra i fumi che salgono a Dio, negli olocausti di culto, e i fumi dei crematori dello sterminio di Auschwitz, Dachau, Treblinka. E dunque Shoah, la memoria di una catastrofe, il fumo di Caino che non può confondersi con la preghiera di chi, assetato, affamato e nudo chiede al Cielo, se c’è, di uscire dal suo silenzio. “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo. Che lavora nel fango. Che non conosce pace. Che lotta per mezzo pane. Che muore per un sì o per un no». La tragedia di allora, raccontata da Primo Levi, l’ebreo sopravvissuto degli orrori nazisti, può essere anche la parola per l’oggi; e i milioni di uomini e donne, di ogni età e di ogni credo, morti allora nei campi di sterminio sono speculari ai tanti, ai troppi, che stanno morendo sulle frontiere dell’insanità umana, oggi. Nel bugiardo nome di Dio. Nel nome di sé, di una autosufficienza assoluta che rischia il pianeta. Mettendo a rischio il benessere di noi che stiamo a vedere, e non mettiamo mano, se non quella di una esecrazione che diventa ipocrita quando non diventa artefice di un “basta” risoluto. Andare a Gerusalemme è toccare l’olocausto, questo sì, di Gesù. Ma anche lasciarsi interrogare dalle cinque fiammelle che per un gioco di specchi diventano migliaia di stelle, sulla collina di Yad Vashem, a ricordare il milione di bambini i cui nomi impiegano tre anni ad essere pronunciati nel silenzio di un labirinto buio. Per interrogarsi sull’oggi: di uomini che armano la mano di un bambino omicida. O imbottiscono due bimbe di tritolo per sacrificarle alla morte dei nemici. O di tredici ragazzi giustiziati per la loro passione del calcio. Per ricordare nell’oggi un passato che è presente: la catastrofe di un mondo che non riconosce una fraternità finalmente senza confini dell’anima. Se ci vuole una legge che fissi in un giorno, sarà il 27 prossimo, la necessità di una memoria, forse ci si dà solo un alibi; o forse serve a turbare un sopore? Ma a migliaia stanno morendo, mentre ci nutriamo di documentari e di discorsi. Occorre sapere: e non tanto di un sapere libresco, ma sapere la vita, sapere la fragilità di quest’uomo che noi siamo. Sapere l’orrore di allora per milioni di ebrei, cristiani, omosessuali, zingari. Ma sapere l’orrore di quanti, e sono tanti e sono troppi, trucidati, oggi, in Africa, in Ucraina e in Medio Oriente: cristiani e musulmani e di qualsiasi fede, nell’indifferenza di un sentimento che non sia quello dell’odio. E dire basta a chi papeggia per insegnare al papa che c’è una differenza: quella tra noi e loro: una bestemmia davanti all’unico Dio, il cui silenzio è chiamata alla responsabilità ricreatrice del mondo, di cui fin dall’inizio ha investito ciascuno, noi pur fragili uomini e donne. Non riusciremo mai a capire gli orrori, di ieri e di adesso. Ma ricordare è indispensabile se si vuole perdonare. Senza appunto mai dimenticare.
ipocriti
Si può cominciare un anno politicamente scorretti? Perché politicamente scorretti nel gorgo di una tragedia sono i fatti parigini di questi giorni: ammazzare mai, nessuno, neppure il peggior nemico. È il segno di Caino che la Scrittura (ancora non) ha insegnato alle tre religioni monoteiste, dunque molto cugine tra loro: nessuno gli metta le mani addosso, nonostante Abele. Politicamente scorretti? a ricordare che il nome di Dio l’hanno usato tutte, nel fare violenza al nemico: gli ebrei prima, i cristiani poi, e, non da adesso solamente, gli islamiti. Pietà dunque per quei redattori ammazzati. Ma è politicamente scorretto fare oggi le pulci, con l’asfalto soprattutto insanguinato, oltre che dal loro, da quel poliziotto che non ottiene pietà da un barbaro senza pietà? Anche se non avevano certo le vesti di Abele: in nome della libertà di parola, fautori del pensiero di Voltaire, quei redattori non hanno certo esitato a buttare escrementi sul sentire religioso di compaesani e no, e subdolamente anche su etnie non propriamente repubblicane, dunque sull’altrui libertà. (Una vignetta sul papa che va a Parigi, e raccoglie folle, ha come didascalia: i francesi sono idioti così come i negri; che, idioti, possono esserlo quest’ultimi - sono negri - ma non i francesi...). Fieramente atei? Bene. Sicuramente laici? Proprio no. E tuttavia da non ammazzare, sia chiaro. Però nessuna canonizzazione laica: è stato invocato il Pantheon per la sepoltura, nonostante uno di loro abbia chiesto che le sue ceneri siano buttate nel water così che possa sempre guardare al lato b della moglie: umorista fino all’eccesso? Sì umorista fino all’eccesso, in casa propria: ma anche invadendo le famiglie altrui, fino a un dileggio senza pudore? Ma solo così, dicevano, si possono fare vignette. E così, l’entrare nei santuari altrui è ancora libertà? Quanti ne uccide la matita? O l’assassinio è solo di chi usa il kalashnikov? Vi è un tale narcisismo in queste sette autoreferenziali, da far dire, a un altro di loro, che un comico non può credere in Dio. No, forse non è politicamente corretto dire ora queste cose: forse tra qualche tempo, quando i muri di quel giornale si saranno ripuliti del sangue di Georges, Stephane, Jean, Bernard, Philippe, e di tutti gli altri che sono stati miseramente falciati da terroristi (cui si sta dando la caccia sulle tracce di una carta d’identità dimenticata sull’auto della fuga, ma forse non è politicamente corretto scriverlo). Nondimeno ora non si può permettere ai tanti ipocriti di fingere altro rispetto a una storia che non si può ridurre solo a quel terribile mattino dell’8 gennaio di quest’anno appena cominciato. Gli ipocriti che hanno portato in tribunale quel periodico quando ha toccato loro, e che adesso stanno su tribune a concionare sul lutto della libertà; gli ipocriti che non ricordano che quanto successo deve pur far riflettere sui limiti che ciascuno deve potersi dare, appunto alla Voltaire, che tanto gli piace, e pure se non gli piacesse; gli ipocriti che hanno accettato dileggi gratuiti, al limite francamente superato dell’oscenità, contro papa Ratzinger, e contro, tra l’altro, quanto i cristiani adorano del mistero d’amore di Dio trinità. Per non dire dell’Islam, con invariabili strisce pornografiche. Quali limiti? “Non ho paura delle rappresaglie. Non ho figli, non ho una moglie, non ho un’auto, non ho debiti. Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”, ha dichiarato il direttore di Charlie-Hebdo. Quali limiti? L’altro, semplicemente ogni altro. Sarà dunque anche politicamente scorretto: ma mi viene, a proposito di matite innalzate, il ricordo di un racconto di quel comico che fu Faletti, prima di rivelarsi uno scrittore valente di gialli. Raccontava di un fumettista, che vistosi tradito negli affetti e negli affari, si ritrova magicamente tra le mani una matita per disegnare un rivale, e una gomma per cancellarlo dal foglio e dalla vita. A volte, saper usare la gomma salva molte vite. Altre, oltre le proprie.
advesperascit
Ultimo giorno dell’anno, e scrivo mentre la sera di questi 365 giorni si avvicina. Non che sia quel trapasso che il più della gente si aspetta: rivoluzionario, e pieno di aspettative che proiettano verso un benessere senza più alcun malessere. No!; oggi è mercoledì e domani è giovedì: ma questo ce lo diciamo noi, in barba agli oroscopi che oggi ti dicono che dalla mezzanotte cambia la direzione dell’esistenza a seconda che Saturno s’aggiri o no nelle tue caselle. E infatti, all'interno di un oroscopo , le caratteristiche principali di questo pianeta gassoso sono la logica e la privazione: in altre parole, sarebbe la ragione senza sentimento. Saturno, che nella mitologia romana corrisponde al greco Kronos, il tempo, è spesso raffigurato come un vecchio: e dunque come ciò che è stato e sta passando? Boh!, ma potrebbe essere. Contrariamente tuttavia a quanto si può pensare, gli astrologi più o meno improvvisati - e le lettrici delle mani o delle carte che non sempre stanno accampate nelle roulottes zingaresche - ci dicono che non ha connotazioni necessariamente negative. Certo che si sente molto in esilio se passa in Cancro o in Leone, mentre si esalta se sta in Bilancia, e si deprime del tutto, lui, e deprime i malcapitati se incontra Ariete; se in Sagittario è portatore di onestà di fondo, e però indica spreco di energie per attività inconcludenti, in Pesci decanta umiltà, intuito e simpatia al positivo, ma anche una timidezza fino a rendere incapaci di sfruttare il proprio potenziale creativo. Eccetera eccetera per tutti gli altri segni zodiacali: così divulgano ì nostri aruspici. Non chiedetemi il perché di questi cambiamenti umorali di quel dio del tempo e anche dell’agricoltura, dato che non mi sono addentrato così tanto nello studio astrologico. Solo un passaggio in Internet tanto per curiosità: quella che non ho mai soddisfatto, e che tuttavia a ogni giro di boa annuale mi faceva chiedere perché. Perché la gente guarda in su fermandosi a metà, non volendo accettare che l’altra metà del Cielo ha scritto ben altro nello spirito corporeo di ciascuno: forza volontà e grazia. Non nego che ci possano essere peculiari influenze degli astri, per quel connubio innegabile che chiama Dio nella genetica dell’universo e del singolo; e che diventa in un certo modo la definizione primaria di religio: un vincolo che lega e avviluppa il tutto. Da cui discende la pietas; pietas, appunto: il sentimento che porta al riconoscere il mistero della propria e dell'altrui vita, comunque e nonostante; ma anche ad avere pietà, nel significato di compassione, per chi ne travisa la conoscenza. E qui arrivo al dunque, ma non doletevi se l’antipasto è stato più ampio del pranzo. (È successo a qualcuno in questo Natale di bloccarsi?, dopo: lasagne gialle al baccalà, bignè alla mousse di tonno, vellutata di zucca con frutti di mare, crostini rustici di polenta con prosciutto crudo, riso nero venere con gamberi, tavolozza di affettati con spicchi di grana, ciabatte alla parmigiana,tranci di quiche con gorgonzola pere e noci, vino bianco e rosso da alternare ... il tutto nel menù, e nei piatti, sotto la voce antipasti: ne hanno patito sia il brodo con cappelletti sia l’arrosto del cappone natalizio, e persino il panettone della rinomata pasticceria sanfrancesco...). E dunque potrebbero essere tentati i miei lettori di fermarsi prima della morale, in questa sera dell’anno che si avvicina? Una morale che prende succo da uno scritto in questa rubrica, che avvertiva di quel selfismo compulsivo, che ha certamente risparmiato voi e me: quasi obbligati a dirsi sempre presenti, a mostrarsi per quello che appare, accanto a chi conta (?!), forse per esorcizzare quel che davvero si è, e non piace: fingere di essere. Sottrarsi è forse l’ augurio migliore: i superbi tramonti che hanno incendiato i nostri cieli in questi ultimi giorni di dicembre ricordano che l’arcobaleno nasce dalla pioggia alle spalle e dal sole davanti a sé. Congiuntamente. Che è poi la parabola della vita: sentire che il vespro nel suo farsi conduce alla domanda vera che non può mancare, domanda che cercata negli astri ti fa perdere l'unità tra ciò che è stato e ciò che può essere. 31
presepe
A colpi di crocifisso, prima, a colpi di presepe, ora. Inevitabile che non si possa vivere in pace, con vicini che hanno per comandamento quello di non sopportare il prossimo lontano? Se di colore, se di etnia, se di religione, se di geografia diverse dalle proprie? La cronaca è recente, ma viene da lontano, con sciocchezze da ripartire tra fazioni: si può o non si può allestire il presepe nelle scuole? Non si turbano i bambini di altre religioni? Ma i cristiani, è giusto che non abbiano uno dei tanti segni da cui si è costruita la nostra cultura? Le ragioni si spartiscono, come i torti. E la laicità invocata dagli uni si annienta per l’incapacità degli altri di essere laici; attenti a tutti, senza perdere nulla di ciascuno: un assioma che non entra. Ho un amico di fede mussulmana: senza lavoro, senza passaporto, sei figli e una moglie malata, ora vive in Germania, con incredibili rimpianti per l’Italia. Incredibili, perché ci descrive come un popolo accogliente. E lo siamo. E lo saremmo meglio se non avessimo alcuni italioti che ci piacerebbe emigrassero altrove: insopportabili. Tanto più che si prendono, da politici, stipendi d’oro per precipitarsi in un quartiere della Città ad allestire un presepe in polemica con gli interrogativi nati nella scuola di là. Quegli interrogativi: come far entrare nel Natale i bambini battezzati senza emarginare quelli che non lo sono? Arrivano con le statue di Maria e Giuseppe e Gesù bambino: un po’ di paglia, un bue - non so, non c’ero - se qualche pecorella: per accorgersi che manca l’asino. Il suggerimento poco politicamente corretto, ma cristianamente franco, sarebbe di prestarsi loro, a turno, questi politici che ora vogliono attraversare il Po,a sostituire l'animale. Paladini del Cristo di Betlemme? Loro? Che prima usano il crocifisso, e poi il presepe come arma contundente per vincere una battaglia di voti? Di voti elettorali che aiutino il progetto del lasciar fuori dalle porte delle nostre città, coloro che Gesù assimila a sé - è Matteo 25, nella scena del giudizio finale: "ero forestiero e mi avete ospitato... ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me". Testimoni della fede nel Signore? Loro? Così? Quel mio amico dalla vita vissuta per un terzo da bosniaco, un terzo da italiano e un terzo da tedesco, gioioso nonostante giorni non facili, abita davanti a una chiesa cattolica: ogni giorno entra, va all’altare di Maria Vergine e Madre, e prega per sé e per noi peccatori. Neanche a pensarci due volte, che la sua preghiera raggiunge il frutto del grembo di Maria, meglio di questi battezzati senza amore di cui dobbiamo sopportare la contro-testimonianza. Alcuni anni fa (e forse qualcuno ricorda) in una chiesa cittadina fu proposta la provocazione di un presepe fatto e rifinito in tutto, ma senza il Bambino: stava succedendo che, a impulso degli stessi di questi giorni, si volessero allontanare i “negri” dal quartiere. Il segnale? se non accogliamo loro, non possiamo accogliere Lui. Loro non l’hanno capita; altri pure; ma tanti sì, dentro e fuori quel quartiere, anche lungo tutta la penisola, complice internet. È lo stesso segnale di oggi: se proprio vi piace muovervi a colpi di presepe, sbattetelo contro voi stessi, innanzitutto. Per accorgervi.
sopralzi
Se ne possono vedere su case di un tempo: acquisto di spazi per ingrandire, a volte per il bisogno di famiglie aumentate di numero, a volte solo per darsi un attico a nobilitare il proprio status. A volte ben studiati, a volte no: ma non sempre il gusto architettonico delle prime costruzioni è rispettato. E il risultato in certi casi chiederebbe l’abbattimento come per il mostro di Alimuri testé demolito. Ma, andando su e giù per la bergamasca, è dai sopralzi di alcune torri campanarie che mi sento disturbato: ben altre cose dovrebbero infastidire, dite? E come no! Ma a volte ciò che conta di meno mitiga o allenta le “altre cose”. Dunque, in un certo tempo si sono costruiti i campanili: nel seicento, settecento, ottocento. Dopo alcuni anni, o anche subito, a seconda delle fregole di fabbricerie parrocchiali, si è chiesto un innalzamento. E solo per avere un qualche metro, o per allocare tre campane in più per un concerto che sovrasti quelli di là: in concorrenza con la parrocchia vicina. E così si sono ottenuti lanterne o cuspidi a ornamento: e fin lì, di solito, l’aggravio architettonico non ha fatto danni, anzi, talvolta, è riuscito ad ingentilire. Ma quando si sono volute sovrapporre celle nuove, sulla cella di progetto, provate a guardare, sono successi obbrobri. Se chiedete alla gente che abita sotto quei campanili, non ne avrete un buon giudizio: l’occhio alla lunga si confà anche alle brutture. Ma se vi riesce di fargli fermare lo sguardo sulla gentilezza di timpani che erano fatti per chiudere, e sono invece lì schiacciati dal quel che sta sopra, un qualche dubbio anche al parrocchiano più campanilista lo si ottiene. Perché disturbare un assetto che i secoli e i padri hanno creato nell’orgoglio paesano, anche di abitatori di città, vi chiedete? Perché lì sta il segno di processi di ben altra natura: di sopralzi gonfi di sé che avvengono nel celebrare, o nel condurre una parrocchia. Per concerti che hanno solo il frastuono della banalità, soprattutto se rinnegano la semplificazione che conduce più direttamente a un farsi corpo dentro una comunità cristiana. Mediocre è credere di obbedire al vangelo obbedendo a strutture organizzative che ora non hanno bisogno di secoli, ma solo di una manciata di decenni per dirsi obsolete. Mediocre è fare coincidere la propria pigrizia con la fantasia dello spirito, usando la lettera dei codici o dei direttòri o di statuti, e non lo spirito che li anima. E per che cosa? Per dirsi capaci di meglio? Ma talvolta il meglio è nemico del bene, se si smarrisce il fine per il quale qualcosa è buono, e dunque vero. E bello. Non si nutre forse la bellezza del piccolo, del particolare? E non la si abbatte forse e proprio con le quantità che affogano la qualità? Sopralzi sono le illusioni di chi vuole un ritorno all’indietro da questi ultimi anni in cui si mostra che è possibile un vangelo sine glossa, quello del primo grande Francesco della storia cristiana. Sopralzi da non permettere: la sobrietà mai come ora può annunciare il Signore della vita e della bellezza.
gratuità
Nelle sacrestie della bergamasca, fino a quarant’anni fa c’erano, appese, le tabelle tariffarie. Se eri povero o eri ricco, ad esempio, avevi un funerale diverso: divisi per classi, e suntuosi gli uni e arrangiati gli altri (pur salvando la preghiera liturgica, uguale per tutti, seppure cantata o solo letta). Poi, sono scomparse, e ci si è affidati, più o meno sinceramente, alla generosità dei cristiani. Un generosità, occorre dirlo, che non sempre si manifestava proporzionale alle possibilità: ogni buon parroco del tempo anche recente vi poteva raccontare dei ricchi meno generosi dei poveri. Chi sa perché. E dunque la severa ammonizione di Francesco papa, in questi giorni, da questo orizzonte ci vede fuori. E il suo esempio del prete che affitta la chiesa per i matrimoni è della sua storia argentina: una chiesa che forse, e si spera solo nei confronti dei ricchi, ha qualche passo da fare per quella gratuità dei servizi ecclesiali che è evangelica, o non è. Ma davvero noi siamo fuori? Per davvero le nostre comunità cristiane hanno decisamente imboccato la strada di prestazioni lontane da ogni odore di bottega? Se ormai salviamo i sacramenti da compra-vendite, il restante è sempre scevro da ogni interesse economico? Ci sta, si dice, che le manutenzioni di edifici e le attività siano sostenute da periodiche sagre a base di fritti più o meno vegetariani: ma è odore che sempre lascia intatto il profumo dell’incenso? La carità è un capitolo importante delle casse parrocchiali? La carità che inventa luoghi di accoglienza all’insegna della gratuità, soprattutto là dove è chiamata a rispondere ai bisogni, è di casa nell’operatività di preti e laici credenti? O si fissano tariffe, seppur ipocritamente simboliche, per “educare alla responsabilità" a chi chiede un servizio di ospitalità necessitata da un difficile della vita che si sta vivendo? E la moneta non lesinata dalla comunità a chi è sbandato, trova ancora aperte le porte delle canoniche? Un tempo ebbi a ingaggiare una battaglia con responsabili delle organizzazioni caritative di livello diocesano: si dà solo a quelli che ci stanno ad imboccare un cammino di revisione della vita. Perché sennò usano male della moneta che gli dai. E così i barboni (o, in linguaggio orecchialmente meno crudo seppure poco bergamasco, i clochards) sono sbattuti fuori da ogni considerazione di una fragilità forse momentanea, o forse no: la fragilità della sopravvivenza. E qui il ricordo è della mia infanzia: all’obiezione – guarda che le tue cinquanta lire andrà a bersele alla prima osteria -, la nonna che rimanda – se quello usa male, io non posso sottrargli la possibilità di usarne bene. La gratuità è molto più di una carità incanalata: è accettare l’altro come persona, che vive in quel modo lì e con quei limiti lì. E se la gratuità non solo viene chiesta al singolo, ma diventa la virtù di una comunità cristiana, allora il Vangelo si fa, e testimonia l’alterità della fede. Oltre a far nascere corrispondenze insperate: persone che imparano la gratuità nelle nostre comunità, e la trasportano nelle loro. Il tempio da cui tener lontana la passione per il denaro non è solo l’edificio in cui ci si raccoglie per le liturgie: liturgie vuote se non ci si manda in gratuità al mondo, che diventa il tempio dove si celebra la liturgia della condivisione, liturgia eucaristica compiuta. È la gratuità totale dell’amore del Signore che occorre mostrare, in parole in opere, a ogni corpo che racchiude – molto sporco? molto dolorante? molto arrogante? - il volto di Cristo. Rischiando di riconoscersi in meschinità supponenti: ma è la maniera di correggere lo sguardo sull'altro.
sorriso
Quel che rassicura è il suo sorriso. Intatto, pur essendo passato nelle maglie del locus vaticano. Pur spostando sedie ingombranti. E pur lanciando messaggi conditi di coraggio e di mitezza evangelica. “No, per favore, questo no”. Un’espressione ricorrente, alzando gli occhi dai fogli che pure sono scritti in buon bergogliese: chiari e distinti, alla portata di tutti, persino degli intellettuali. Ne ha per tutti, ma sembra proprio che la sua attenzione critica ricorrente sia per i vescovi. Colpendo dunque nel segno della chiesa fin’ora papocentrica: spostare lo sguardo sulle periferie, avvicina a quella sostanza cristiana che è ecumenica, o non è. E dunque a quella idea che ogni chiesa retta da un successore degli apostoli sia autoctona: davvero sul posto si ha quella capacità di cogliere la persona e il suo vissuto, e di dare risposte che siano nella regola del sabato evangelico (un mantra ricorrente, mi sto accorgendo per questi ultimi scritti: ma da sempre presente nella mia storia presbiterale, seppur imperfetta). Ma quale vescovo? Quello che ha “studiato” per diventarlo?; chi lo pensa come una carica onorifica? (e dunque da lì il sussurro di quel cardinale orientale: - ma che ci fanno cinquanta vescovi in vaticano? un vescovo o è per una Chiesa in carne e ossa, o non è); o forse chi viene da una discendenza che genera soggetti episcopali simili a sé, e dunque perpetuando il moto immobile che ha caratterizzato soprattutto la chiesa italiana? Dire cose così crea nemici: Francesco papa lo sa, e tuttavia continua. Noi gesuiti, ha detto a sé e a loro qualche mese fa, siamo esperti rematori anche quando il vento è contrario. Ha fatto richiudere i cassetti delle sacrestie sanpietrine (ma in periferia continuano qua e là ad essere ancora aperti) dopo che da qualche anno si erano riesumate cotte plissettate ad accompagnare messali tridentini; ha ricomposto lo Ior al suo fine di solidarietà, rompendo intrallazzi mafiosi; si porta la borsa con il rasoio da sé, così come nelle lande periferiche di Buenos Aires si portava sottobraccio la mitria, senza un caudatario o un segretario totalmente ad hoc; abita in un albergo aperto anche ai non addetti, per sfuggire quella solitarietà che può condurre alla solitudine, penosa anche per un papa. Ma certo di strada ne resta molta, dal colle vaticano in qua: basta monsignori fino alla raggiunta età di pensione? Va bene. Ma perché tener aperta la porta delle onorificenze a quelli della diplomazia o delle congregazioni romane? non è forse lo spiraglio dal quale usciranno quei vescovi (come sono usciti e stanno uscendo) che avranno annusato ben altro che l’odore delle pecore? Pazienza? calma? la Chiesa non agisce per rivoluzioni sennò avviene uno scisma? Ma: non è Gesù che, rovesciati i banchi di sacrestia, dice (sicuramente con amarezza, ma fermo) che se ne possono andare quelli che non ci stanno? (Il papa probabilmente non lo sa, allora era ai confini del mondo, ma sarebbe opportuno che qualcuno gliela raccontasse l’imbarcata di segretari Cei che al cambio del Presidente furono tutti gratificati con una diocesi - è ancora viva nella memoria di chi ci sorride e dei tanti che ci piangono: che odore potevano aver annusato se non quello del legno di ciliegio delle loro scrivanie, o al più delle ovazioni nelle adunate oceaniche giovanili o movimentesche o familesche?). Muoversi tra ragnatele infittite dall’ambizione che pullula all'ombra del cupolone (ma pure altrove!) non Gli deve tornare semplice. Ma ritrovarlo il mercoledì a spalancare lo stesso sorriso pienamente sorridente dei primi giorno del suo servizio dà molta speranza. Alla faccia dei suoi oppositori, e degli ostruzionisti che s’annidano ben oltre le stanze vaticane, e allignano anche qui, tra noi. Il sorriso rimasto vergine, nonostante. E non è detto che sia pacifico nella storia dei papi. Uno così all’essenzialità di Dio ci crede, e lo vedi, se ti abita un poco di purezza dello spirito. Non vi basta, laudatores del tardo barocco? Non basta, ahiloro.
non negoziabili?
Oggi non la userei più, dice il filiforme cardinale ultraottuagenario, che fu il pensatore sottile dagli anni novanta fino al primo decennio di questo secolo; e fu il determinante di assoli di potere con controparti nazionali, ma, apparentemente (!), solo con certe parti. Eppure è un uomo di fede, e conosciuto fuori dalle stanze dei bottoni, è uomo di grande carità: ho avuto modo di constatarlo di persona, alcuni anni fa. È possibile uno sdoppiamento così? Ma è uno sdoppiamento? O è nella natura di incarichi così delicati - muoversi tra cielo e terra - una dissociazione necessitata? Nell’ultima intervista che concede, lì appunto lo si ammira in tutta l’eloquenza di un diplomatico pastore di anime: che ha deposto il pastorale, ma ancora c’è, a rassicurare gli uni e gli altri, ma più gli uni. Parla bene del papa, e come non potrebbe; respinge con nonchalance, anzi definendola ridicola, la gigantesca operazione di marketing per pubblicizzare un libro contro Bergoglio (di un giornalista schierato, che sicuramente è degli uni; pagine in cui si vede, tra l'altro, il livore per non esser stato graziato da una telefonata pontificia, come i suoi odiati colleghi della stampa avversaria - libro da non comprare: l'equivalente in euro a san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, perché mandi una ponderosa benedizione all'astioso che l'ha scritto). E poi però, sempre l'amabile cardinale, e sempre con nonchalance, definisce un piccolo attacco, piccolo, quello che l’editoria di destra sta sferrando su carta e in internet contro Francesco papa: ma, dice, è solo per rispondere a chi dalla sponda opposta vuole appropriarsi di questo papato. Ma insomma, cos’è che non userebbe più? È una formula, della quale da molto tempo abbiamo in molti contestato la divaricazione dal Vangelo, e tuttavia riproposta come un mantra da chi non aveva più gli argomenti del sabato di Gesù: e dunque la centralità della persona. Valori non negoziabili? Ma quando mai! Nel vangelo si parla di consigli, non di valori. E che sono i valori, in un mondo dove l'antropologia cambia ormai ad ogni cambio di luna, se non ad ogni tramonto di sole? Finalmente il nostro cardinale dice che oggi non ha difficoltà a rinunciare a una espressione che spesso è stata equivocata, dice. Ma per immettersi subito nei bizantinismi da cardinal sottile, che di fatto chiudono ogni possibilità di tradurre per l’uomo di oggi gli interrogativi sulla sua sofferenza. Comunione ai divorziati? unioni civili? benedizione di un'unione dopo un cammino penitenziale, alla stregua dei cattolici orientali? C’è una dottrina? si segua quella, dice, anche il papa non può cambiarla. Al più dice: papa Francesco ha una sensibilità diversa. Diversa da cosa? da papa Wojtyla temprato nella battaglia contro il comunismo; e papa Ratzinger grande teologo tedesco? e dunque papi non calati nella complessità quotidiana dei sentimenti, impegnati, come son stati e forse a buona ragione, dai massimi sistemi? Quel che non si dice, a volte traspare, secondo il detto che a sospettare la si indovina. Una paura che crolli la Chiesa retta sulla dottrina teologica, come se il pericolo che crolli non fosse là, e solo là, dove le si toglie il Vangelo del Signore. “C’è la regione dei principi: guai a non percorrerla. Guai a non lasciarsi interrogare dall’onnipotenza delirante che spesso ha preso l’uomo: il macabro a cui si arriva partendo da ricerche scientifiche è storia nazista, ma non solo. Ma anche: guai a non percorrere le contrade della sofferenza umana, guai a non immergersi per intero nell’attualità degli uomini: si rinnegherebbe il Vangelo, la bella notizia di liberazione dal male che Gesù ha lasciato in eredità ai suoi perché la trasmettessero in ogni tempo secondo il sapere proprio di ogni tempo: che è sapere di scienza, ma anche sapere sull’uomo sempre più rivelato a se stesso. Guai a noi, se non esercitassimo la misericordia: e cioè la com-prensione, il conoscere che mette l’altro in sé”. Lo scrivevo qualche anno fa, come prima reazione a quell’infelice espressione. Il Signore può sempre stupire: purché si combatta quel fariseismo che ci impedisce di vedere la sua paternità fare festa a chi ha sbagliato.