L'ultimo
Mi si è sentito dire, e più volte, che il tempo è tutto attaccato: oggi è giovedì, domani è venerdì. E non cambia il disegno dei giorni, in barba a tutti gli oroscopi che vogliono l’anno che entra diverso – in meglio o in peggio – dell’anno che va. Ed è così, se non si lascia che l’abbaglio del cenone di san Silvestro offuschi la realtà: il tentativo di arrestare il corso del tempo, che ha richiesto a Proust ben sette volumi (ed io, in buona compagnia di tanti altri, mi sono fermato molto prima – e dunque ne dico per quei compendi che facilitano letture impossibili!). Ma, e c’è un ma come in tutte le cose: ma del tempo scomparso, del ricordo, della rievocazione nostalgica del passato perduto, un giorno come questo quasi inevitabilmente ti chiede conto. C’è un tempo perduto: e non perché sprecato, ma vissuto in quella maniera non piena di cui t’accorgi solo quando non lo si possiede più. E qualcosa è perso, con i qualcuno che si sono persi; e con le occasioni non meglio praticate, e con i fallimenti e gli abbandoni subiti. Ed è qualcosa che non torna più. Un tempo che scorre troppo veloce, che non si riesce a “prendere in mano”. Anche i più dotati di sé ritrovano nella bassa autostima le occasioni mancate; e nelle fragilità non riconosciute il perché di relazioni naufragate. Ed è così che salti al settimo volume dell’autore parigino: per sapere come avere il tempo ritrovato. E gli devi dar ragione: ritrovato attraverso la memoria. E in giorni che finiscono, come questo nel volgere di un anno – ma tutti i giorni finiscono, svoltando in un tempo altro – la memoria che fa risalire quanto si è vissuto fa rileggere sensazioni e nostalgie, persone e situazioni, doni e latrocini. E solo nella memoria di ciò che è stato dato, e offerto, si nutre il presente: come avrebbe scritto dal carcere Gramsci, il tempo è la cosa più importante, poiché è solo un pseudonimo della vita stessa. Tuttavia, e sant’Agostino ci avverte: "Se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so". Lui è perplesso; né il passato né il futuro, ma soltanto il presente realmente è. Dunque una sosta, perché no?, qua e là, all’ultimo di dicembre o in qualsiasi altro giorno: ma una sosta in tensione. Noi siamo avviati all’oltre, qui per dopo. Ma vivendo pienamente l’oggi; e non perdendosi in ciò che è stato, in quello che sarebbe potuto essere. Non è nelle nostre corde, occorre ammetterlo. M il rimpianto non aiuta l’oggi che ci è dato. Se il ricordo fa risalire il bello che si è vissuto, lo si afferri, per non perdersi nella tristezza di quanto non abbiamo saputo vivere al meglio. E se qualcuno ci aiuta, i nostri santi in cielo e qualche amico ritrovato sulla terra, è una benedizione di cui saper ringraziare. Che è poi l’azione a cui siamo invitati dalla Chiesa in questo ultimo di dicembre: grazie al Signore, e a chi ci ama nonostante noi. Così ogni ultimo diventa il primo.
Ecologismo
Questa irrinunciabilità allo spettacolo superfluo! La sera dell’8 dicembre e la facciata di San Pietro: un ulteriore segno di come non bastino, ad alcuni, i segni che ci sono consegnati in una solenne sobrietà, che non offuschi l’essenzialità nella improprietà del come si annuncia. Il portale spalancato dalle tre spinte del papa (a sostituire il folclore di un martello fuori tempo): a dire le mani dell’uomo chiamate a sporcarsi contro la resistenza dei muri a farsi portali d’accoglienza; l’incontro di Francesco con Benedetto, che ha fatto del suo essere il già-papa un esempio di nascondimento: a ricordarci quel “c’è tempo per ogni cosa” del libro biblico, e per tutti; e la preghiera del pomeriggio in piazza di Spagna, all’Immacolata issata su quella colonna che data due millenni: a indicare a ciascuno di quale bellezza siamo stati privati dal delirio dell’obbedienza a sé dell’uomo, creatura contro Creatore. Segni che raccontano; segni che non nascondono. Segni d’inizio di un giubileo dedicato a ricordare che il Misericordioso sta a vedere quale misericordia rinasce in chi ha creato a propria immagine e somiglianza. Ed ecco, invece, quei volatili più o meno appetibili, quel salto di tigri e di ghepardi, quegli immusoniti pesci in muta strisciata, per raccontare, ci hanno detto, l’enciclica Laudato si’. Immagini dei più bravi e conosciuti fotografi mondiali, per, hanno detto, illuminare la casa comune. Cinquantatre anni prima altre luci in quella piazza: migliaia di fiammelle appese a mani di uomini e di donne, a salutare l’inizio di un Concilio radunato per cambiare il come si dice al mondo il Vangelo. E nessun telefonino a distrarre dall’esserci, dentro e del tutto, come oggi accade persino a vescovi e preti che si autoflessciano, mentre son lì a celebrare. Altro mondo? Altra storia? Non altra però la tentazione di annacquare; e forte il tentativo di non lasciarsi disturbare, appunto, dall’essenzialità. Con un papa come Francesco è facile cadere in una nuova papolatria: si guarda al papa, e meno al Vangelo che predica. O lo si riduce, il papa e con lui il Vangelo, a un nuovo panteismo, che per raccogliere tutto e tutti, rinnegherebbe le differenze: della fede e delle relazioni. Alla fine, le differenze delle persone: così tradendo l’essenza di questo gesuita, che del papato fa un servizio di ripulitura della trasmissione della fede cristiana, riportando nell’oggi l’intento di papa Giovanni declamato all’apertura del Concilio: “Una cosa è infatti il «depositum Fidei», e un'altra è il modo col quale esso è enunciato però conservando lo stesso senso e la stessa sentenza”. All’inizio dell’anno giubilare potevano risparmiarci quella scivolata in un ecologismo senza uomo: esattamente all’opposto di quanto Francesco ha invitato nella sua lettera all’Urbe e all’Orbe, chiamando a un amore per la natura, a servizio e non a dominio sull’uomo. Ma c’è chi sta ritessendo le parole alle prime pagine bibliche, datando non solo il dono ma anche il Donatore. Dicono - senza dire apertamente, ma fanno - dicono datato l’ammonimento del Signore Dio che dà all’uomo flora e fauna, perché le usi a rimodellare continuamente il creato. In bellezza, senza violenza, certo: ma non bambini posposti ad animali! E' antico detto: misericordioso è il medico senza misericordia, senza una compassione falsa, fuorviante. Questa autentica misericordia occorre al mondo. Questa la misericordia che non trasformi l'insegnamento del papa in esortazioni da buonuomo.
Bangul
Mai sentita nominare questa capitale della Repubblica Centrafricana. E neppure, ad essere sinceri, questo stato cuore dell’Africa, così come è chiamato. O meglio, come ho imparato in questi giorni, chiamato il cuore nero dell’Africa: per una sanguinosa guerra civile che ha visto scorrere sangue a torrenti, in uno scenario fatto di sfruttamento di una terra ricchissima di cui nulla ritorna a chi la abita. Mai sentiti nominare. E forse non è solo una ignoranza geografica: è l’ignoranza della indifferenza per tutti i là che non toccano il nostro qui. Quei là che danno meno risonanza alle centinaia di giovani morti su una piazza di Turchia due mesi fa, rispetto ai centinaia di Parigi. Che non è mai una diversa morte, e neppure un diverso dolore. Ebbene là, quella misconosciuta terra africana è diventata la capitale spirituale del mondo. Là è stata spalancata la prima porta santa del giubileo della misericordia. Là, e non a Roma, per un evento che per la prima volta vedrà tante porte sante quante sono le Chiese locali. A meno che ... a meno che sia un giubileo delle periferie... già il pellegrinare sui marciapiedi dei propri abitati fa scoprire le occasioni di misericordia. E se proprio (ma perché?), se proprio qualcuno ritiene necessario centrare su Pietro e insieme dare concretamente il segnale delle periferie - il fascino di un papa a Zagarolo, nel provocatorio romanzo di Morselli, ricordate? - lo si faccia con sedi continentali reali e non virtuali, dove Pietro stabilisce la sua residenza e si rende presente per un mese, così che i viaggi di quanti vogliono esprimere unità con Chi è stato fatto pietra di costruzione, siano facilitati per tutti, soprattutto ai poveri... e che, per parlare di mettere la miseria altrui vicino al proprio cuore, non si spenda se non per il pane di ogni giorno: e del corpo e dell’anima. Così scrivevo al primo annuncio dell’anno giubilare; e dunque è gioia per me vedere il papa che si fa lui primo pellegrino giubilare, uscendo da San Pietro verso una terra abitata da persone poverissime; mi piace che avvii l’anno lontano da Roma, che renda visibile così il passaggio dalle parole ai segni. Troppo si è giustificata, lungo i secoli, una fastosità non giusta per il Vangelo. Dunque lontano da una ostentazione che oscura, dalle troppe vesti paonazze che brillano di sé, rivestito di un piviale da parrocchia rurale, le mani su una porta a listelli di legno: per dire la verità della fede, occorre saper prendere le distanze. E Francesco le sta prendendo, anche in mezzo al tumulto sotterraneo di chi non si rassegna: ma riuscirà finalmente l’innocenza a governare?
la nostra cronaca 2013-2014
Domenica 6 settembre: Festa dei patroni Sant'Egidio e sant'Alberto celebrazione solennemente sobria alle 10, 30, e a seguire pranzo nel chiostro aperto a tutti quelli che volessero, portando o no la propria schiscetta da casa. >>> In mattinata ritiro predicato dal Rettore ad alcune coppie della parrocchia di Treviolo che festeggiano l’anniversario di matrimonio.
Da venerdì 4 a domenica 6 settembre: in accoglienza ospitiamo una dozzina di animatori dell'oratorio di Boltiere accompagnati dal Curato don Luca che si dedicano alla programmazione delle attività del nuovo anno pastorale.
Giovedì 3 settembre: ospite l'Associazione Anziani di Garlate _ Lecco. Il Rettore celebra l'Eucaristia in ricordo dei loro famigliari defunti. A seguire, visita guidata alla chiesa e pranzo al ristorante vicino alla Chiesa prima di scendere a Sotto il Monte per la preghiera nella cripta del Santo Papa Giovanni.
Martedì 1 settembre, all’inizio della notte: nella chiesa abbaziale colma di amici a parenti, don Leonardo, vicario parrocchiale di Sotto Il Monte celebra una Messa in ricordo di Mauro, animatore dell'oratorio di Valtesse, prematuramente scomparso.
Inferno a Parigi
Quest’anno, con molta probabilità le luci gioiose che illuminavano le notti nei tre kilometri dall’arco di trionfo alla Grande Arche della Défense probabilmente non si accenderanno. Un altro Natale quest’anno a Parigi: per quanto paganeggiante, e lontano dalla sobrietà di Betlemme, tuttavia chiamava a un oltre di senso anche i più distratti, e forse persino i più avvizziti senzadio. Troppo pesante questa orrenda notte che ha terrorizzato la città simbolo di ben-essere, di una terrestre vita buona, descritta talvolta come per eccellenza la città simbolo del peccato. Aldilà di moralismi datati, è la città che più si avvicina a quella utopia di una terra abitata dalla pace, dalla convivenza. Sì, nate dal sangue le tre parole che racchiudono il vangelo laico dei popoli, nate dal sangue ma nate lì: libertà uguaglianza fraternità. Le parole attentate stanotte dal furore poggiato su un dio che non c’è: un dio che non crea gli uomini nella libertà tutti uguali perché s’accompagnino fraternamente, è un Dio che non c’è. E bestemmia maggiore di invocarlo mentre si dà la morte, non c’è. Ecco uno dei casi nei quali vacilla la mia speranza che l’inferno sia vuoto. Riempitolo, l’inferno, di tanti (ah, la santa chiesa di Cristo come si è lasciata deviare nei secoli da impurità solo carnali!) di tanti la cui colpa si può descrivere soltanto per le fragilità di questo composto umano, lo si pretende vuoto per quanti bestemmiano Dio – il Vero, che gli si dia il nome di Iahvè Allah o il Trinitario rivelatoci da Gesù - chiamandolo dio della morte, del fratricidio cainesco? Avviati all’anno della misericordia, quanto bisogno abbiamo di impiantarci nella giustizia per non scivolare nel nulla, in una parola senza azione? Raccontato da Dante, il Cocito, che per la mitologia greca è uno dei quattro fiumi dell’Ade, diventa un grande lago ghiacciato sul fondo dell’inferno. Lì Satana è immerso con i traditori – della famiglia, della patria, di Dio. Della patria umana sono traditori dal cuore ghiacciato quanti sputano fuoco su donne e uomini inermi. Infedeli, ci dicono. Ma certamente: infedeli, e vigorosamente di quel loro orrendo dio. Forse, in una ripresa di quell’orgoglio di cui sono imbastiti i francesi, forse riaccenderanno le luci per Natale. E la migliore sconfitta del buio che ha intriso loro e noi, stanotte, potrà essere – senza capi di stato – passeggiare a Natale lungo i tre kilometri del viale più bello del mondo, per riaccendere la speranza. La loro, e la nostra.
Cinque vie
Chiesa italiana in convegno a Firenze per darsi una indicazione di cammino per i prossimi anni. Già visti, convegni così. Ne sono uscite parole belle, colte, raffinate. Come hanno inciso sul corpo delle comunità cristiane? Che cosa hanno detto alle folle che della Chiesa sanno solo gli edifici per i riti di passaggio della vita, ma senza che ne colgano la vita di Gesù Cristo? Insufficienze che non devono frenare dal cercare di nuovo. E questo è il senso ultimo di cinque verbi che questo convegno si è dato. Verbi, cioè azioni. Nutrite da parole, ma azioni. Cinque vie che passano attraverso l’incarnazione di Gesù Crsto, Dio nella tenerezza e nella fragilità della carne umana. Uscire: dalle sacrestie, dalle proprie strutture, è per eccellenza la missionarietà della Chiesa, chiamata a non rattrappirsi su se stessa, su certezze rese obsolete da un uomo che evolvendosi conosce l’altro di sé; e che dunque la possono tenere lontana dal campo in cui vivono la loro quotidianità oggi gli uomini e le donne; uscire è rischiare, ma è condizione per incontrare, per accorgersi dell’altro. Uscire per annunciare: per dire il nuovo che da duemila anni risuona senza ancora avere colto il cuore dell’uomo. Un annuncio di salvezza che è oltre l’uomo, e solo nell’umanità di Cristo trova il proprio cuore. E in Gesù trova il metodo della vita dei discepoli, che è l’abitare l'umanità, immergendosi, stando accanto, affiancandosi, non temendo di inzaccherarsi nell’inevitabile lato sporco del mondo. Una Chiesa che sa educare, tirar fuori il meglio di cui la creazione ha dotato l’umanità: senza sovrapposizioni che soffocano, senza induzioni che non tengano conto della unicità del vissuto di ciascuno; indirizzando il bene al meglio, e lasciandosi così educare mentre educa. E la via, infine del trasfigurare: per non lasciare nessuno nella pochezza della terrestrità, indicando allo sguardo orizzonti che danno senso alla fatica del vivere; senza tuttavia fughe dal mondo, senza illusioni, e senza abbagli che impediscano di vedere l’oltre di sé. Una chiesa che si incarna, svestendosi dagli orpelli che inducono a spiritualismi che conducono lontano dal volto di Dio rivelato nell'uomo Gesù. Cinque vie che si intrecciano: educare all’annuncio di un Salvatore del mondo, che trasfigura il tempo presente nella bellezza definitiva promessa: ma solo a condizione di uscire ed abitare il tempo presente. Riusciranno le parole a diventare azioni? Il metodo è indicato da Francesco: “In ogni parrocchia e istituzione, in ogni diocesi e circoscrizione, cercate di avviare, il modo sinodale”. Fuori finalmente da quegli organismi di partecipazione – così come sono stati avviati da cinquant’anni a questa parte – che hanno dimenticato la partecipazione per vivere di statuti; e così proponendosi in arrocchi che non chiamano ad uscire da schemi artefatti, e dunque non annunciano se non se stessi, rinunciando ad educare il popolo dei discepoli, là dove non abitano più il mondo che interroga. Una volta di più chiamati a costituire, sull’esempio dei fratelli separati, quei Consigli di Chiesa della Comunità, dove non si teme il confronto e la critica, per liberare la teologia dal pericolo di insabbiarsi in ideologie che allontano dal Vangelo. Insisto sulla sinodalità: ne ho fatto esperienza, e pur nei suoi limiti, ha saputo creare quello spirito di novità spalanca la porta allo Spirito. Per evangelizzare insieme, popolo e pastori. 9 novembre 2015
Segnalazioni / Corrispondenze
Quale scisma nella Chiesa, di E. Bianchi - Anche nella chiesa cattolica non c’è pace e si susseguono fatti ed eventi che a volte scandalizzano, altre volte appaiono situazioni anacronistiche appartenenti a un mondo passato, quello in cui, secondo Gesù di Nazareth, “i morti seppelliscono i loro morti”. È incredibile che un uomo, un arcivescovo che dopo aver servito la chiesa per molto anni con competenza, da fedele esecutore della volontà del Papa, non avendo ricevuto gli onori sperati, sia diventato un vescovo in rivolta proprio contro la Santa Sede. Perché nel 2018 mons. Carlo Maria Viganò ha cominciato non solo a criticare l’azione del Papa — e questo può essere legittimo –, ma a delegittimarlo, chiedendogli prima di dimettersi e poi più volte dichiarandone l’indegnità a presiedere alla comunione cattolica. E a partire da allora si sono susseguiti gli attacchi al concilio Vaticano II, definito “un cancro per la chiesa”, accompagnati da un rifiuto radicale dell’azione pastorale di Papa Francesco. In verità, mons. Viganò non è stato né il primo né il solo vescovo a imboccare questa strada della rivolta: alcuni cardinali, come Gerhard Muller e Raymond Burke e alcuni vescovi come mons. Schneider, avevano inaugurato questa inedita critica verso Papa Francesco facendo paventare ad alcuni la possibilità di uno scisma. Eventualità enfatizzata soprattutto dai tradizionalisti per incutere paura alla Santa Sede e per incolpare alcune chiese, come quella tedesca, o il Papa stesso di creare divisioni nella chiesa. E va riconosciuto che a questo brusio che desta timori e frenate danno il loro appoggio anche alcuni membri della curia romana. Ma non siamo nel post-concilio, tempo di roventi polemiche in campo dottrinale e liturgico. Oggi in realtà c’è già uno scisma in atto: quello che Pietro Prini, il filosofo cattolico, chiamò “lo scisma sommerso”, che in modo silenzioso, non eclatante, si consuma ogni giorno. Infatti da trent’anni sono i giovani che lasciano la Chiesa e negli ultimi venti soprattutto le donne, come fanno notare teologi seri come Armando Matteo. Questo è lo scisma che dovrebbe preoccupare tutta la chiesa, non quello impossibile di un monsignore ribelle che si è posto da solo al di fuori della chiesa delegittimando il Papa, la sua autorità, la sua azione pastorale. Nella Chiesa di oggi non c’è possibilità di diatribe e divisioni sulla dottrina, ma ci possono essere e ci sono sempre più evidenti contrapposizioni in materia di morale ed etica, vuoi a causa della diversità delle culture in cui sono presenti le Chiese, vuoi a causa della novità di alcuni atteggiamenti pastorali dettati da una rilettura del Vangelo nell’oggi. Resta molto difficile il compito di presiedere all’unità nella Chiesa. Papa Francesco opera questo tentativo in nome del Vangelo e più lui pare obbediente al Vangelo, più troverà opposizione e scatenamento delle forze avverse. Ma non deve temere: “il resto” della Chiesa è con lui!
L’imbarazzo per la gaffe di Francesco
C’è chi sospira in Vaticano: “Non si tiene”; o come l’auto-profeta Mancuso “è in triste declino”. Ipocriti … e i vescovi che l’han fatta uscire, la parolaccia? Chi è il suggeritore di Dagospia? Un anti-bergoglio, no?
Il suo stile comunicativo, così quotidiano ed efficace, lo espone a rischi e gli ha crea problemi. E pazienza quando disse «non siate zitellone» alle suore. O che va bene i figli, ma i cristiani non devono farne “come fossero conigli”. O quando disse che non si può uccidere in nome di Dio ma nemmeno insultare la religione degli altri, e poi aggiunse: “Se uno dice una parolaccia contro la mia mamma, si aspetti un pugno”. L’italiano non è la sua lingua madre, quand’era ragazzo in famiglia parlavano più che altro il piemontese e insomma era evidente che Francesco non fosse consapevole di quanto nella nostra lingua la parola usata sia greve e offensiva: possiamo ammetterlo, pur accettando che è una gaffe maledetta, per lui che è chiamato solo a dare benedizioni. (E infatti ha permesso che si diano, e contro il parere di quegli ipocriti complici di Dagospia, agli omosessuali credenti). È evidente che talvolta inciampi in un italiano un po’ creativo senza essere consapevole delle sfumature. Qualche anno fa gli capitò un incidente simile, sempre in tema di omosessualità: se un ragazzo è incerto sul proprio orientamento, disse, potrebbe avere bisogno di un sostegno “psichiatrico”, con relativo strascico di polemiche, come se si fosse riferito a un malato di mente. In realtà Francesco usa spesso l’aggettivo “psichiatrico”, in italiano, al posto di «psicologico», e anche di se stesso ha detto d’essere andato ad abitare a Santa Marta e non nell’appartamento papale “per motivi psichiatrici”, nel senso che non ama vivere isolato. Chiara De Sanctis
Piergiorgio Frassati
Il presunto miracolo che potrebbe finalmente aprire la canonizzazione di Pier Giorgio Frassati nell’Anno Santo 2025 nel centenario della morte è allo studio dal 2016 al dicastero delle cause dei Santi. L’annuncio è arrivato dal cardinale prefetto Marcello Semeraro alla XVIII assemblea nazionale dell’Azione Cattolica il 27 aprile. Beatificato nel 1990, Pier Giorgio, figlio del proprietario e direttore de «La Stampa» muore a 24 anni di poliomielite fulminante dopo una vita dedicata alla fede, alla preghiera e ai poveri lasciando un segno indelebile nella vita di molti: la famiglia e il padre Alfredo ne scoprono pienamente la figura ai funerali quando nella chiesa parrocchiale della Crocetta si accalca la Torino dei ricchi e dei miserabili, dei quartieri bene e delle stamberghe, degli studenti del Politecnico e delle associazioni cattoliche, dalla Fuci all’Azione Cattolica, dalle Conferenze di San Vincenzo al Terz’Ordine domenicano (si faceva chiamare «fra Gerolamo Savonarola»). Sulla sua proverbiale spensieratezza scende un’ombra nell’ultima parte dell’esistenza. Il 14 febbraio 1925 scrive alla sorella: «Tu mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la fede mi darà forza sempre allegro! Ogni cattolico non può non essere allegro: la tristezza deve essere bandita dagli animi cattolici; il dolore non è la tristezza, che è una malattia peggiore di ogni altra. Questa malattia è quasi sempre prodotta dall'ateismo, ma lo scopo per cui noi siamo creati ci addita la via, seminata sia pure di molte spine, ma non una triste via: essa è allegria anche attraverso i dolori».
Record di armamenti degli ultimi 15 anni
«La guerra sempre è una sconfitta in cui chi guadagna di più sono i fabbricatori di armi» non si stanca di dire Papa Francesco. E l'Istituto internazionale di ricerche sulla pace (Sipri) di Stoccolma, il più autorevole e indipendente, per il 2023 constata sconfortato: «Non c'è regione del mondo dove la situazione sia migliorata». Quanto si spende in Europa non è una sorpresa: con due guerre nell'area mediterranea-europea che coinvolgono indirettamente i Grandi con forniture miliardarie a Israele e all'Ucraina da parte degli Stati Uniti e all'Ucraina dai Paesi europei, il 2023 è l'anno dell'aumento record della spesa militare.
Nel 2023 si sono spesi in armamenti 2.443 miliardi di dollari (2.293 miliardi di euro), il 2,3% del Prodotto interno globale, con un incremento del 6,8% in tutto il Pianeta: «Non c'è zona in cui le cose siano migliorate». Di conflitti - in quella che il Papa Bergoglio definisce «la Terza guerra mondiale a pezzi» - se ne contano parecchi ma dal 2022 sono scesi sul campo di battaglia gli Stati che hanno l'arma nucleare come Russia e Israele. La Russia di Putin è supportata dalla Corea del Nord, anch'essa dotata di armi nucleari, e dall’Iran che lavora all’atomica. Per sostenere l'Ucraina la Nato chiede di destinare alla difesa almeno il 2% del pil. Il Congresso americano ha appena varato un pacchetto di aiuti: 29 miliardi di dollari vanno all'industria bellica statunitense per la produzione di armi.
Dottrina della Fede, ecco le gravi violazioni della dignità umana
La dichiarazione “Dignitas infinita”inquadra ed elenca alcune situazioni problematiche particolarmente attuali.
La dichiarazione «Dignitas infinita» del dicastero per la Difesa della fede non è un documento strettamente papale – nel senso che non è firmato da Francesco - ma è da lui voluto e approvato. Subito, l’8 aprile 2024, appare un testo fondante del papato bergogliano. Se ne sono resi conto i media, italiani e stranieri, che gli hanno riservato ampi spazi. Il testo richiede cinque anni di lavoro e include il magistero papale dell’ultimo decennio: dalla guerra alla povertà, dalla violenza sui migranti e sulle donne all’aborto, dalla maternità surrogata (l’«utero in affitto») all’eutanasia, dalla teoria del «gender» alla violenza digitale, che miete tante vittime. Si potrebbe azzardare che è la «Dichiarazione cristiana dei diritti dell’uomo» nel 75° della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», adottata dall'Assemblea Onu il 10 dicembre 1948 a Parigi con la risoluzione 219077A. In 30 articoli la parola «dignità» appare cinque volte, in punti strategici.
Tre capitoli contengono i fondamenti delle affermazioni sulle «gravi violazioni della dignità umana». La Chiesa riafferma «l’imprescindibilità del concetto di dignità della persona umana nell’antropologia cristiana». Alcuni temi portanti del recente magistero pontificio affiancano quelli bioetici contenuti nella «Donum vitae. Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione», istruzione della congregazione per la Dottrina della fede del 22 febbraio 1987, firmata dal prefetto cardinale Joseph Ratzinger. I quotidiani italiani hanno titolato prevalentemente sul «no» alla maternità surrogata. Nell’elenco, «non esaustivo», ci sono: guerra; povertà; sfruttamento di migranti, donne e bambini; tratta delle persone. La dichiarazione contribuisce a superare la dicotomia tra quanti si concentrano sulla difesa della vita nascente o morente e dimenticano gli altri attentati contro la dignità umana; e coloro che si concentrano solo sulla difesa dei poveri e dei migranti dimenticando che la vita va difesa dal concepimento alla naturale conclusione.
«La Chiesa, alla luce della Rivelazione, conferma in modo assoluto la dignità ontologica della persona, creata a immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo; dignità inalienabile che corrisponde alla natura umana al di là di qualsiasi cambiamento ed è un dono presente in un bambino non ancora nato, in una persona priva di sensi, in un anziano in agonia. La Chiesa proclama l’uguale dignità di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro condizione e qualità di vita». Cristo «ha confermato la dignità del corpo e dell’anima e ha rivelato che l’aspetto più sublime della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio».
Sbagliano coloro che a «dignità umana» preferiscono «dignità personale» perché «intendono come persona solo un essere capace di ragionare e sostengono che non avrebbe dignità personale il bambino non ancora nato e neppure l’anziano non autosufficiente, come neanche il disabile mentale. La Chiesa insiste: «La dignità intrinseca di ogni persona rimane al di là di ogni circostanza e il concetto di dignità umana viene spesso usato in modo abusivo per giustificare una moltiplicazione arbitraria di nuovi diritti, come se si dovesse garantire la capacità di esprimere e di realizzare ogni preferenza individuale o desiderio soggettivo». L’esempio più clamoroso arriva dalla Francia: il presidente Emanuel Macron ha voluto che la «libertà di aborto» fosse inserita nella Costituzione e ora impegna la Francia nell’inserire la «libertà di aborto» tra i diritti umani fondamentali.
Nell’elenco delle «gravi violazioni della dignità umana» c’è «tutto ciò che è contro la vita, come omicidio, genocidio, aborto, eutanasia, suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona come mutilazioni, torture inflitte al corpo e alla mente, costrizioni psicologiche; tutto ciò che offende la dignità umana: condizioni subumane, incarcerazioni arbitrarie, deportazioni, schiavitù, prostituzione, mercato delle donne e dei giovani; ignominiose condizioni di lavoro in cui i lavoratori sono trattati come strumenti. La pena di morte viola la dignità inalienabile di ogni persona».
Il Papa il 1° agosto 2018 ha inserito nel «Catechismo»: «La Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che “la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona” e si impegna per la sua abolizione in tutto il mondo». Il «dramma della povertà è una delle più grandi ingiustizie». La «guerra è una tragedia che nega la dignità umana ed è sempre una sconfitta dell’umanità, al punto che è molto difficile sostenere la “guerra giusta”».
Condannato è «il travaglio dei migranti la cui vita è messa a rischio». Così la «tratta delle persone ha dimensioni tragiche, attività ignobile, vergogna per le società che si dicono civilizzate». Così occorre lottare contro «commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e armi, terrorismo, crimine organizzato, abuso sessuale».
Netta la condanna dell’aborto: «fra tutti i delitti che l’uomo può compiere contro la vita, l’aborto procurato è grave e deprecabile. La difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano». No alla maternità surrogata, «attraverso la quale il bambino diventa un mero oggetto, una pratica che lede gravemente la dignità della donna e del figlio». No all’eutanasia e suicidio assistito confusamente definiti «morte degna»: «La sofferenza non fa perdere al malato la dignità che gli è propria in modo intrinseco e inalienabile». Importanti sono le cure palliative ed evitare ogni accanimento terapeutico o intervento sproporzionato. No alla poligamia e al femminicidio.
Codificati il trattamento degli omosessuali e la violenza digitale. Verso gli omosessuali va evitato «ogni marchio di ingiusta discriminazione e ogni forma di aggressione e violenza: contrasta con la dignità umana che persone siano incarcerate, torturate e private della vita unicamente per il proprio orientamento sessuale»: perciò propone di «depenalizzare i reati contro l'omosessualità». La «teoria del “gender” è pericolosissima perché cancella le differenze nella pretesa di rendere tutti uguali. Voler disporre di sé, come chiede la teoria del “gender” significa cedere alla tentazione dell’essere umano che si fa Dio e negare la più grande tra le differenze esistenti tra gli esseri viventi: quella sessuale». Negativo il giudizio sul «cambio di sesso». Infine «la violenza digitale si diffonde attraverso i social media, la diffusione della pornografia, lo sfruttamento delle persone a scopo sessuale o tramite il gioco d’azzardo».
Pier Giuseppe Accornero
Hani: la cura impossibile
In ogni guerra, da quella più dimenticata a quella sotto i riflettori del momento, le storie di tanti uomini e donne si intrecciano in un vorticoso mistero di dolore, sofferenza, speranza, morte, salvezza.
Ed è proprio di una di queste storie di cui voglio raccontarvi … la storia di Hani.
Hani è uno dei tanti che a seguito di incidenti o malattie sono in lista d’attesa per un trapianto di reni. Quest’uomo da tempo è costretto a sottoporsi a dialisi periodica per sopravvivere. Fin qui nulla di eccezionale, se non la necessità di ricorrere ogni due giorni ad un centro specializzato, o ad un ospedale, per la depurazione del suo sangue. La sfortuna però, vuole che Hani risieda a Gaza, in quanto sacrestano e collaboratore della Parrocchia cattolica della Sacra Famiglia. Quando nelle scorse settimane tutti gli ospedali nel nord di Gaza sono stati messi fuori servizio, uno dopo l’altro, a causa della guerra, Hani è partito da solo verso sud per cercare un ospedale, ancora in grado di effettuare la dialisi. Ha ricevuto cure irregolari fino a che è stato impossibile anche in quei luoghi.
Allora, Hani non si è perso d’animo ed ha cercato di tornare al nord, dalla sua famiglia, sperando nell’impossibile. Ma anche questo è stato impraticabile: a nessuno infatti, che ha lasciato il Nord di Gaza, è permesso di ritornare. Hani ha trascorso così gli ultimi giorni della sua vita, alla ricerca disperata di cure e di aiuto. E’ morto solo, lontano dai suoi familiari (moglie e figli piccoli) e privato di cure adeguate. E’ morto senza che nessuno gli tenesse la mano, è morto senza la dignità che meritava. Seppellito al sud dove non ci sono cimiteri cristiani e sacerdoti.
Solo la forza della preghiera, del Patriarcato latino di Gerusalemme e dei suoi familiari, è riuscita a lenire la sofferenza e a far sentire forse meno solo, un uomo abbandonato al suo ”destino”, dall’insipienza e dai danni provocati dalla guerra (dagli effetti collaterali).
Claudio Castaldello, 21/02/2024
Aleksej Navalny : Coerenza e amore
Mentre in tutte le città i russi continuano a deporre fiori per onorare Aleksej Navalny e a sfidare le autorità che fermano centinaia di persone e fanno sparire immediatamente i fiori deposti in suo onore;
mentre il suo corpo rimane inaccessibile ai suoi cari e non sapremo se lo diventerà e quando (anche solo per una preghiera); mentre i misteri sulla sua morte rimangono tutti, ciascuno di noi si chiede: perché Navalny ha deciso di sacrificarsi, perché quest’uomo ha deciso di rinunciare a tutto quello che aveva, andando incontro a morte pressoché certa?
Per tentare di rispondere a questa domanda partiamo da una data e una fotografia: 17 gennaio 2021, l’immagine, fissa un momento decisivo per lui, il momento storico in cui Navalny saluta alla dogana di Berlino la moglie, prima di rientrare a Mosca; consapevole che sarà l’ultima volta che vedrà la moglie da uomo libero.
Ci sono scelte nella vita di ciascuno di noi che ci definiscono più di altre e che ci dicono davvero chi siamo e chi vogliamo essere. Aleksej alla dogana di Berlino, ha di fronte il il dilemma se rimanere in esilio, o se rientrare in Russia (dopo l’avvelenamento del 2020). Puo’ infatti decidere di fare l’esule, eroe, pagato a peso d’oro per libri, conferenze, ecc… È un uomo giovane, ha tutto da perdere: l’amore, gli affetti, il denaro, la felicità, la libertà e la vita. Invece sceglie di tornare in patria, da solo, con la certezza di essere arrestato. Il bacio alla moglie rappresenta l’ultimo saluto a queste certezze.
Il seguito è storia recente: l’arrivo in RUSSIA e subito l’arresto con condanna a 9 anni per “estremismo” e poi altri 10. Lo spediscono in carcere vicino a Mosca e poi in Siberia in un campo di prigionia speciale.
Qui, finisce 27 volte in cella di isolamento per mancanze minime (ad esempio lavarsi il viso prima dell’orario stabilito, oppure un bottone della divisa non allacciato). Ogni volta sono 15 giorni di isolamento a meno 30 gradi in celle senza riscaldamento, con pochissimo cibo e un freddo giaciglio dove potersi sdraiare solo qualche ora la notte. E ogni volta perde circa 4 kg. di peso.
Dopo tutto questo e tanto altro, diventa assolutamente secondario sapere perché subito dopo San Valentino (14 febbraio) il suo cuore ha smesso di battere. La domanda vera è Perché??? Perchè Aleksej Navalny ha deciso di sacrificarsi, perché ha deciso di rinunciare a tutto ciò che aveva? Ed era tanto ciò che aveva: l’amore, gli affetti i figli, la libertà, l’ammirazione di molti. La risposta non la conosceremo mai… se non quando ci reincontreremo in una dimensione di Pace, giustizia, amore.
Una cosa però la sappiamo. Sappiamo e abbiamo la certezza che proprio in questo suo sacrificio, dimora la sua grandezza… Vogliamo sentirlo vivo con le sue parole profetiche, colme di tenerezza e di amore: “se dovessero uccidermi, significa che saremo diventati incredibilmente forti … L’unica cosa che fa bene al male è che il bene non faccia niente … Quindi non siate inerti e indifferenti, non arrendetevi mai”.
E rivolto a sua moglie, proprio nel giorno degli innamorati, tutta la sua ultima tenerezza: ”Amore abbiamo tutto, come in una canzone: tra noi ci sono città, luci di decollo degli aeroporti, bufere blu di neve e migliaia di chilometri, ma ti sento vicina ogni secondo e ti amo sempre di più”.
L’amore di due vite che stanno diventando una “Carne sola”.
Claudio Castaldello, 21/02/2024
“Sonnambuli”: fotografia di un Paese di fronte ad un bivio.
Una società italiana affetta da sonnambulismo, che si mette una mano davanti agli occhi e ignora i presagi. È quella che viene raccontata dal 57esimo rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese.
Ogni anno il rapporto del Centro Studi Investimenti Sociali, (che da più di 50 anni svolge una costante e articolata attività di ricerca, consulenza e assistenza tecnica in campo socio-economico) ci fa capire a che punto siamo come sistema Paese.
I dati presentati a inizi dicembre sono da allarme rosso: l’Italia ormai è un paese di “sonnambuli” e di cittadini in preda a “scosse emozionali”.
Il rallentamento della crescita, la crisi demografica, il ritorno delle guerre, le incognite sul welfare, i migranti in entrata e i giovani in uscita: sono solo alcuni dei temi che suscitano preoccupazione, ma che la maggior parte degli italiani preferisce ignorare.
Sempre di più gli italiani che fuggono all’estero. Sono circa sei milioni i concittadini residenti all’estero.
Un fenomeno in crescita ogni anno che coinvolge soprattutto i nostri giovani. Solo nell’ultimo anno le iscrizioni per l’espatrio sono state 82mila da parte di italiani con età tra i 18 e i 34 anni.
Altro dato è il crollo dei matrimoni e della natalità.
Con questo trend, nel 2050 i 18-34enni saranno poco più di 8 milioni, appena il 15 per cento della popolazione.
Ma il dato più significativo è proprio questa sorta di “sonnambulismo”
Il riferimento è ad alcuni fenomeni economici e sociali facilmente prevedibili e tuttavia rimossi dall’agenda di tutto il Paese.
Ormai a livello di massa manca la capacità di un ragionamento “razionale” capace di discernere fra mille notizie e affermazioni, spesso incoerenti e contraddittorie.
Il mercato dell’emotività fertile terreno per paure amplificate
Altro dato riscontrato è il fatto che gli italiani ormai vivono di ‘scosse emozionali’, che trasformano quasi tutto in emergenza.
E se tutto è emergenza alla fine ‘nulla lo è veramente’, così si chiudono gli occhi sulle cose veramente importanti.
Così trovano terreno fertile paure amplificate, l’improbabile e il verosimile: la paura per il clima impazzito, la paura per lo straniero, la paura per sempre più povertà e violenza: “Sono scenari ipotetici che paralizzano anzi generano inerzia” secondo il Censis.
Alla fine, magra consolazione, gli italiani sembrano ripiegare su quelli che vengono definiti ‘desideri minori’, non più con lo sguardo al futuro ma affannosa ricerca di “pezzi” di benessere e piaceri quotidiani immediati e spiccioli.
Davanti ad un bivio
Il Paese è ormai davanti a un bivio: da una parte, stiamo camminando placidamente verso un deciso declino.
Dall’altra, c’è il risveglio dallo stato di “sonnambulismo” (come lo ha definito il Censis). Esso comporta il ritornare a “pensare con la propria testa” e riscoprire la capacità di riconoscere la condizione in cui l’Italia si trova, di smettere di nascondere i problemi reali e di cercare di riassumere il proprio ruolo nella società, dando comunque il proprio contributo in termine di partecipazione, di discernimento e di idee.
Risvegliamo la nostra ricchezza culturale
Perché questo accada occorrono almeno due condizioni riferisce il sociologo Magatti: “In primo luogo, che la politica parli al Paese con verità e lungimiranza, indicando una strada realistica, benché difficile, di come si possa abitare un mondo che sempre più sarà fatto di sostenibilità e digitalizzazione. La seconda condizione è che le forze vive e creative tuttora presenti nel tessuto sociale e civile si adoperino per un processo di vera riconciliazione nazionale, possibile solo con un deciso riorientamento culturale”.
Il cambiamento di fondo che questo tempo richiede a ciascuno è infatti quello di abbandonare l’idea iper-individualista che ha dominato gli ultimi trent’anni, l’idea che ciascuno fa per sé, che gli altri sono solo avversari e non amici, che tutto è dovuto.
Questo ci ha di fatto trascinati verso il declino. Un declino che non ha risparmiato le nostre Chiese, le nostre comunità e le nostre diocesi.
“Oggi occorre riconoscere che tutto è relazione. Ogni persona è in relazione con ciò che la circonda e con le generazioni che verranno. Ogni impresa esiste in rapporto all’ambiente e al territorio in cui opera. Ogni Stato gode di una sovranità in rapporto a sovranità più grandi. È questo il tema vero, di natura culturale – addirittura spirituale – che soggiace alla questione della sostenibilità. Come papa Francesco non si stanca di ricordarci”. Dice sempre il sociologo Mauro Magatti.
Un Nuovo patto fra Generazioni
E’ tempo di ricostruire un nuovo patto tra le generazioni, che traduca in fatti concreti ciò che questo tempo ci sta dicendo: e cioè che non ci sarà più crescita economica se non ci dedichiamo a prenderci cura delle condizioni sociali, demografiche, ambientali, culturali, educative, istituzionali che rendono possibile la stessa crescita.
Si tratta evidentemente di riprendere in mano la propria Storia.
Certamente un cammino impegnativo e difficile, che parte dal riportare la gente ad interessarsi del bene Comune. Un percorso sicuramente alla portata del nostro codice genetico e culturale, un risveglio nella passione del nostro essere italiani.
Claudio Castaldello 20/01/2024
Il grano, e la gmg: Francesco papa
«Preghiamo per la martoriata Ucraina, dove la guerra distrugge tutto, anche il grano». «Vi chiedo di accompagnarmi con la preghiera nel viaggio in Portogallo in mezzo a tantissimi giovani. Alla Vergine affido i pellegrini della GMG e i giovani del mondo». Dice Papa Francesco nella preghiera mariana di domenica 30 luglio 2023.
Il viaggio a Lisbona (2-6 agosto) parte dall’appello a non distruggere il grano «grave offesa a Dio perché il grano è un suo dono per sfamare l'umanità. Il grido dei milioni di fratelli e sorelle che soffrono la fame sale fino al cielo». Si rivolge «alle autorità della Federazione Russa affinché sia ripristinata l'iniziativa del Mar Nero e il grano possa essere trasportato in sicurezza». In un’intervista a «la Repubblica» il segretario generale dell’Onu il portoghese Antonio Guterres critica la decisione di Putin di interrompere «Black Sea Initiative», l’accordo mediato dalle Nazioni Unite che ha consentito l’esportazione sicura di oltre 33 milioni di tonnellate di cereali e prodotti alimentari in 45 Paesi con oltre mille navi. «Togliere dal mercato milioni e milioni di tonnellate di grano significa portare a prezzi più alti e gli aumenti saranno pagati da tutti, ovunque, e in particolare dai Paesi in via di sviluppo e dalle persone vulnerabili nei Paesi a reddito medio e persino sviluppati».
C’è un precedente storico assai preoccupante: «Holodomor» l’olocausto ucraino, la carestia che si abbatté sull’Ucraina novant’anni fa, tra il 1929 e il 1933, risultato di politiche crudeli dell’Unione Sovietica e di Jozif Stalin, il più dispotico e sanguinario dittatore. Aggiunge Guterres: «Anche se non c'è nulla di ottimistico sulla rapida conclusione del conflitto, continueremo a offrire piattaforme di dialogo per ridurre la sofferenza delle persone». E aggiunge: «Russia e Ucraina sono entrambe essenziali per la sicurezza alimentare globale e rappresentano il 30 per cento delle esportazioni mondiali di grano, orzo, mais, olio di girasole». Ma a Mosca Vladimir Putin è sordo: il piano di pace in Ucraina e l'accordo sull'esportazione di grano attraverso il Mar Nero – dice - non sono correlati. Una cosa non ha niente a che fare con l'altra». Il dittatore di Mosca allunga le mani sull’Africa. I Paesi africani chiedono il ripristino dell'accordo per il transito di grano sul Mar Nero. Per Guterres «le interruzioni di energia e grano devono finire immediatamente. L'accordo sul grano deve essere esteso a beneficio di tutti i popoli, in particolare di quelli africani. La guerra in Ucraina deve finire e può finire solo sulla base della giustizia e della ragione».
Il 42° viaggio internazionale di Francesco inizia alle 7.50 del 2 agosto. A Lisbona è accolto nel Palazzo nazionale di Belèm dal presidente della Repubblica Marcelo Rebelo de Sousa; poi incontra le autorità, la società civile e il corpo diplomatico. Nel pomeriggio nel monastero dos Jerònimos celebra i Vespri con vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati-e, seminaristi e operatori pastorali. Il 3 agosto l’incontro con gli studenti alla Universidade Catòlica Portuguesa; a Cascais saluta i giovani di «Scholas Occurentes». Nel pomeriggio accoglienza della Gmg: in serata Via Crucis con i giovani. Sabato 5 agosto sarà a Fatima: discorso e recita del Rosario con i giovani malati. Nel pomeriggio a Lisbona incontro privato con i gesuiti portoghesi. A sera la veglia dei giovani nel Parco Tejo dove domenica 6 Messa conclusiva, consegna della croce e annuncio della sede della prossima GMG internazionale. Dopo l’incontro con i volontari, partenza e arrivo a Fiumicino alle 22.15. Per la seconda volta visita il santuario mariano portoghese: c’era stato il 12-13 maggio 2017 nel centenario delle apparizioni di Maria alla Cova da Iria e canonizzò i due piccoli veggenti Francesco e Giacinta Marto. Questa è la sua quarta GMG dopo Brasile (2013), Cracovia (2016) e Panama (2019). Prevista per il 2022, è stata spostata per il Covid-19, sul tema «Maria si alzò e andò in fretta» (Luca 1,39). Nel videomessaggio il Papa parla di «una cosa bella. Mettete lì la speranza perché si cresce molto in una Giornata come questa. La Chiesa ha la forza dei giovani. Sfidate egoismi e pigrizia, renderete il mondo migliore. Vorremmo una vita diversa, senza sfide, senza sofferenze. Non c’è per noi volontà migliore di quella del Padre».
Sono 65 mila giovani italiani a Lisbona 81.500 torinesi) con 106 vescovi, poi sacerdoti, religiosi-e educatori e animatori di 180 diocesi: il punto di riferimento è «Casa Italia» nella scuola dalla Suore di Santa Dorotea della Frassinetti in rua Artilharia. Il «quartier generale tricolore» è stato inaugurato da nons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei. I ragazzi partecipano alle catechesi tenute dai vescovi. Sottolinea don Michele Falabretti, bergamasco, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile: «Quella di Lisbona è un’esperienza particolare: la generazione che vi prende parte, per questioni anagrafiche, non ha mai vissuto qualcosa di simile». Fra i 13 «patroni» della GMG ci sono vari subalpini: San Giovanni Bosco; beati Pier Giorgio Frassati e Chiara «Luce» Badano; l’adolescente lombardo beato Carlo Acutis e l’«inventore» della Giornata San Giovanni Paolo II. Francesco vuole pregare in modo speciale Maria per la fine della guerra nel cuore dell’Europa e di tutte le guerre. Il gesto del Vescovo di Roma si collega a un altro: poco più di un mese dopo l’invasione russa dell’Ucraina, Papa Bergoglio consacrò la Russia e l’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria in San Pietro il 25 marzo 2022. La consacrazione della Russia venne richiesta un secolo fa da Maria apparsa ai pastorelli di Fatima.
Pier Giuseppe Accornero
I negazionisti e la scienza, di Riccardo Luna
Sono più di quelli che muoiono per molti tipi di tumore, per dire. E sono comunque troppi. Oppure la sostenibilità sociale, che le destre europee usano per provare a fermare qualsiasi provvedimento per l’ambiente, ignora “i morti di caldo”? Quelli non contano? E son stati più di 18 mila l’anno scorso in Italia, più di 65mila in Europa.
( … ) ll fatto è che i conservatori hanno deciso che il nuovo avversario da battere non sono più i comunisti ma gli ambientalisti. Come se conservare la vita della specie umana sul Pianeta non dovesse essere il primo obiettivo anche di un conservatore. E invece basta prendere un qualunque giornale di destra per accorgersi che ogni giorno qualunque misura che punti a ridurre le emissioni climalteranti viene derisa e attaccata. Ieri c’era un articolo che provava a sostenere che la Co2 faccia bene al pianeta mettendo in fila una tale sequela di scemenze che veniva voglia di ignorarlo. Ma è un errore: è venuto il momento di smontare quelle scemenze, una per una, ogni giorno. Perché sono pericolose. E spiegare ogni giorno quello che sta accadendo. Non nei convegni di specialisti ma parlando alla gente. Su due importanti emittenti francesi le previsioni del tempo sono appena state allungate di qualche minuto per consentire ai meteorologi di dire anche perché fa caldo, perché c’è la siccità, perché le alluvioni. Chissà se vorrà farlo anche la Rai che sotto la presidenza di Marinella Soldi ha scoperto l’importanza della sostenibilità.
Addio Christian Bobin, poeta dalla scrittura “francescana” ---- Anche quando scriveva un appunto, vergava le lettere con la cura certosina d’un amanuense d’altri tempi. Un’attenzione ai gesti che rifletteva la sua passione di cantore d’ogni minuto splendore dell’esistenza. Di cantore, pure, di quelle grandi anime, come san Francesco d’Assisi o la poetessa americana Emily Dickinson, capaci d’esaltare ciò che è umile e piccolissimo. In vita, il poeta e scrittore francese Christian Bobin ne ha spiazzati tanti d’interlocutori e ammiratori, con quel suo habitus esistenziale così diverso dalle mode e dai vezzi dei salotti letterari. Sempre fedele, fino all’ultimo, a una lezione fondamentale d’autenticità che tanta linfa attingeva dalle pagine del Vangelo, frequentate incessantemente. A 71 anni, Bobin è morto nella sua dimora di campagna in Borgogna, dove proseguiva la sua opera circondato dalla natura e da quanti passavano a trovarlo. Una vita ritirata non lontano da Le Creusot, la cittadina dov’era nato nel 1951.Quando rifletteva sull’arte letteraria, zampillavano frasi come questa: «Scrivere è disegnare una porta su un muro invalicabile, e poi aprirla». Oppure: «La dolcezza di questo poema era così grande che alla fine della lettura, non avevo più corpo». Della morte, da credente, aveva invece scritto: «Ciò che mi mancherà nell’eternità sono i libri e le lettere. Il resto saranno solo delizie, degli oggi sensibili». E non mancavano, talvolta, sottili frecciate ai potenti: «Ho corso sulla terrazza con una formica e sono stato battuto. Allora mi sono seduto al sole e ho pensato agli schiavi miliardari di Wall Street». Nelle opere di Bobin, continuerà a risuonare una sinfonia di prodigi minuscoli capaci di rivelare la sacralità della vita. Una sensibilità dagli accenti molto francescani che lo scrittore aveva messo a nudo proprio raccontando il Poverello di Assisi: Francesco e l’infinitamente piccolo (San Paolo), uscito in Francia nel 1992, è l’opera luminosa che ha rivelato Bobin al grande pubblico, abbeverando da allora la crescita interiore di tanti. In Italia, l’editrice Servitium ha pubblicato una serie di gemme spesso dal profondo soffio spirituale: A cura di AnimaMundi, la settimana prossima, uscirà in libreria Mille candele danzanti. Di certo, le sue pagine continueranno ad accendere scintille invisibili: «Ognuno di noi, anche quando non ne ha coscienza, sta giocando la partita della propria eternità». (da Avvenire, Daniele Zappalà venerdì 25 novembre 2022)
Un Natale piccolo, di M. Serra ---- La giornata della Vita Nascente, proposta dal deputato Malan e dalla senatrice Rauti, esiste già e si chiama Natale. Cade a ridosso del solstizio d’inverno, quando le giornate ricominciano ad allungarsi e l’umanità, da molto prima che nascesse Gesù, celebra la sconfitta delle tenebre e il ritorno della luce. Il bambinello, come tutti i neonati, risplende nella sua culla (“astro del ciel”) e allontana da ogni casa l’ombra della morte. È il momento nel quale il messaggio cristiano parla a tutti e diventa universale. Se anche i non credenti amano il Natale è perché la nascita è una festa per ogni persona, non solo per chi crede che quel bambino fosse il figlio di Dio. Ogni nascita (non solo umana: di ogni essere vivente) è una sconfitta del nulla. Illumina il mondo, e rallegra. L’idea di una specie di doppione del Natale nel giorno dell’Annunciazione dell’angelo a Maria, al contrario, rabbuia e rattrista. Perché ha un’evidente intenzione politica, e al tempo stesso confessionale. Quella politica è antiabortista (come se esistesse qualcuno, al mondo, che festeggia l’aborto), quella confessionale mette l’accento non sulla nascita, ma sulla trascendenza del concepimento, che è invece un dogma. Chi abortirebbe il figlio di Dio?
Si propone dunque alla Repubblica, ovvero a tutti gli italiani, di trasformare la più ardua delle credenze (partorire da vergine) in una festa politica, per giunta molto di parte. Ennesima conferma che la componente cattolico-reazionaria, in questo governo, è quella più aggressiva. (la Repubblica, 17 novembre)
libertà di coscienza ma non di disinteresse (il potere di nominare o escludere)
Si sente spesso dire in questo periodo di campagna elettorale che "ai cittadini non interessa le legge elettorale, alla gente interessano i problemi quotidiani di ogni giorno ... prezzi, energia, siccità, ambiente". Questo è vero, ma è altrettanto vero che l'efficienza di un sistema politico invoglia la gente a partecipare, ad appassionarsi, a contribuire direttamente a scegliere i propri rappresentanti perché sappiano davvero risolvere i loro problemi. La legge elettorale in vigore definita "rosatellum", figlia di una precedente chiamata "porcellum”, fa purtroppo di tutto per impedire reali scelte dei cittadini. Infatti gran parte dei membri del Parlamento che si costituirà dopo le elezioni del 25 settembre, sono frutto di scelte dei partiti o movimenti, fatte a tavolino. Più che di eletti dovremmo parlare di nominati.
Il votante non ha la possibilità di scegliere il proprio rappresentante, ma solo il simbolo della lista.
I due terzi dei membri sono infatti eletti in modo proporzionale fra listini plurinominali bloccati (circa i candidati) e un terzo in collegi uninominali maggioritari in cui vince il candidato che ha più voti. Peccato che il "rosatellum" non prevede la possibilità di voto disgiunto e quindi se voto solo la lista, voto anche per il candidato uninominale corrispondente e se voto il candidato, lo stesso voto vale per la lista o coalizione che lo appoggia.
Inoltre i listini per la parte proporzionale non prevedono le preferenze. Questo significa conoscere già gran parte dei candidati che verranno eletti, prima ancora dello spoglio delle relative schede (dipende dalle statistiche sui voti presi in passato in quella zona da ciascun partito).
Semplificando, si passa dalla prima posizione nella lista che significa certamente eletto, al numero tre quattro che sono solo candidature di facciata. Molti nomi sono solo tappezzeria per abbellire un impianto che gli stessi politici avevano definito nella prima versione "porcellum".
I protagonisti, nella scelta di queste pedine come fossero damine sulla scacchiera della competizione politica, sono i capi popolo o capi partito che hanno demolito un altro principio cardine del parlamento e cioè il legame stretto del candidato con il territorio da cui viene eletto.
Ritroviamo allora candidati bergamaschi su Milano o Como e in bergamasca gente paracadutata da chissà dove ... Se chiedessimo ad un elettore qualche notizia più approfondita sul candidato all'uninominale o proporzionale del simbolo che intende votare... Ci sarebbero molte sorprese.
Infine “la ciliegia” offerta dalla legge elettorale è la possibilità di occupare per lo stesso candidato fino a 6 posizioni diverse (1 uninominale e 5 nelle circoscrizioni plurinominali) con la possibilità per questi super privilegiati di perdere nell'uninominale ed essere comunque eletti nel nuovo parlamento contraddicendo la volontà degli elettori di quel territorio.
Tutto questo non incoraggia i cittadini a partecipare e se guardiamo alle ultime tornate elettorali il primo partito non è la destra, non è il centro e nemmeno la sinistra.
Al numero uno c'è chi intende astenersi, magari con motivazioni diverse, ma purtroppo in aumento e con disgusto/rassegnazione per la politica.
Ma come ridurre il disinteresse e la rassegnazione che sono dilaganti anche in altri ambiti? Certamente aiuta ricordare che La politica è l’arte di occuparsi della “città dell’Uomo” , occuparsi dei problemi concreti e dei valori, per favorire il Bene comune e il contributo di ciascuno è un piccolo segno in un grande disegno. Per un cittadino e un cristiano è quindi importante votare, come dice il Card Zuppi, perché dovrebbe sempre "aver a cuore la vita delle persone e il suo prossimo". Per questo "libertà di coscienza non deve mai diventare libertà di disinteresse" perché qualsiasi sia la legge elettorale, bella o brutta che sia, il disinteresse e l'indifferenza finiscono per favorire i pochi a scapito dei molti. Quei pochi che poi , in virtù di un sistema democratico, potrebbero scambiare il bene comune, solo con i propri interessi.
CC
il Papa e il patriarca Kirill
Dopo venti giorni dall’inizio della guerra in Ucraina, Papa Francesco ha chiesto, attraverso il segretario di Stato vaticano Parolin, un incontro a Putin, che però non ha ancora risposto al messaggio. Questa è una delle rivelazioni fatte dal pontefice nell’intervista di Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera. Il Papa, che si è detto pronto ad andare a Mosca, ha ricordato che a dicembre aveva sentito il presidente della Russia per il suo compleanno, ma questa volta non l’ha chiamato, preferendo telefonare il primo giorno dell’invasione al presidente ucraino Zelensky e andare dall’ambasciatore russo, al quale ha detto «per favore, fermatevi». A chi gli chiede una visita simbolica a Kiev, risponde: «Io sento che non devo andare. Io prima devo andare a Mosca, prima devo incontrare Putin». Il racconto del suo confronto con il patriarca Kirill, che ora ha più la parvenza di uno scontro è sconfortante. La chiamata di quaranta minuti via zoom si è aperta con il capo della Chiesa ortodossa russa che ha letto tutte le giustificazioni alla guerra, alle quali il Papa ha replicato: «di questo non capisco nulla». Ecco, dunque, le parole più dure della sua intervista: «Noi non siamo chierici di Stato, non possiamo utilizzare il linguaggio della politica, ma quello di Gesù. Siamo pastori dello stesso santo popolo di Dio. Per questo dobbiamo cercare vie di pace, far cessare il fuoco delle armi. Il patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin». Papa Francesco si dice pessimista perché per la pace non c’è abbastanza volontà: prima era la Crimea e poi il Donbass, ora Odessa e in futuro la Transnistria. Occorre dunque fare ogni gesto possibile perché la guerra si fermi.
La storia dell'ebrea tedesco-polacca Edith Stein è segnata dalle due guerre mondiali, dall'antisemitismo e dalla morte nel «lager». Nata 130 anni fa, il 12 ottobre 1891 a Breslavia (Wrocław in polacco), riceve una formazione di tutto rispetto. Accede all'università, studia filosofia e diventa assistente di Edmund Husserl, il padre della fenomenologia. Ma è inquieta: abbandona la religione ebraica; anni si professa atea; si converte al Cattolicesimo: si fa battezzare 100 anni fa il1° gennaio 1922. Attratta da Santa Teresa d'Avila, ammira e studia il rinnovamento liturgico che fiorisce nelle abbazie benedettine: è incerta se diventare carmelitana o entrare nel monastero benedettino; alla fine sceglie il Carmelo. Il nome religioso, Teresa Benedetta della Croce, reca evidenti tracce del duplice amore a Teresa d’Avila e a Benedetto. Nelle sue opere è debitrice al filosofo di Husserl e al teologo San Tommaso d’Aquino. Fiera oppositrice del nazismo, per proteggerla è trasferita nel Carmelo di Echt nei Paesi Bassi. Dopo la lettera dei vescovi olandesi contro il razzismo nazista, si scatena la vendetta di Hitler. È deportata ad Auschwitz e ha piena coscienza di partecipare al destino di Israele: il 9 agosto 1942, ottant’anni fa, è uccisa nella camera a gas.
Il Consiglio comunale di Wrocław proclama il 2022 «anno di Edith Stein» e celebra il centenario del Battesimo e l’80° del martirio ad Auschwitz. Per Giovanni Paolo II - che la beatificò nel 1987 e la canonizzò nel 1998 – è patrona della riconciliazione e, con la sua conversione, lega i due mondi, ebraico e cristiano, Gerusalemme e Roma. La sua vita si incrocia con lo straordinario panorama multiculturale che è Breslavia, tedesca fino a prima della Seconda guerra mondiale e poi polacca, abitata da tanti profughi. Di Breslavia è anche Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano, anche lui vittima dei campi di sterminio nazisti. Il vescovo Jacek Kiciński inaugura l’anno di Edith Stein con una Messa nella parrocchia San Michele, quella della famiglia, dove Edith fu battezzata e va a pregare. Ricorda il vescovo: «Proveniva da una famiglia religiosa ebraica. Con il Battesimo cattolico, divenne discepola di Gesù Cristo. Non è stato un momento facile per lei, per la sua famiglia, soprattutto per la madre. Edith Stein è andata per la sua strada, la via della scienza, e Gesù è rimasto su quella strada».
Atea, a 20 anni è costantemente alla ricerca della verità. Dopo il Battesimo, continua il suo percorso di fede e di ricerca che la porta a entrare nel Carmelo nel 1933 a 41 anni. Continua il vescovo di Breslavia: «Ringraziamo Dio per i 130 anni della sua nascita, per i 100 anni dell’accettazione della fede con il Battesimo, per gli 80 anni dalla sua morte per mano dei nazisti». Mente brillante, disserta sull'empatia, sullo Stato e sulla nozione di popolo. Durante la Grande Guerra (1914-18), lascia tutto e abbandona i libri per fare l'infermiera volontaria nell’ospedale militare di Mährisch-Weisskirchen, in Austria, pieno di malati e feriti: «Ora non ho più una vita mia». Si iscrive a un corso di infermeria nell'ospedale in cui lavora la sorella Erna, decisa ad andare a servire il suo popolo in guerra. Gli uomini partono soldati. Lei non vuole essere da meno, consapevole di non voler restare indifferente alla tragedia che sta accadendo: «Funestissima guerra» la definisce Pio X; «Inutile strage» per Benedetto XV. La madre, severa vedova che porta avanti la famiglia dopo la morte del padre, si oppone ma lei ci va ugualmente e mentre prepara la valigia, la madre la aiuta nei preparativi.
Anche un professore di greco cerca di dissuaderla dicendole che la reputazione delle infermiere in quegli ospedali non è buona. Nonostante tutto, Edith parte e racconta: «Mi è stato assegnato il padiglione dei malati di tifo. Due settimane dopo la permanenza in quel padiglione mi è toccato il servizio notturno. La prima notte ero piena di paura per assistere un moribondo. Ho avvisato il medico di guardia e ho fatto un’iniezione. Era la prima volta che vedevo morire qualcuno». Presta servizio anche in sala operatoria e vede morire uomini nel fiore degli anni. Quando l'ospedale militare chiude, segue il filosofo e maestro Edmund Husserl a Friburgo, dove consegue il dottorato con una tesi sull'empatia. Poi la brillante filosofa, già ebrea, poi atea, conosce il Cristianesimo, riceve il Battesimo e nel 1934 entra nel Carmelo di Colonia. In pieno delirio nazista finisce ad Auschwitz dove è uccisa il 9 agosto 1942.
Giovanni Paolo II la beatifica nel Duomo di Colonia il 1° maggio 1987, «una figlia d'Israele che, durante le persecuzioni dei nazisti, è rimasta unita con fede e amore al Signore crocifisso Gesù Cristo, quale cattolica e al suo popolo quale ebrea». La canonizza in piazza Ssn Pietro l’11 ottobre 1998 e un anno dopo, il 1° ottobre1999, la proclama co-patrona dell’Europa.
I sei santi patroni dell’Europa – tre uomini e tre donne - coprono la geografia, la storia, la cultura del Vecchio Continente. Sei campioni dell’anima cristiana. Dall’italiano Benedetto da Norcia (480 -547), iniziatore del monachesimo occidentale, ai fratelli greci Cirillo (827-869) e Metodio (825-885), evangelizzatori dei popoli slavi; dalle quasi coetanee Brigida di Svezia (1303-1373) e Caterina da Siena (1347-1380) alla tedesco-polacca Edith Stein (1891-1942). Ciò «significa porre sull'orizzonte del Vecchio Continente un vessillo di rispetto, tolleranza e accoglienza, che invita uomini e donne a comprendersi e ad accettarsi al di là delle diversità etniche, culturali e religiose, per formare una società fraterna».
Pier Giuseppe Accornero
- dedicato a Luciano, nostro commensale alle Eucarestie domenicali: ha lasciato questa terra per incontrare Colui in cui ha creduto e sperato sino alla fine della sua malattia, dandoci esempio di vita_
'Paesaggio invernale' di Caspar David Friedrich, una delle figure principali dell'arte romantica tedesca, mostra un paesaggio innevato in cui un uomo, avendo messo da parte le stampelle, giace contro un grande macigno mentre prega davanti a un crocifisso splendente ed a tre abeti. La trinità richiama la Trinità cristiana, mentre in lontananza la sagoma di una cattedrale gotica tedesca incombe nella nebbia, le sue guglie riecheggiano la forma degli alberi. Il dipinto offre la speranza della resurrezione attraverso la fede. Ciuffi d'erba spuntano nella neve mentre il debole bagliore rosa dell'alba che si avvicina afferma il messaggio di rinnovamento e rinascita. (testo inviato da D. e C. Castaldello)
Libri
F-X. Nguyen Van Thuan, Cinque pani e due pesci, Ed. s. Paolo, 88 pagg, € 9,oo
“Sono vietnamita; per 8 anni sono stato vescovo di Nhatrang, poi arcivescovo coadiutore di Saigon. Quando sono arrivati i comunisti a Saigon, mi hanno arrestato. Liberato dopo 13 anni, diversi in assoluto isolamento, voglio condividere con voi le mie esperienze: come ho incontrato Gesù in ogni momento della mia esistenza quotidiana, nel discernimento tra Dio e le opere di Dio, nella preghiera, nell’eucaristia, nei miei fratelli e nelle mie sorelle, nella Vergine Maria, offrendovi così anch’io, come Gesù, cinque pani e due pesci”. Di questo ‘martire della fede’ una testimonianza che fa bene alla nostra fede, e alla speranza.
Per me è tempo di appendere la cetra in contemplazione e silenzio. Il cielo è troppo alto e vasto perché risuoni di questi solitari sospiri. Tempo è di unire le voci, di fonderle insieme.
“Sassoli portava il nome di David Maria in onore del poeta, padre David Maria Turoldo. Ho voluto usare i versi di una delle più belle poesie di padre Turoldo per questo momento in cui qui, nella casa della nostra democrazia, è tempo di unire le voci, di fonderle insieme per rendere onore al Presidente del Parlamento europeo, a colui che ha onorato la democrazia europea e l’ha resa il cuore pulsante del nostro organismo proprio durante il tempo della pandemia, nella prova più dura per il nostro continente e i suoi cittadini.
I politici, anche quelli bravi, si dividono in due categorie: quelli che fanno politica accompagnando il corso della storia e quelli che fanno politica cambiando la storia. David Sassoli è stato parte di questa seconda categoria. David, con la sua gentile fermezza, ha cambiato la storia europea, perché ha reso più forte la democrazia in Europa proprio durante la pandemia, quella democrazia che nell’Unione europea spesso è vista come il tallone d’Achille dell’intera costruzione comune.
David, contro una tendenza allora prevalente, scelse di tenere il Parlamento europeo aperto; volle renderlo protagonista in un momento nel quale la cosa più naturale sarebbe potuta essere esattamente il contrario. Mentre non si viaggiava più, tutto si chiudeva e si spegnevano le luci di tante istituzioni, proprio in quel momento il Presidente del Parlamento europeo ha fatto la scelta coraggiosa e lungimirante che ha cambiato il corso della storia. Sassoli ha innovato e ha reso possibile che il Parlamento europeo continuasse a funzionare grazie alla buona applicazione delle nuove tecnologie da remoto, scelta che ha modificato secoli di storia e ha funzionato. (Intervento di Letta alla Camera) inviato da Denise
Una suora birmana è tra le cento donne dell’anno della Bbc ----Nella lista delle cento donne del 2021 stilata dalla Bbc, la televisione pubblica del Regno Unito, è presente la suora cattolica che a marzo si era inginocchiata di fronte alle forze di polizia birmane in tenuta antisommossa, che stavano attaccando i civili mentre questi protestavano per la loro libertà e i diritti umani. Ann Rose Nu Tawng, missionaria di San Francesco Saverio, è stata nominata al fianco di donne che stanno cercando di contribuire al miglioramento della nostra società, come Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice del premio Nobel per la pace, e Fiamē Naomi Mata’afa, la prima donna a essere eletta primo ministro delle Samoa. Nell’elenco di quest’anno colpisce la presenza fortemente voluta di cinquanta donne afghane, alcune delle quali compaiono sotto pseudonimo e senza foto per la propria sicurezza. Infatti, la vita di attiviste, giornaliste, artiste, insegnanti, scienziate, imprenditrici, professioniste, sportive dopo il ritorno del regime dei talebani non è affatto sicura. Anche il paese di suor Ann Rose, il Myanmar, è in una situazione difficile. Ancora una volta è governato, dopo il colpo di stato di febbraio, da una giunta militare, che ha condannato al carcere Aung San Suu Kyi, la quale aveva vinto le elezioni democratiche, e che sta sopprimendo il dissenso bruciando case (e una chiesa, come riporta l’Agenzia Fides) e arrestando dissidenti, anche se solo presunti. Come si legge su Famiglia Cristiana, la missionaria proviene da una famiglia cattolica e appartiene a una minoranza etnica perseguitata, i kachin, che da anni cerca una propria autonomia dal regime centrale. Anche per questa sua condizione si è espressa con quel gesto forte in nome della libertà. La decisione di inginocchiarsi, ha dichiarato, nasce dal fatto di aver visto un paese felice e pacifico diventare un luogo di paura e sofferenza. Suor Ann Rose ha inoltre detto: «Credo che Dio si sia servito di me, nel momento in cui mi sono inginocchiata di fronte ai militari. Mi ha dato forza lo Spirito Santo. Ho potuto farlo solo per la grazia di Dio. […] Credo che il dialogo e il perdono reciproco siano alla base di un paese felice e democratico. Mi affido a Dio perché ci guidi lui e perché illumini chi deve decidere. Io ho la speranza che un giorno avremo la pace e che la giustizia trionferà. Prego per i militari. E non solo io, ma anche le mie consorelle e tutta la chiesa del Myanmar: chiediamo la loro conversione. Anche se spesso si comportano in modo disumano e brutale, nutriamo la speranza che possano cambiare».
Una poesia di Jorge Luis Borges - inviataci da G. Br. – che rimette nel mistero grande di un Uomo che ci è chiesto di riconoscere Salvatore. (vedi in leggere più)
Gv 1, 14 : e il Verbo si fece Carne
Non sarà questa pagina enigma minore
di quelle dei Miei libri sacri
o delle altre che ripetono
le bocche inconsapevoli,
credendole d’un uomo, non già specchi
oscuri dello spirito
Io che sono l’È, il Fu e il Sarà
accondiscendo ancora al linguaggio
che è tempo successivo e simbolo.
Chi gioca con un bimbo gioca con ciò che è
prossimo e misterioso;
io volli giocare coi Miei figli.
Stetti fra loro con stupore e tenerezza.
Per opera di un incantesimo
nacqui stranamente da un ventre.
Vissi stregato, prigioniero di un corpo
e di un’umile anima.
Conobbi la memoria,
moneta che non è mai la medesima.
Il timore conobbi e la speranza,
questi due volti del dubbio futuro.
Ed appresi la veglia, il sonno, i sogni,
l’ignoranza, la carne,
i tardi labirinti della mente,
l’amicizia degli uomini,
la misteriosa devozione dei cani.
Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce.
Bevvi il calice fino alla feccia.
Gli occhi Miei videro quel che ignoravano:
la notte e le sue stelle.
Conobbi ciò ch’è terso, ciò ch’è arido,
quanto è dispari o scabro,
il sapore del miele e della mela
e l’acqua nella gola della sete,
il peso d’un metallo sul palmo,
la voce umana, il suono di passi sopra l’erba,
l’odore della pioggia in Galilea,
l’alto gridio degli uccelli.
Conobbi l’amarezza.
Ho affidato quanto è da scrivere a un uomo qualsiasi;
non sarà mai quello che voglio dire,
sarà almeno la sua eco.
Dalla Mia eternità cadono segni.
Altri, non questi ch’è il suo amanuense, scriva l’opera.
Domani sarò tigre fra le tigri
e dirò la Mia legge nella selva,
o un grande albero in Asia.
Ricordo a volte e rimpiango l’odore
di quella bottega di falegname.
Cari papà, di Massimo Gramellini -
«Mio figlio ha fatto una cavolata, ma è un bravo ragazzo e noi siamo una famiglia perbene». Questa frase è ormai un piccolo classico e si indossa su quasi tutto: risse, truffe, minacce, molestie, atti di bullismo, scippi con destrezza, pirateria stradale. Solo che stavolta a pronunciarla è stato il padre di un adolescente torinese che ha rapinato una farmacia e accoltellato un carabiniere. Da oggi il concetto di «cavolata del bravo ragazzo di famiglia perbene» va dunque esteso alle rapine con accoltellamento, quantomeno. Per adesso rimangono ancora fuori l’aggressione a mano armata e la tentata strage con lancio di granate, ma c’è da scommettere che si troverà facilmente un padre disposto a coprire tale lacuna. (:::) Quando leggo certe notizie e le metto a confronto, mi ritrovo a dare ragione a Ennio Flaiano: «A volte mi vengono in mente pensieri che non condivido».
Le ragioni? non abitano le teste di chi si propone come politico: a destra soprattutto ma anche a sinistra e nell'indefinito di chi si è collocato tra cinque stelle_
«Ddl zan» alla fine i nodi vengono al pettine
D’accordo, dottor Draghi: l’Italia è uno stato laico, non confessionale, e anche per questo è tenuta a rispettare i concordati che ha sottoscritto. Finché ci sono.
Non era mai accaduto e forse sarebbe potuto non accadere. La «nota verbale» della Santa Sede sul disegno di legge Zan che mette in guardia l'Italia su una possibile violazione del Concordato è solo l'ultimo atto di un dibattito che purtroppo ha assunto i toni del conflitto. Ma non siamo affatto arrivati allo scontro. Una «nota verbale» è un invito a riflettere, certamente forte e con un profilo diplomatico «di livello», ma tale resta. Bisogna piuttosto chiedersi perché non si sia avviato per tempo un confronto, come da più parti e da molti mesi era stato chiesto. E non lo aveva fatto solo la Conferenza episcopale italiana, ma tante associazioni laiche e cattoliche, un nutrito gruppo di intellettuali di varia estrazione culturale e politica e alcuni ex presidenti della Corte Costituzionale. Insomma non si tratta di un'ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. Non si hanno notizie di precedenti. Ma non si ha nemmeno conferma del contrario. Il Vaticano, a differenza di altri Paesi, non usa le «note verbali» ai massimi livelli, ma sono abbastanza consuete a livello di nunziature e non vengono rese pubbliche, perché la riservatezza è il segreto per avviare riflessioni più efficaci. Il limite maggiore del testo del ddl è il suo carattere ideologico. In pratica si chiede al legislatore di farsi pedagogo con una legge costruita con troppa presunzione definitoria, spesso costruita sulla base di percezioni, che per ovvie ragioni sono mutevoli, e con elevata discrezionalità dei giudici. Nella discussione sul disegno di legge si è pensato di introdurre una clausola di salvaguardia della libertà di pensiero. E qui si è aggiunto pasticcio a pasticcio, perché si continua a ritenere la condotta rimproverata illecita, quindi frutto di un disvalore, ma non punibile perché frutto della libertà di pensiero. Il punto debole, anzi debolissimo del Ddl Zan è esattamente questo. Se si è ritenuto di dover introdurre una clausola di salvaguardia allora il problema di tutelare la libertà di opinione esiste. E libertà di opinione vuol dire libertà della scienza, della ricerca, libertà dell'insegnamento, tutte libertà laiche garantite dalla Costituzione. Ma c'è anche la libertà religiosa e la libertà di esercizio del magistero della Chiesa cattolica e delle altre religioni riconosciute dal Concordato e dalle Intese con lo Stato italiano. La «nota verbale» non chiede lo stop alla legge, ma di rimodularla. Perché la politica non ci ha pensato prima, invece di seguire l'onda dei social, prigioniera della abilità redditizia (per lui) di un rapper qualsiasi dal gonfio portafoglio? In altri tempi altri uomini a Montecitorio e a Palazzo Madama non sarebbero caduti nella trappola della polarizzazione tra oscurantismo omofobo e limpida cultura dei diritti civili. La banalizzazione di tutto, la scarsa propensione alla complessità dell'attuale classe politica, la carente, se non insufficiente, competenza culturale e giuridica hanno concorso a scrivere davvero male una legge su una materia già di per sé ardua. L'esempio clamoroso è l'art. 10 sull'Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori che prevede la misurazione anche delle «opinioni». Si dovrebbe intendere delle opinioni dei soggetti più esposti al rischio di atti discriminatori, per esempio perché membri di organizzazioni omofobe. Ma non è così e la norma mal scritta si avvicina pericolosamente alla sanzione per semplici riflessioni e atteggiamenti culturali, ancorché sgradevoli e financo disgustosi. Eppure in una democrazia compiuta anche il diritto ad odiare, se non si traduce in atti violenti, è ammesso.
- Bobbio da L’Eco di Bergamo 23.6.’21
Un appello per ricomporre lo scisma tra cattolici e luterani
Cinquecento anni fa si consumava uno degli scismi più dolorosi all’interno della Chiesa: all’inizio del 1521, papa Leone X emanò la bolla di scomunica nei confronti di Martin Lutero e dei suoi discepoli. In occasione dell’anniversario di questa tragica vicenda, il Gruppo di discussione ecumenica di Altenberg, formato da una trentina di teologi di fede protestante e cattolica, ha reso pubblico una dichiarazione per l’abrogazione non solo della bolla papale, ma anche per la ritrattazione del verdetto della Riforma che indicò il papa come l’anticristo. Questo appello, formulato l’anno scorso nasce all’interno di questo gruppo indipendente che ha sede vicino a Colonia. La proposta ha le fondamenta nel dialogo interreligioso sorto dopo il Concilio Vaticano II, che ha permesso una nuova comprensione degli eventi storici, culminata con il consenso sulla dottrina della giustificazione ad Augsburg nel 1999. Nel documento vengono proposte tre tappe. Per prima cosa, viene chiesto a Papa Francesco, consultato il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, di dichiarare che le condanne della bolla di scomunica del 1521 non si applichino ai membri attuali delle Chiese luterane, mentre al presidente D’Musa Panti Filibus e al comitato esecutivo della Federazione luterana mondiale di dichiarare che la condanna del papa come anticristo, della confessione luterana non si applichino al papato attuale e ai suoi collaboratori. Poi, la Conferenza episcopale tedesca, d’intesa con il Comitato centrale dei cattolici tedeschi, e il Consiglio e il Sinodo della Chiesa protestante in Germania vengono esortati a formulare una dichiarazione pubblica comune di pentimento per gli eventi del passato.
Libri
Lì conobbi mio marito, il poeta e regista Nelo Risi. L’amore della mia vita. Alla fine l’ho assistito per dieci anni, un lungo Alzheimer. È stato il più bel periodo della mia esistenza: far nascere ogni giorno un essere umano, assistendolo_ 94 anni Edith Bruck
Il pane perduto, di Edith Bruck, ed La Nave di Teseo, pagg 128 >>> Per non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant’anni dal suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento. Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l’odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed emotive. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza? Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta, infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni. Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del Novecento da raccontare ancora e ancora.
SOS TERRASANTA ---
Le offerte raccolte durante le eucarestie pasquali, oltre ad altre arrivate direttamente sul cc bancario, hanno fruttato la bella somma di 4.170 euro, che da venerdì 21 maggio sono già in Terrasanta a sollievo delle famiglie segnate dalla povertà estrema _ grazie a tutti_
In data 22 maggio, la responsabile (per altro bergamasca) delle Piccole Sorelle di Ch. de Foucauld che operano alla stazione 6^ cui abbiamo inviato le nostre offerte, sapendole in mani sicure, la risposta:
Carissimo Don Attilio, ti ringrazio davvero tanto per la solidarietà che manifesti a questa terra, in questo periodo ben tormentato. Vorrei dirti che abbiamo pensato di in comunità di devolvere interamente la somma che ci hai inviato alla parrocchia di Gaza, di cui conosciamo bene il parroco e le famiglie, cristiane e musulmane, in difficoltà. Grazie a nome di tutti. E grazie di pregare e invitare a pregare ancora per la pace qui. Buona festa di Pentecoste. Maria Chiara
LIBRI
J.M. Laboa, Gesù a Roma, ed Jaca Book, pagg 157 - Per coloro che si sono sentiti espulsi dalla Chiesa o se ne sono allontananti volontariamente, spinti da troppe sovrastrutture che snaturano la presenza di Dio, l'incontro trasparente con Cristo costituisce un annuncio di salvezza. Queste pagine non sono che una parabola gioiosa, disinvolta ma colma di affetto; un'idea di Chiesa vissuta e sentita dal di dentro. Mirano a ricollocare la nostra fede in Gesù, cercando di distinguere tra il nucleo centrale del cristianesimo e tutto quello che i secoli hanno via via depositato nella nostra vita: riti, usanze, stili di vita e istituzioni. Non si tratta di mettere in discussione l'istituzione, ma di verificare se la stiamo usando bene. Un bel libro che consiglio anche a chi anche solo arriccia il naso nei confronti di una Chiesa che non sembra capire l'uomo, perché forse non frequenta più al meglio Gesù e la sua Parola.
Per ritrovare la via del Vangelo e del dialogo a Bose, di Riccardo Larini
(...) Bose è nata da un carisma, un dono, che si è posato su un uomo per certi versi “improbabile”: un giovane studente universitario nato durante la seconda guerra mondiale, formatosi in un contesto familiare difficile e segnato nella sua infanzia da una spiritualità decisamente cattolico-tridentina. Enzo Bianchi tuttavia è stato per davvero un uomo carismatico, nel senso più importante del termine, direi quasi “hegeliano”, ovverosia una persona capace di cogliere, di “sentire”, di intuire lo spirito del tempo e della storia, ciò di cui questa ha profondamente bisogno, e di cercare di incarnarlo con la creatività, la forza e il “demone” dell’artista.
Bianchi ha colto, a mio avviso, due elementi fondamentali di cui c’era e c’è bisogno come l’aria, nelle chiese ma non solo.
Il primo è la centralità del vangelo, rispetto a strutture sia ecclesiali che di vita religiosa e monastica. Dice la Regola di Bose: “Fratello, sorella, uno solo deve essere il fine per cui scegli di vivere in questa comunità: vivere radicalmente l’Evangelo. L’Evangelo sarà la regola, assoluta e suprema. Tu sei entrato in comunità per seguire Gesù. La tua vita dunque si ispirerà e si conformerà alla vita di Gesù descritta e predicata nell’Evangelo” (§ 3). Il vangelo è talmente importante che, sebbene si riconosca la necessità di strutture di autorità e di ordine umano in seno alla comunità, nel capitolo dedicato all’obbedienza si afferma in maniera fondamentale (e per me è stato un elemento decisivo nella mia decisione di diventare monaco a Bose): “L’Evangelo resta per te, per gli altri, per la comunità intera la sola legislazione ispiratrice di decisioni. Se tu puoi invocarlo contro una decisione della comunità, è tuo dovere assoluto farlo” (§ 27 – corsivo mio). Il vangelo, dunque, non cancella la libertà di nessuno, ma invita ciascuno a farlo proprio, personalmente, radicalmente, profondamente, quale unica via per rendere sacra la propria vita e desacralizzare per contro (senza negarne l’esistenza o la necessità) ogni altra cosa, comprese le strutture comunitarie ed ecclesiali.
Il secondo, in un certo senso collegato al primo e che ne esprime la portata, l’afflato universale, è la comprensione che il monachesimo in radice è laico, non legato a specifiche strutture ecclesiali o forme particolari di vita “religiosa”. Se infatti l’unica ragione incrollabile che sorregge la vocazione monastica è quella della radicalità evangelica, allora il monachesimo è aperto per sua natura a cristiani di ogni chiesa ed è un segno per la chiesa e le chiese tutte della forza riconciliatrice e unificante del vangelo. L’ecumenismo è la “seconda gamba” naturale del monachesimo così inteso.
Queste due intuizioni sono state approfondite a Bose, sulla scia di quanto indicato di fatto a tutte le chiese dal concilio Vaticano II, alla luce delle Scritture e della tradizione (e le tradizioni) di ogni comunità cristiana che ha preceduto la stessa Bose, realtà studiate tutte con rigore, passione e creatività dai fratelli e dalle sorelle unitisi a Enzo Bianchi, sia da quelli dalla professione più “intellettuale”, sia da chi lavorava manualmente. E attraverso Scritture e tradizione(i), lungi dal cadere in una pura “teologia dialettica” di contrapposizione con il mondo, Bose ha scavato nell’umano, fino a diventare luogo di accoglienza universale, in cui tutti si sentivano profondamente a casa, come in pochi altri luoghi (in Italia mi viene in mente Camaldoli, in tal senso).
Quando entrai a Bose, quasi trent’anni fa, fui il 47° membro a unirsi alla comunità. Quello che mi colpì e mi aiutò a decidere a fermarmi, e a fermarmi piuttosto a lungo (sono stato monaco per 11 anni), fu la collezione di personalità e retroterra decisamente diversi dei membri della comunità. C’era chi veniva da un cattolicesimo molto tradizionale, chi veniva dal mondo post-sessantottino, c’erano nobili e muratori, giovani intellettuali e macellai, contadini e artisti, femministe e donne dal retroterra più tradizionalista. Ma il linguaggio unificante del vangelo compiva il miracolo visibile, affascinante, di un’umanità riconciliata.
Senza entrare nei dettagli della mia vocazione (non sono incline alla pornografia o all’esibizionismo spirituali), mi limito a citare questi elementi, assieme al dato che per me fu essenziale: il poter vivere congiuntamente radicalismo evangelico e libertà personale e umana. Io ero stato educato in una famiglia libera e laica, ma in un paese e un contesto cattolici. Fin da ragazzo ero stato affascinato dalla figura e dal messaggio di Gesù di Nazareth, ma la mia passione per la conoscenza e soprattutto per il pensiero mi avevano sempre lasciato perplesso di fronte alla dottrina e alle strutture del cattolicesimo. Il Vaticano I, per me, aveva segnato un ostacolo che mai, in vita mia, sono riuscito a superare, e che ora ho intellettualmente e pienamente rigettato (come ho spiegato altrove, in una sorta di itinerario alla Newman all’incontrario). Ma a Bose si poteva vivere una vita pienamente cristiana anche senza dogmatismi (non senza teologia o profondità!), alla costante ricerca del vangelo, e questa, per me, era aria pura.
Come si può desumere, io a Bose devo tantissimo, e ancor di più devo a Enzo Bianchi. È lui ad avermi avviato alla professione di traduttore, a cui manco avevo pensato prima che lui me lo chiedesse, e che poi mi ha dato spesso non solo da vivere, ma anche la libertà di dire no a proposte di lavoro inadeguate, o di lasciare professioni non più compatibili con il mio spirito. Come me sono in tantissimi ad aver scoperto i propri doni, i propri talenti, sotto la sua guida sapiente e sempre volta a far crescere il prossimo. Alla comunità e all’atmosfera che vi regnava devo l’aver imparato in profondità a studiare per saziare la mia sete di conoscenza, e a fermarmi a pensare per mettere in discussione qualsiasi cosa e riprenderla sotto angolature differenti. A Bose ho acquisito metodo e strumenti che mi hanno reso quello che sono, e non potrò mai dimenticarlo.
Perché ho lasciato Bose, mi direte? In passato ne ho parlato con pochissimi, ritenendola una cosa intima. Col tempo – e alla luce delle vicende attuali – mi sono convinto di poter aiutare a capire varie cose parlandone. Ho lasciato la comunità, fondamentalmente, per una questione personale: perché sentivo di non poter più accettare l’obbedienza monastica senza finire per spegnermi. Perché malgrado la centralità del vangelo anche per quanto riguarda l’obbedienza, in una comunità monastica di tipo cenobitico bisogna limitare la propria libertà o utilizzarla soprattutto per assecondare e sviluppare un progetto comunitario. Non è una questione di violenza psicologica, ma molto semplicemente della concezione che sta alla base del cenobitismo.
Inutile negare che, in parte, non vi fu solo questo”problema mio” (peraltro decisivo), ma anche alcune direzioni dell’evoluzione comunitaria.
Volente o nolente, infatti, Bose già a cavallo dell’anno 2000 stava diventando maggiormente “monastero” e maggiormente “cattolica”. Quando ero entrato si diceva a ospiti e visitatori che Bose era una comunità ecumenica, non appartenente di per sé ad alcuna confessione cristiana, e i cui membri continuavano ad appartenere alle rispettive chiese che li avevano generati a Cristo mediante il battesimo. Quando la lasciai già si usava maggiormente il termine monastero, la narrazione sul continuare ad essere membri della chiesa di origine veniva spesso sorvolata, e si incominciava a discutere un inquadramento canonico, che in seguito diventerà palesemente cattolico.
Su questo vorrei essere molto chiaro: nel 2005, quando me ne sono andato, Bose veniva da 40 anni vissuti in maniera estremamente feconda con il solo ausilio formale della sua Regola (una collezione tematica di citazioni evangeliche), senza alcun profilo canonistico e solamente con una minima strutturazione civilistica per gestire le proprietà comuni. Dire che per vivere il vangelo (o anche il monachesimo) è necessario di più è in realtà falso, anche in un contesto cenobitico, e forse si tratta di un elemento che dovrebbe portarci a ripensare profondamente qualsiasi idea di “vita religiosa”. A me fu chiesto di stendere una prima bozza di statuto, che pur essendo pensato nel senso di un’associazione di fedeli riservata ai soli membri cattolici (fatto già un po’ ambiguo o rischioso), segnava a mio avviso una transizione e un mutamento decisivi. Con molta pace, e senza polemica alcuna, devo dire che ritengo siano lì siano le radici del passaggio dal definirsi “comunità ecumenica di Bose” a “monastero di Bose”, del parlare sempre più di monaci e di monache invece che di fratelli e di sorelle, dell’enfatizzare la forma di vita monastica piuttosto che il radicalismo evangelico, dapprima da parte di alcuni in comunità, e poi della maggioranza.
Anche la tipologia degli ospiti e delle persone legate alla comunità è mutata secondo linee analoghe. In tal senso vorrei riprendere la definizione resa celebre da Massimo Faggioli della “generazione Bose”, per dire che in realtà ci sono state fino ad oggi almeno due “generazioni Bose”, la prima caratterizzata dal tipo di persone che erano legate alla comunità fino a fine anni Novanta, e la seconda dovuta all’enorme crescita di popolarità di Enzo Bianchi e della comunità tutta dagli inizi del nuovo millennio. Io appartengo alla prima, in cui nessuno si sarebbe mai sognato di definirsi cattolico prima che cristiano, in cui il vangelo era sicuramente al di sopra di ogni possibile dottrina, in cui l’ecumenismo significava una conversione radicale, e anche strutturale, di tutte le chiese, e in cui nessuno avrebbe speso molte energie a difendere aspetti oscuri o problematici della propria “chiesa” o “confessione cristiana”.
La comunità, a inizio anni 2000, aveva già iniziato a cambiare, a compiere scelte che, per me, risultavano sempre più estranianti. Di conseguenza, sebbene Enzo Bianchi credesse molto nel mio possibile e positivo contributo a una transizione efficace dalla comunità del fondatore a una realtà più indipendente e sinodale (per questo mi aveva chiesto di aiutare la comunità a definire, nel capitolo del 2002, possibili cammini di crescita nella sinodalità), avvertii che da persona al cuore della comunità (ero appena diventato segretario del capitolo) col tempo avrei finito per essere un intralcio.
Non mi sento in colpa per non avere continuato a contribuire direttamente alla vita comunitaria dopo il 2005 (pur essendo tornato a più riprese a insegnare ecumenismo ai novizi). Come dissi al priore, comunicandogli che avrei lasciato: “Se uno sente di spegnersi in una struttura, finirà per trasformarsi da risorsa (come sono stato fino ad oggi) a problema”. Non chiesi una soluzione “economica”, di eccezione personale (che pure, ne sono certo, Bianchi mi avrebbe concesso). Anzi, sono abbastanza fiero della mia scelta, che non fu di rottura ma di mantenimento della comunione in altre forme, rispettose di parziali divergenze di cammini.
E a questo punto vorrei parlare del fondatore di Bose, un personaggio, come direbbero gli inglesi, bigger than life, “più grande della vita”, ossia impossibile da racchiudere in categorie o clichés, una miscela di amore derbordante e di inarrestabile determinazione, non privo di difetti e tuttavia ancor più carico di pregi. Enzo Bianchi ha compiuto abusi psicologici? Siccome il nucleo di coloro che, nei corridoi e tramite veline alla stampa (e mai pubblicamente!), lo accusano di una simile “abitudine”, ha fatto passare la narrazione che essa sarebbe perdurata fin dagli inizi della storia bosina, mi sento di essere autorizzato a offrire alcuni importanti chiarimenti e smentite.
Negli anni che sono stato a Bose, e immagino anche dopo, il priore aveva l’ultima parola su tutto. Bisogna intendersi, però: è un uomo che, oltre ad avere dei “fedelissimi”, degli amici in senso più stretto tra i suoi confratelli, amava circondarsi di personalità forti e anche dalle idee diverse dalle sue, come gran parte di coloro che si erano uniti al cammino comunitario dagli inizi fino agli anni Novanta, a cui non negava spazio e che raramente si sentivano dire dei no. Certo, vivendo con un uomo capace di pensare e agire a velocità superiori a quelle della combinazione di diverse persone ordinarie messe insieme, era normale che le sue idee, la sua spinta creativa, fossero sufficienti ad assorbire e impiegare gran parte delle energie comunitarie, lasciando uno spazio relativo alle iniziative dei singoli.
Però questo è sempre stato chiaro, senza ipocrisie, e chi entrava a Bose lo sapeva dal primo giorno. Per contro, tutti e ciascuno potevano vivere la gratificazione enorme di sentirsi parte di qualcosa di grande, di collettivo, in cui il duro lavoro comunitario e personale cooperava a un bene immenso. Non ricordo di aver mai vissuto un senso di appagamento più grande nella mia vita: pur lavorando una decina di ore al giorno (spesso anche durante il fine settimana), trascorrendone un paio negli uffici di preghiera e un altro paio ad accogliere e ascoltare ospiti (e il tempo rimanente da sveglio a studiare), ero felice perché colmo di senso e di fraternità.
Enzo indirizzava tutti a un lavoro, perché era convinto della fondamentale dignità del lavoro umano, del suo renderci fedeli alla terra e solidali col mondo. E faceva fiorire le persone. Tanto che, fino al 2004, il tasso di abbandoni era bassissimo, e il fiorire di fraternità molto belle (finché lui ha presieduto la comunità) è stato un segno della positività di fondo dell’impresa bosina. Il celibato, realmente possibile in senso “positivo” solo laddove il vuoto viene colmato di un senso diverso, più profondo, funzionava: nei miei undici anni, a parte un fratello e una sorella andati via e poi sposatisi (cosa che non comporta in me alcuno scandalo!), percepivo molto equilibrio e nessuna frustrazione nel vivere questa dimensione.
Tutto roseo? Il punto non è questo, ovviamente, e difetti in comunità ce n’erano. Le donne, in un certo senso, hanno sempre avuto un ruolo subalterno, come del resto in tutta la chiesa cattolica e anche nel dopo-Bianchi a Bose (anche se almeno a Bose alle donne è sempre stato dato il ministero della predicazione, segno profetico non da poco). Il peso del lavoro, col crescere delle attività, era diventato notevole, e forse si sarebbe dovuto vigilare maggiormente sul delicato equilibrio tra surplus di senso e di gratificazione da un lato, e il rischio di burnout di diversi fratelli e sorelle dall’altro. Lo sviluppo di un autentico cammino sinodale ha sempre stentato (e stenta tuttora, in forme diverse e forse ancor più preoccupanti), la comunicazione sana e umana probabilmente era ed è insufficiente, dato che forse in troppi si sentivano e si sentono tenuti dal silenzio monastico a non comunicare difficoltà e problemi. A questo si aggiunge che, probabilmente, il fondatore di Bose, negli ultimi anni del suo priorato, non è più riuscito a trasmettere, soprattutto alle giovani generazioni, l’entusiasmo di un tempo, forse perché il suo ministero si era allargato (legittimamente) oltre Bose, senza che si individuassero forme veramente adeguate di transizione dell’autorità e del carisma bosino.
Va detto inoltre, a quanto ho capito già quando ero ancora a Bose, che soprattutto negli ultimi quindici anni, col mutare del profilo dei visitatori della comunità cui ho fatto cenno, è cambiato anche il profilo di coloro che bussavano alla porta del monastero chiedendo di iniziare un cammino monastico. Prima l’attuale priore, Luciano Manicardi, e poi un fratello in seguito andatosene dalla comunità, avevano assunto l’incarico di maestro dei novizi, e il “reclutamento” e la formazione non erano più riusciti a compaginare le mutate sensibilità delle nuove generazioni con gli stili comunicativi e di vita vigenti a Bose (che indubbiamente avrebbero dovuto essere cambiati). Nelle mie visite a Bose la sentivo ormai avviata a diventare un normale monastero cattolico, e non più uno spazio profetico in cui laici cristiani di ogni confessione potevano vivere insieme sotto la guida dell’ “evangelo e nient’altro”. Si parlava un po’ troppo di “vita monastica”, e meno di “vita cristiana”.
Lo stesso attuale priore Manicardi non aveva mai mostrato, in molti anni, alcun interesse o comprensione particolari per l’ecumenismo, ma la cosa, di per sé, non mi turbava particolarmente: pensavo fosse comunque un uomo attento ad ascoltare fratelli e sorelle, e del resto la comunità non era più “mia”, e dovevo accettare di vederla cambiare a prescindere dai miei gusti, purché il vangelo fosse ancora al centro di ogni discorso e soprattutto della vita. (...)
Cellole, una splendida pieve romanica a due passi da San Gimignano. Alla fin fine un meglio “esilio” dove trovarlo?
… durante la solita passeggiata siamo giunti a Cellole … deserta silenziosa e muta come non mai …quanti pensieri e ricordi di una comunità viva fraterna e ospitale … anche il gattorespira la mancanza della comunità cercandoci con insistenza ... un tuffo al cuore trovare ammucchiati in un angolo come "roba vecchia" i segni e simboli di Bose ... uno sguardo in chiesa, unico luogo aperto, per una profonda e invocante preghiera ...a Luciano che deve guidare con saggezza una comunità lacerata ... a Enzo fondatore e ormai anziano monaco privato della sua creatura ... a fratel Davide e gli altri membri della comunità di Cellole ... improvvisamente catapultati in altri luoghi ... a tutti un ricordo per le sofferenze personali del tempo presente ...nella certezza che oltre il mistero e il buio splenderà per tutti il tempo della gioia ....la gioia di un ritorno alla fraternità fra uomini e donne che continuano a credere, sperare e confidare nell'unico Gesù nostro Signore. Claudio
Anche la vita monacale è talora attraversata dalle “tenebre”. Come nella comunità di Bose, fondata nel 1965 da fratel Enzo Bianchi, un’icona del progressismo cattolico, autore di libri di successo, in buoni rapporti con papa Francesco almeno fino a un paio di anni fa, quando era ancora in odore di nomina cardinalizia. Scoppiano contrasti laceranti alla nomina del nuovo priore, Luciano Manicardi. Occorre una ispezione dell’apposita Congregazione romana. Risultato? Un decreto di allontanamento definitivo di Bianchi, che si dice addolorato ma non si muove disubbidendo fino ad oggi al provvedimento. Ora un ultimatum: entro una settimana esca da Bose e vada a Cellole, con i tre o quattro frati (su un’ottantina della comunità) che vogliono stare con lui. Ma non più con la denominazione del monastero del biellese, ma come nuova fraternità. Come scritto a suo tempo su questo sito (vedi daQui mese di maggio e giugno 2020), la stima per Enzo non può nascondere una certa amarezza: per la sua disobbedienza, perché tale è - al di là di ragioni e torti che non tocca agli esterni districare. Nella vita monastica dovrebbe mostrarsi il massimo dell’obbedienza cristiana. Enzo è mancato a questa esemplarità per tutti noi esterni che bussiamo ai monasteri per averne sostegno. (ab)
lettera del vescovo Matteo Zuppi alla Costituzione
Cara Costituzione,
Sento proprio il bisogno di scriverti una lettera, anzitutto per ringraziarti di quello che rappresenti da tanto tempo per tutti noi.
Hai quasi 75 anni, ma li porti benissimo!
Ti voglio chiedere aiuto, perché siamo in un momento difficile e quando l’Italia, la nostra patria, ha problemi, sento che abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare.
E poi che cosa ci serve litigare quando si deve costruire?
Come cristiano la luce della mia vita è Dio, che si è manifestato in Gesù.
E’ una luce bellissima perché luce di un amore, esigente e umanissimo, che mi aiuta a vedere la storia dove Dio, che è amore, si manifesta.
Mi insegna ad amare ogni persona, perché ognuno è importante.
Mi chiede di farlo senza interessi perché l’unico interesse dell’amore è l’amore stesso, quindi gratuitamente, senza convenienze personali, in maniera universale. Fratelli tutti!
E questo, in un mondo che si è fatto piccolo e con tanti cuori troppo ristretti perché pieni di paura e soli.
Penso ci sia bisogno di questa luce, anche nelle Istituzioni, perché dona speranza, rende largo e umano il cuore, insegna a guardare al bene di tutti perché così ciascuno trova anche il suo.
Stiamo vivendo un periodo difficile.
Dopo tanti mesi siamo ancora nella tempesta del COVID. Qualcuno non ne può più.
Molti non ci sono più.
All’inizio tanti pensavano non fosse niente, altri erano sicuri che si risolvesse subito tanto da continuare come se il virus non esistesse, altri credevano che dopo un breve sforzo sarebbe finito, senza perseveranza e impegno costante.
Quanta sofferenza, visibile e quanta nascosta nel profondo dell’animo delle persone!
Quanti non abbiamo potuto salutare nel loro ultimo viaggio! Che ferita non averlo potuto fare! Sai, molti di quelli che ci hanno lasciato sono proprio quelli che hanno votato per i tuoi padri. Anche per loro ti chiedo di aiutarci. Quando penso a come ti hanno voluta, mi commuovo, perché i padri costituenti sono stati proprio bravi!
Erano diversissimi, avversari, con idee molto distanti eppure si misero d’accordo su quello che conta e su cui tutti - tutti - volevano costruire il nostro Paese. Vorrei che anche noi facessimo così, a cominciare da quelli che sono dove tu sei nata.
C’era tanta sofferenza: c’era stata la guerra, la lotta contro il nazismo e il fascismo e si era combattuta una vera e propria guerra fratricida.
Certo.
Non c’è paragone tra come era ridotta l’Italia allora e come è oggi! Tutto era distrutto, molte erano le divisioni e le ferite.
Eppure c’era tanta speranza. Adesso ce n’è di meno, qualche volta penso – e non sai quanto mi dispiace! – davvero poca.
Non si può vivere senza speranza! Quando sei nata c’erano tanti bambini e ragazzi, quelli che ora sono i nostri genitori e nonni. Vorrei che ci regalassi tanta speranza e tanti figli, tutti figli nostri anche quelli di chi viene da lontano, perché se abbiamo figli possiamo sperare, altrimenti ci ritroviamo contenti solo nel mantenere avidamente quello che abbiamo, e questo proprio non basta e in realtà non ci fa nemmeno stare bene.
Cara Costituzione, tu ci ricordi che non è possibile star bene da soli perché possiamo star bene solo assieme.
Tu ci ricordi che dobbiamo imparare che c’è un limite nell’esercizio del potere e che i diritti sono sempre collegati a delle responsabilità collettive: non va bene che la persona - che tu ritieni così importante, che tu difendi e di cui vuoi il riscatto da ogni umiliazione - si pensi in maniera isolata e autosufficiente.
I diritti impongono dei doveri. Ognuno è da te chiamato a pensarsi, progettarsi e immaginarsi sempre insieme agli altri.
Tu, infatti, chiedi a tutti di mettere le proprie capacità a servizio della fraternità, perché la società come tu la pensi non è un insieme di isole, ma una comunità tra persone, tra le nazioni e tra i popoli.
Fondamentale l’art. 2 in cui parli dei diritti inalienabili dell’uomo, di ogni uomo non solo dei cittadini e dei doveri inderogabili di solidarietà.
Ci ricordi (art. 4) il dovere, per ogni cittadino, di impegnarsi in attività che contribuiscano al progresso sociale e civile.
Si tratta di due dei “principi fondamentali”, che fanno parte del volto e dell’anima della Repubblica.
Per te la libertà (e tu sapevi bene cosa significava non averla e combatti contro ogni totalitarismo, non solo ideologico, ma anche economico, militare o giudiziale) non è mai solo libertà da qualcosa ma per qualcosa. Nell’art. 4 affermi infatti che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta (quindi in piena libertà di risposta alla propria vocazione), una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, trasformando così tutte le “libertà da” - elencate soprattutto, ma non solo, dall’art. 13 all’art. 25 - “in libertà per”. Certo, purtroppo per questo la fratellanza è rimasta spesso indietro, perché senza essere liberi per qualcosa e per gli altri abbiamo finito per costruire una libertà distorta, che tradisce la vera uguaglianza.
Tu ci dici che siamo uguali (art. 3), ma non è una enunciazione vaga, perché ci dici anche che uno dei compiti primari dello Stato è rimuovere gli ostacoli nella vita delle persone e del loro sviluppo esistenziale e civile (artt. da 35 a 38 e poi 41 e 42). In sostanza ci dai il fondamento di una società basata su una vera fratellanza ed eguaglianza e non solo una fredda e impersonale imparzialità.
Cara Costituzione, abbiamo tanto bisogno di serietà e i tuoi padri ce lo ricordano.
Spero proprio che noi tutti - a partire dai politici - sappiamo far tesoro di quello che impariamo dalle nostre sofferenze, cercando quanto ci unisce e mettendo da parte gli interessi di parte, scusa il gioco di parole.
Abbiamo bisogno di vero “amore politico”!
Tu ci rammenti che non possiamo derogare dai doveri della solidarietà (art.2) che sono intrecciati con i diritti.
Questi esistono e si sviluppano
(insieme alla personalità) nei gruppi sociali intermedi tra l’individuo e lo Stato: la famiglia, prima di tutto, ma anche le associazioni e i gruppi sociali, religiosi, ecc.
Per te l’unità prevale davvero sul conflitto (artt. 10 e 11).
La stessa salute va curata - altro che vivere come viene: siamo davvero responsabili gli uni degli altri! (art. 32) - perché la salute non è solo un fondamentale diritto dell’individuo, ma interesse dell’intera collettività.
Questo non vale solamente per difenderci meglio dai contagi o per gestire in maniera più efficiente il sistema sanitario, ma perché l’attenzione alla salute di tutti e di ciascuno è uno dei presupposti basilari di una vera cittadinanza attiva.
Insomma: star bene anche per potersi impegnare per gli altri e quindi per tutti.
Anche per questo (art. 35) la Repubblica “cura” (che bel verbo, invece di “tutela” o “garantisce”) non solo la formazione, ma anche “l’elevazione” professionale dei lavoratori.
Questo significa dare una visione umanizzante del lavoro e del contributo che ci si aspetta dai lavoratori.
Tu dici una cosa bellissima: (art. 36) il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro; e aggiungi che questa retribuzione deve essere “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Per te il lavoro è collegato allo sviluppo umano. Io vorrei che dopo la crisi della pandemia si smettesse di praticare il precariato, il caporalato e il lavoro nero, e che ci potessimo impegnare nel mettere in regola i lavoratori, dando continuità e stabilità alla vita delle persone. Certo a qualcuno conviene avere la possibilità di non “sistemare” i lavoratori, ma come si fa a vivere e a progettare la vita senza sicurezze e senza sufficienti garanzie di futuro?
Come non pensare anche a tutti coloro che sono in seria difficoltà e rischiano di perdere il lavoro in questo tempo di pandemia e in quello del dopo pandemia, quando emergeranno anche i problemi adesso sommersi!
Ecco, per questo abbiamo bisogno di lavoro, di chi lo crea, non specula e di garantire equità e opportunità a tutti.
Non c’è dignità della vita senza lavoro.
Spero che tu ci possa aiutare a non aspettare sempre qualche bonus e a smettere di speculare.
Cara Costituzione, incoraggiaci a costruire, ad essere imprenditori che rischiano per sé e per gli altri mettendo in gioco tutta la nostra capacità e dedizione, sapendo che si tratta del futuro delle persone.
Insieme, imprenditori e lavoratori. Tu (art. 41) garantisci la libertà dell’iniziativa economica, ma dicendoci che tale iniziativa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e aggiungi che la legge deve preoccuparsi affinché “l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Papa Francesco ce lo ha ricordato più volte parlando della proprietà privata.
Qualcuno si è spaventato, tradendo un pregiudizio oppure manifestando di volere per sé quello che, invece, deve servire per il bene di tutti, perché solo così si giustifica e si conserva.
Tu (art. 42) stabilisci che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Insomma, siamo per davvero sulla stessa barca!
Facciamo ancora tanta fatica a capirlo, ma è proprio così!
Per questo aggiungi (art. 45) che lavorare insieme è importante riconoscendo la “funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità”.
Quanto è utile che tu ci ricordi che solo insieme ne veniamo fuori, che chi resta indietro non lo possiamo abbandonare e che siamo chiamati come cittadini responsabili a lavorare per dare a tutti delle opportunità concrete. L’ascensore sociale non può restare guasto, perché altrimenti quelli che si trovano più in basso non riescono a rialzarsi, in quanto sono senza possibilità reali di riscatto e progresso.
E così non solo non è giusto, ma ci depriva di ogni vero futuro!
Per questo ci ricordi quanto è importante riunirsi, parlare, discutere, confrontarsi.
Tu ci garantisci (art. 18) il “diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione...”, questo lo sottolinei non solo perché nessuno lo limiti ma perché è importante custodire ed incoraggiare la vita sociale e comunitaria.
Hai voluto garantire espressamente un diritto fondamentale per la formazione della personalità (non era di per sé necessario, perché rientrava comunque nelle libertà già in altre norme genericamente riconosciute, ma tu hai voluto sottolinearlo con forza e decisione).
Ma ci ricordi che la casa comune significa diritti e doveri e che è importante partecipare tutti.
A te i furbi, furbetti, di vario genere proprio non vanno giù!
Adesso che abbiamo tanti problemi come si fa a essere furbi, speculare per sé invece di aiutarsi (art. 53)?
Perché poi ci rimettono i più deboli, quelli che non ce la fanno, i poveri, vecchi e nuovi.
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Insomma, bisogna pagare le tasse e perché nessuno si lamenti che non serve, anzi, rubi (in tanti modi perché non pagarle significa togliere agli altri!) hai chiesto (art. 54) a tutti i cittadini il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.
E anche che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
Oggi direi con correttezza esemplare, anche perché ne va della fiducia degli altri nella cosa di tutti!
Ecco come si fa a vivere bene assieme.
Come in famiglia.
“Infatti, la nostra società vince quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa.
In una famiglia, i genitori, i nonni, i bambini sono di casa; nessuno è escluso.
Se uno ha una difficoltà, anche grave, anche quando ‘se l’è cercata’, gli altri vengono in suo aiuto, lo sostengono; il suo dolore è di tutti. [...]
Nelle famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare.
I litigi di famiglia dopo sono riconciliazioni.
Le gioie e i dolori di ciascuno sono fatti propri da tutti.
Questo sì è essere famiglia!
Se potessimo riuscire a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri.
Che bello sarebbe!” (FT 230).
È solo pensando alla famiglia e all’intera famiglia umana che ci può essere la pace (FT 141).
“La vera qualità dei diversi Paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici”.
La pandemia ci ha coinvolto tutti, in tutto il mondo.
Quanto vorrei che crescesse il sogno di ricercare il bene di tutti nella stanza del mondo dove viviamo assieme e dove possiamo riconoscerci “Fratelli tutti”.
A proposito.
La famiglia (art. 29) è riconosciuta come “società naturale”, perché volevi sottolineare che la famiglia è una realtà umana precedente lo Stato e in qualche modo realtà autonoma da questo, perciò usi il bellissimo termine “riconosciuta”. Parola che utilizzi poche volte e sempre per diritti o realtà la cui esistenza è appunto “riconosciuta” e non originata dallo Stato, come per i diritti inalienabili dell’uomo (art. 2) in cui ci ricordi che l’educazione, la casa e il lavoro sono indispensabili per vivere.
In questo quadro ci inviti anche ad essere accoglienti e ospitali.
Nella nostra storia ci hanno accolto e ora noi non accogliamo? Forse dobbiamo ricordarci che dobbiamo agevolare “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi” e sottolinei che bisogna avere particolare riguardo alle famiglie numerose (art. 31).
Non dobbiamo finalmente mettere in pratica questa tua indicazione di proteggere “la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”? E’ così sconfortante non vedere bambini e senza bambini c’è meno speranza e cresce la paura.
Cosa ci richiede proteggere la maternità?
Un’ultima preoccupazione.
Tu ricordi che la pace va difesa ad ogni costo (art. 11).
Tu sei nata dopo la guerra.
Avevi nel cuore l’Europa unita perché avevi visto la tragedia della divisione.
Senza questa eredità rischiamo di rendere di nuovo i confini dei muri e motivo di inimicizia, mentre sono ponti, unione con l’altro Paese. Solo insieme abbiamo futuro! Abbiamo tanto da fare in un mondo che è bagnato dal sangue nei tanti pezzi della guerra mondiale!
E se, come affermi solennemente, ripudiamo la guerra, dobbiamo cercare di trasformare le armi in progetti di pace, come Papa Francesco - grande sognatore e realista come te - ha chiesto.
“Con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa” (FT 262).
Ripudiare la guerra vuol dire costruire la pace praticando il dialogo per arrivare ad abolire la guerra!
La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale annientamento.
“L’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario”, scrive Papa Francesco senza mezzi termini.
Grazie.
Cara Costituzione, ascoltando te già sto meglio perché mi trasmetti tanta fiducia e tanta serietà per la nostra casa comune.
Se ce ne è poca anch’io devo fare la mia parte!
Proprio come tu vuoi.
+ Matteo
Gennaio 2021
Il rimprovero dei vescovi: “Renzi, nessuno ti capisce” (meno il 2 virgola che sempre si trova tra gli autorottamatori_ n.d.r.)
di Paolo Rodari CITTA' DEL VATICANO — Fra i vescovi italiani l’insofferenza per l’azione di Renzi è palese. Per tutti dice la sua a Repubblica Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo che lotta quotidianamente in difesa dei migranti facendo anche i conti con la latitanza dello Stato: «Quanto ha fatto Renzi è incomprensibile non solo per chi è fuori dalla politica, ma anche per chi è dentro. È un’azione sciagurata e credo che la storia, ed anche la cronaca di tutti i giorni, ne faranno giustizia. Il Paese non aveva bisogno di una crisi in questo tempo così difficile. Anche perché non conosciamo ancora le ripercussioni che tutto ciò potrà avere sia a livello nazionale sia internazionale ». Insieme a Mogavero, è l’arcivescovo di Campobasso Giancarlo Maria Bregantini a dire a Renzi: «Riveda la sua posizione di rottura e ritrovi il dialogo, pure all’interno di una formazione nuova che nessuno sa cosa possa essere. Siamo preoccupatissimi. La gente non capisce. Si può e si deve trovare un accordo interno, questa deve essere la parola d’ordine su cui muoversi». Non da meno è padre Alex Zanotelli, voce degli ultimi, che oggi parla dal cuore dei quartieri spagnoli di Napoli. Dice: «Altro che ritirarsi dalla politica, Renzi la sta rovinando ». Il missionario comboniano non usa mezzi termini contro Renzi: «È di un narcisismo e di un egoismo senza pari. Già si era visto quando stava al governo e disse che se avesse perso al referendum avrebbe lasciato la politica». Zanotelli rileva però anche che non tutti nella Chiesa hanno il coraggio di parlare: «Mi fa male anche il silenzio della Chiesa. Davanti ad un uomo di un narcisismo e di un egoismo senza uguali, in un momento di pandemia, il popolo è sbigottito. Ci si perde in quisquilie davanti ad una tragedia da cui non sappiamo nemmeno se ci salveremo. Ormai non c’è più il senso del bene comune e questo è ciò che più mi spaventa. Da qui la grande delusione della gente verso la politica che in questo momento dovrebbe prendere decisioni serie». Ieri, in ogni caso, la Cei aveva battuto un colpo. Dopo le parole del Papa all’Angelus di domenica che aveva detto che «non è questo il momento di rompere l’unità», è stata l’agenzia di stampa dei vescovi italiani, il Sir, a pubblicare un duro editoriale, definendo la crisi innescata dal leader di Iv «assurda» agli occhi dei cittadini, «alle prese con i contagi e il loro tragico corredo di morti, con le conseguenze economiche della pandemia, che in molti settori (non tutti, bisogna pur dirlo) sono estremamente gravi, e con il suo devastante impatto sociale che invece non risparmia nessuno». Dal cardinale Bassetti in giù, la Chiesa è da sempre con Sergio Mattarella e la sua ricerca di equilibrio e stabilità. Non a caso il Sir ha avuto parole di elogio solo per lui: «Sappiamo che si muoverà esclusivamente nell’interesse del Paese e sempre lungo i binari della Costituzione. Ma Sergio Mattarella non ha la bacchetta magica. A tutti è richiesto un sussulto di responsabilità».
«Milano cantiere di speranza. La politica? Troppo litigiosa». La malattia, le paure, la dimensione spirituale Le riflessioni sulla crisi e su cosa verrà dopo. «Milano è un enorme cantiere di speranza. Ma c’è il rischio che prevalga la rinuncia». L’arcivescovo Delpini — «ma chiamatemi don Mario, mi sento un po’ il parroco di Milano» — parla del Natale, del Papa, e della sua bicicletta. Condanna neoliberismo e populismo. E dice: «Governo e Regione hanno agito troppo sulla spinta dell’emergenza». (.... ..... (Aldo Cazzullo, Corriere, 24.12.’20)
Iritratti alle pareti dei predecessori scomparsi incutono una certa soggezione: Tettamanzi, Martini, Montini che divenne Papa come Paolo VI, Ratti che era diventato Pio XI, Schuster, san Carlo Borromeo...
Come ci si rivolge all’arcivescovo di Milano? Eccellenza Delpini? «Mi chiamano don Mario».
Nel suo discorso di sant’Ambrogio, lei ha citato il profeta Geremia, che con l’esercito babilonese alle porte acquista un terreno, fa un investimento sul futuro; poiché «dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: ancora si compreranno case, campi e vigne in questo Paese». «Geremia lo fa non perché è un visionario, ma perché il Signore gli ha detto di comprare il campo. È lo spirito che serve anche a Milano, a tutti noi. Perché il rischio è che sulla speranza prevalga la rinuncia. Non è facile ripartire dopo una pandemia. Resta nell’aria un senso di sospetto, l’idea che l’altro possa essere pericoloso».
Perché la rinuncia sembra prevalere sulla speranza? «Perché non c’è un interlocutore che promette. La speranza cristiana è fondata su una promessa, non su un’esperienza positiva dell’umanità, sulla constatazione che ci siamo ripresi tante volte; il che è vero, ma la speranza è legata a una fede, non a un precedente storico o a una statistica. Qui sembra che il mondo prescinda da Dio, che Dio esista solo per insultarlo perché non manda via il virus, che Dio non sia un reale interlocutore della vita ma un’astrazione da maledire quando le cose non vanno come si vorrebbe. Molta gente non è disposta alla fede, è chiusa nell’orizzonte del nascere e del morire».
Lei parla di emergenza spirituale. «Siamo così ossessivamente rivolti alla pandemia, alla situazione contingente, che non c’è più spazio per lo spirito; che so, scrivere una poesia, interessarsi al dramma del Centrafrica».
Non tutti hanno il dono della fede. «Ma tutti dovrebbero avere una vita spirituale, che per me è la docilità allo Spirito Santo, ma è la dimensione dell’umano per chiunque non voglia essere solo abitante della banalità. È come se ci fosse una strategia del malumore: siamo ossessionati dal dato di cronaca spicciolo. L’unico argomento di cui si parla è l’evoluzione della pandemia, cui i media danno uno spazio spropositato».
Come potrebbe essere diversamente? «Non dico che ci sia un piano; dico che c’è un modo di organizzare l’informazione che induce allarmismo. Il passo successivo è gettare discredito, alimentare malcontento, trovare colpevoli; da qui il disprezzo delle istituzioni. E l’abolizione della buona notizia, scacciata da quella cattiva».
La paura non l’hanno inventata i media. Paura della morte. E della povertà. «La paura è un dato di fatto. Può essere un riflesso condizionato, o un’esperienza umana. Può diventare una paralisi, ma anche uno stimolo per la dimensione spirituale. Allora diamoci da fare, ad esempio vediamo cosa si può fare contro la povertà. Ho scritto un libro di favole per aiutare i bambini ad affrontare le loro paure: il buio, i genitori che litigano, Dio che castiga. Anche gli adulti hanno le loro paure: l’esclusione, la fine dei legami, le migrazioni. La paura non va esorcizzata; va risolta. Ad esempio si racconta ai piccoli che Dio è diventato un bambino; e non si può temere i bambini. La paura dell’altro si risolve conoscendolo. Il tema migrazioni spesso è stato usato per creare paura; ma la conoscenza può aiutare a superarla. Abbiamo il diritto di avere paura, ma anche il dovere di cercare i motivi di pace, le fondamenta della fiducia; che è diversa dall’ottimismo».
Lei è ottimista o fiducioso? «L’ottimismo non va banalizzato. Dire “andrà tutto bene” è un modo per farsi coraggio, come il grido di guerra con cui una squadra si infonde vigore psicologico. In realtà, sappiamo che non tutto è andato bene. Però girando per Milano e per l’Italia ho trovato molte persone che mi danno fiducia nell’avvenire».
Quali persone? «Quelle che stanno al loro posto, che tengono la posizione, che continuano a far bene il loro mestiere. Sono stato a visitare l’ortomercato e il mercato del pesce. Ho incontrato tanti lombardi orgogliosi di aver continuato a sfamare Milano, anche durante il primo e più rigoroso lockdown: la città ha mangiato, dicevano, perché noi abbiamo lavorato tutte le notti».
Come vede il 2021 di Milano? «Milano è un enorme cantiere di speranza. Ovunque vedo gente che si dà da fare per il bene; anche se la pandemia, con i morti e le limitazioni, sembra quasi stremare la città».
Colpiscono le immagini pubblicate dal Corriere delle code alla mensa dei poveri. «Certo. Però dall’altra parte della mensa ci sono i volontari che ai poveri danno da mangiare. Siamo in emergenza; ma la risposta c’è. Pensi agli ambulatori per le cure gratuite, ai luoghi dove si accolgono i disabili. Ammiro di Milano questo enorme cantiere della carità, che non è solo volontariato ma anche servizi sociali, ospedali, scuole. La città è un giacimento di risorse. Mi auguro che tutto questo porti frutto. Sono andato a rivedermi le fotografie della Milano bombardata durante la guerra. Pareva un disastro insuperabile; si sono ricostruite case migliori di prima. Fu una tragedia ancora più grande di quella presente, il che predispone alla fiducia».
Lei però denuncia l’individualismo. «Sì, perché ci rende più fragili. Facciamo parte di un unico corpus; non capirlo ci indebolisce. C’è un’arroganza dell’individualismo, per cui l’insofferenza prevale sulla gratitudine. Non volersi far carico degli altri può sembrare una forma di libertà, ma l’esito è la solitudine; che non è una forma di libertà, ma causa di tristezza. Non si è mai felici da soli».
Da cosa dipende? «Anche dalla politica: questa litigiosità continua, questo nervosismo, questa suscettibilità impediscono di capire che siamo tutti sulla stessa barca. Succede in Parlamento, succede pure nelle riunioni di condominio, dove magari si litiga tutta la notte per il colore della scala; ma la dignità dell’uomo non dipende dal verde 142».
Come si è mosso il governo? «Non riesco a valutare, non so misurare l’impatto dell’emergenza. L’impressione è una sorta di pronto soccorso continuo. Non si dice “andiamo avanti, abbiamo delle idee”; si pensa solo a contenere l’alluvione. Ma accanto alla mancanza di lungimiranza c’è stata un’attività molto intensa delle istituzioni e dei servizi: a Milano gli ospedali hanno funzionato, come i trasporti, e i negozi».
E la Regione Lombardia? «Anche loro han fatto quel che hanno potuto. Sempre però in una logica emergenziale: questo numero dice così, e ora facciamo così. Forse era inevitabile; ma ci si è mossi troppo sotto la spinta dell’emergenza. Occorre una prospettiva più ampia. Serve il pronto soccorso; ma serve anche una visione».
Nove mesi fa, intervistato da Fabio Fazio a «Che tempo che fa», lei disse: «Il vaccino non basta, il mondo è troppo malato». Perché? «Perché la disuguaglianza è scandalosa. Ci sono troppi poveri e molte persone troppo ricche; e non si vede rimedio. In Italia c’è stato un periodo in cui la classe media rappresentava il clima complessivo. Sono cresciuto in un piccolo centro vicino a Gallarate, Jerago con Orago. Lo conosce?».
Confesso di no. «Come non lo conosce? È l’unico paese della diocesi di Milano con la j... (l’arcivescovo Delpini sorride). Ricordo un borgo in crescita: la gente non era ricca ma aveva i soldi per il cibo e le medicine, ogni tanto cambiava la macchina; non ci mancava nulla. Non so se in tutta Italia è ancora così. Leggo che al Sud oltre metà dei giovani non trova lavoro. E vedo Paesi dove la gente non ha l’acqua da bere. Paesi saccheggiati da altri. Quando i ricchi rubano ai poveri, questa è una malattia. Non è un modo ragionevole di vivere sullo stesso pianeta. Per questo il mondo è malato».
Anche il Papa dice queste cose. Alcuni lo considerano un comunista. Hanno torto? «Noi cristiani siamo discepoli di un uomo che è stato trattato piuttosto male; non ci aspettiamo sempre applausi. Il Papa viene da un Paese in cui la disuguaglianza si manifesta in modo impressionante. Nell’enciclica Fratelli tutti ha espresso bene l’esigenza di solidarietà. Non si può dire: io me la cavo, se tu non te la cavi peggio per te».
Lei ha condannato il neoliberismo; ma è sicuro che in Italia non ce ne vorrebbe un po’ di più? Ad esempio per semplificare fisco e burocrazia? «Per neoliberismo intendo una forma di capitalismo insofferente della responsabilità sociale: l’obiettivo è solo il profitto, il resto non interessa. Ma se io sottopago lavoratori e fornitori, se uso risorse depredate ad altri Paesi, allora perdiamo tutti. La burocrazia ha un compito di garanzia; quando provoca un eccesso di complicazione è insopportabile per chi vuole prendere iniziative. Peggio ancora è la scorciatoia dell’illegalità o lasciare l’Italia. C’è chi ha tanti soldi e se li tiene o li usa per fare altri soldi, anziché investire e creare lavoro. Ma altri mi dicono: io ho ricevuto molto e devo restituire, con la beneficenza o con gli investimenti. Si sentono responsabili verso la società e l’ambiente».
Cos’è invece il populismo? «È creare consenso con slogan e non con pensieri, attraverso le emozioni anziché i programmi. Ci siamo già passati: se io convinco tutti che gli ebrei sono ladri, poi si creano i campi di concentramento. Populismo è far leva sull’emotività, sulla paura, e non sul consenso ragionevole».
Ce l’ha con Salvini? «Non ce l’ho con nessuno, a maggior ragione con chi conosco poco. Sono un ingenuo: credo che ogni persona sia animata da buona volontà».
Dopo la pandemia viene un rimbalzo? O la depressione? «Ci saranno entrambe le cose. Qualcuno ne uscirà con l’euforia della ripresa; qualcuno stenterà. Ora sembra prevalere un tono dimesso, la prospettiva di una risalita lenta. Ma all’ortomercato un signore mi ha detto: “Io sono stato malato. Ora tutti mi dicono che pure loro hanno avuto il Covid, però io l’ho fatto sul serio, con tre settimane di tosse e febbre. Ma ora ho ripreso, più vigoroso di prima”».
Anche lei ha avuto il Covid. «Ero del tutto asintomatico, ma sono dovuto restare isolato per più di venti giorni. Ne ho approfittato per leggere libri dalla prima all’ultima pagina, dormire, pregare di più, scrivere. Ho avuto più tempo per me. Ma ho provato imbarazzo al pensiero di coloro che hanno sofferto duramente, dei morti, delle loro famiglie».
È vero che medici e infermieri possono benedire i morenti? «Certo. Però rispetto al primo lockdown le cose sono migliorate. I pazienti vivono una solitudine vigilata. Sono possibili le videochiamate. I cappellani possono entrare, tutti bardati, nella terapia intensiva. Infermieri e medici cattolici dicono una preghiera, portano l’eucarestia. Alcuni però sono morti soli, non hanno avuto funerali, oppure ai funerali i parenti non sono potuti andare perché erano in quarantena. Una prova durissima, che ha lasciato in molti un senso di desolazione: è morto mio papà e io non l’ho potuto salutare».
Se il Papa viene attaccato, su di lei si è fatta qualche ironia: l’arcivescovo in bicicletta. Quanto conta lo stile? «Lo stile è un elemento indefinibile. Significa fare una cosa con gentilezza, con attenzione. Anche l’ironia è un valore, anche la critica; non è detto che si debba essere benevoli a oltranza. Lo stile per me è rispetto, rinuncia alle parole aggressive, gusto di coltivare il proprio lato amabile. Mi sento un po’ il parroco della diocesi di Milano. Anche il Papa in Fratelli tutti ci richiama alla gentilezza».
Ma in bici lei ci va o no? «Non facciamone un mito. La bici è comoda. La uso per tratti di strada, ad esempio per andare dal parrucchiere, che impiegherei più tempo a fare a piedi o in metro o in macchina. Mi piacerebbe usare la bici per fare sport, ma non ho più né il tempo, né il fisico». Aldo Cazzullo, Corriere, 24.12.’20
una delle molte riflessioni di questi giorni ... We can, We care. Noi possiamo, Noi ci prendiamo a cuore
Negli ultimi mesi Isolati, senza i nostri riti quotidiani o settimanali degli apericena o delle colazioni al bar con cappuccio e brioches o delle cene serali con gli amici o la fidanzata … siamo diventati insofferenti e ci siamo incupiti … forse più per queste mancanze … che non per covid19. > Finché le sofferenze altrui non ci toccano da vicino o non ci colpiscono direttamente, sembra di stare in un universale video games. _ Guardiamo le morti altrui e le sofferenze dei fratelli come fossero distanti da noi e dal nostro mondo. _ Importante che mi venga garantito potermi muovere, uscire, fare quello che vorrei fare e stare con chi mi piace stare. _ L’individualismo dilaga e i motivi sanitari e i lockdown sono solo una scusa per rivendicare per se stessi solo diritti e derogare sui nostri doveri sociali e personali. _ Ma l’individualismo non sarà mai la soluzione, non sarà mai la salvezza … non porterà mai ad una società più giusta come tutti vorremmo. _ Se viene meno il cuore diventeremo una società di automi, di primordiali con giacca e cravatta … ma estranei uno all’altro … indifferenti ai bisogni altrui (che sono anche i nostri), attenti solo ai nostri piccoli interessi e pronti a calpestare gli altri per prevalere. _ Il motto (per qualcuno lo è già) … sarà mors tua vita mea. _ Ci salveremo dalle pandemie ed altre tragedie … solo se scopriremo nella gioia e nei momenti difficili che è bello, appagante prendersi cura reciprocamente … _ Quanto è bello, prezioso e appagante vedere qualcuno che si prende cura di noi e non lo fa per parentela, obbligo, anzi potrebbe ignorarmi e invece si china su di me e mi ascolta e mi cura. _ Il giovane che si prende cura del più anziano e viceversa l’anziano che si prende a cuore i piccoli e indifesi molto simili a lui. _ Gli amanti che si prendono cura uno dell’altro … in un progetto di futuro e di famiglia insieme. _ I vicini che pur con mascherine e sanificazioni si fanno attenti ai bisogni di chi vive nella porta accanto. _ I singles che comprendono quanto bello sia unirsi perdendo un po' di liberta ma scoprendo un immenso dono di servizi, soprattutto quando nascono imprevisti sulla propria strada. > Ci lamentiamo, a volte “tanto per”… e altre volte doverosamente per le tante perdite economiche determinate da questa situazione … ma se nel nostro piccolo secondo le nostre possibilità, sappiamo dimostrare alle attività più in difficoltà (bar, ristoranti, palestre ecc..) che possiamo sostenerli acquistando cibi da asporto o prodotti da loro offerti … e in questo modo sostenerli nel dilemma: “chiudiamo per sempre o resistiamo per un futuro diverso”? Così facendo contribuiamo alla nostra economia, più di tante parole o titoli sui social. _ Il motto dopo e durante questa pandemia dovrebbe essere per tutt I care we care … ci sta a cuore … ogni essere vivente ci sta a cuore … ogni battito di cuore ci interessa … nulla è estraneo alla mia umanità. _ Se sapremo stare nel cuore di ciascuno e accogliere nel nostro cuore l’amore che l’altro mi offre, insieme ai piccoli gesti di attenzione reciproca … stiamo certi che vinceremo tutte le pandemie, ma anche tutte le malattie del cuore, della mente e attraverseremo più sereni anche quelle del corpo._ We can …. We care. Claudio C.
Grazie. Con l'inizio d'Avvento, il nuovo Libro della preghiera liturgica. a noi è stato donato dal Vescovo, come segno di presenza in s. Egidio, questo antico priorato passato attraverso vicende millenarie da monastero cluniacense a parrocchia diocesana, e infine, appunto, a chiesa con titolo vescovile. Invitato dal Rettore, il vescovo Francesco ha raccolto l'invito di una dedica sul nuovo messale. Eccola. "Alla Cappella Vescovile di S, Egidio in Fontanella. Il grembo del silenzio accolga il dono dello Spirito generatore di ogni Liturgia. + Francesco Beschi - 29 novembre 2020, prima di Avvento".
la virtù dell'anno: la compassione - La compassione non è un sentimento triste. E non possiamo ridurla soltanto a quei sinonimi, come carità e pietà, che la legano ai momenti nei quali incrociamo il buio della vita. Se partiamo dall’etimologia della parola, e dalla sua radice nel latino compati, cioè compatire, già scorgiamo un primo passo inedito della compassione. La sua forza attrattiva, come una calamita, verso l’altro, la sua energia positiva di spingerci verso la condivisione di un dolore, di una difficoltà, di un dramma. Ma anche di uno spazio di luce. La compassione, infatti, può avere un prezzo molto alto. Fino al sacrificio, anche se non bisogna considerarlo un prezzo dovuto. E il sacrificio riguarda innanzitutto ciò che cediamo di noi stessi, qualcosa a cui rinunciamo. Papa Francesco nel 2016 ha bandito il suo Giubileo della misericordia, altro sinonimo chiave della compassione e dell’amore, e in quella occasione ci ha fatto scoprire «i due aspetti della misericordia»: Il primo: dare, aiutare, servire gli altri. Il secondo: comprendere e perdonare. I due aspetti sono inscindibili, ed evocano entrambi un assolutismo dei sentimenti, un approccio verso l’altro che rompe l’argine di una domanda alla quale, consapevolmente o inconsciamente, siamo abituati dal soffio esistenziale del cinismo. «Che cosa ne ricavo»? Ecco: la compassione, come la misericordia, non si aspettano mai contropartite. Non le mettono nel conto.
LIBRI
De Giovanni, Il concerto dei destini fragili, Ed Corriere della Sera. - È appena uscito, ma lo si legge d’un fiato, pur con le debite pause di rimuginazione richieste dalla intensità del testo. È il nuovo romanzo di Maurizio De Giovanni: racconta la storia di tre personaggi molto diversi tra loro e delle loro vite durante il lockdown. Tre persone che non hanno nulla in comune, un dottore, un avvocato e una ragazza alla pari, ma che si trovano uniti dalla malattia provocata dal virus. L’avvocato vive nel suo mondo dorato, fatto di lussi e di privilegi, la donna dell’est lotta per garantire una vita migliore alla figlia e il dottore, dedito così tanto al suo lavoro da rinunciare agli affetti. Tre mondi lontani che si trovano improvvisamente vicini, uniti da un virus invisibile, ma letale che colpisce chiunque senza discriminazioni. Un romanzo intenso che sorprende e commuove per l’umanità e per l’empatia che suscita nel lettore. Una storia che parla di morte e di amore, dei diversi modi che si elaborano per affrontare la malattia e di una delle paure più comuni nell’essere umana: quella della sofferenza. Una trama vincente perché è semplice immedesimarsi nei tre personaggi che si mostrano senza maschera, nudi davanti alla paura della malattia e della sofferenza, ma anche forti nelle loro decisioni e nell’affrontare un virus che ha cambiato, seppur in diversi modi, la vita di ognuno di noi.
ARTICOLO
tra le preoccupazioni del contenere il covid e di rilanciare l’economia, qualcuno dice che è inutile lasciarsi distrarre da altre leggi da formulare, seppure ritenute impellenti: vedi quella elettorale a fronte del referendum che vuole tagliare i “residenti ” nelle Camere del Paese, o quella sull’omofobia che galleggia da troppo tempo in Parlamento_
Stop all’omofobia legge salva idee, di Alberto Bobbio
Forse sarebbe stato sufficiente intervenire sulle aggravanti per gli atti lesivi contro la persona e prevederle anche a tutela di chi è oggetto di discriminazione sessuale e di genere con un rafforzamento dell’art. 61 del Codice penale. Invece adesso c’è una legge vera e propria contro l’omofobia e le discriminazioni dettate dall’orientamento sessuale e di genere che tra pochi giorni verrà discussa dal Parlamento. Le polemiche non mancano. C’è chi ne sostiene l’inutilità, chi paventa rischi pericolosissimi per la libertà di opinione su matrimoni gay e unioni civili e chi invece spiega che una legge specifica è necessaria perché l’incitamento all’odio è amplificato dai social e può degenerare in atti di violenza. Il punto centrale della discussione riguarda le opinioni. La legge colpisce le opinioni e le può sanzionare, secondo l’allarme di una serie di organizzazioni cattoliche, per altro non di primo piano e quasi tutte legate alle aree tradizionaliste, oppure si limita a punire gli atti discriminatori e l’istigazione alla violenza? Insomma si rischia un conflitto di diritti? Quando una legge si ritiene necessaria e tocca questioni di alta sensibilità occorre scriverla bene, rafforzando in questo caso l’impegno sul versante educativo e dunque preventivo, a cui non si può anteporre la parte repressiva. C’è un esempio che chiarisce: la formula repubblicana non può essere oggetto di revisione, ma ciò non significa impedire la propaganda dei gruppi monarchici, beninteso se si tengono sul terreno dialettico e non complottano per organizzare un colpo di Stato. Insomma le parole perseguibili sono quelle che si possono trasformare in pietre. L’altro punto che la discussione in aula dovrà chiarire e formulare meglio riguarda le condotte discriminatorie fondate sul sesso e l’identità di genere per evitare incertezza nell’applicazione della legge e conseguenti sentenze creative dei tribunali che complicano la materia e innescano contrapposizioni ideologiche. La discriminazione avviene quando ci si rifiuta di fornire un bene o un servizio, per esempio assumere o licenziare una persona, sulla base di motivazioni razziali, religiose, etniche. (… ) Questa è la vera posta in gioco da considerare con fermezza, senza alimentare il contrappunto di paure infondate di radicali e conservatori e ricordando sempre l’art. 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
LIBRI
Costantini, Anche le pulci prendono la tosse, Ed Solferino, pagg 272 ---- Raymond il poliziotto, Beatrice l’infermiera, Salvatore il piccolo imprenditore e Regina l’insegnante entrano nel tunnel del coronavirus con tutti gli altri, alla fine di febbraio a Adeago, in una provincia che non viene nominata, ma traspare come Bergamo per il tifo conclamato all’Atalanta e altro. Ci entrano con le loro vecchie paure, frustrazioni, amori perduti e sconfitte, e con un carico di umana miseria. Ma il virus non è solo un vento di morte, è anche un formidabile acceleratore di destini. E i loro deflagrano. Dalle feste per le vittorie della dea si passa al deserto e poi al terribile corteo delle bare nei camion militari, e le storie dei quattro protagonisti si intrecciano e si coagulano intorno al vergognoso business delle mascherine finanziato da veri malviventi, alcuni con la pistola, ma i peggiori in giacca e cravatta. Nel momento più buio, uomini e donne che pensavano di non avere più niente da chiedere o da perdere si troveranno di fronte l’occasione per riscattare una vita spenta. Una storia d’amore e di dolore, in cui si ride e si piange disperatamente, che parla del nostro tempo, delle nostre scelte, della possibilità di capovolgere il proprio futuro. Un noir grottesco e travolgente, che descrive e ci descrive in questa prima fase di un fatto di cui non si può pronosticare il futuro, se non per quello che ciascuno può cambiare. (I diritti d’autore di questo libro saranno interamente devoluti a favore degli ospedali).
La barzelletta (che non fa ridere) secondo cui don Davide Rota sfrutterebbe i migranti_ Infangato e deriso in giornali e intercettazioni il superiore del Patronato. L'accusa: con i soldi per sfamare cinquanta profughi ne aiutava trecento.
La Procura tace sulla fuga di notizie e intanto alcuni giornali fanno a pezzi la dignità delle persone pubblicando stralci di intercettazioni. Così va a Bergamo nell’era post Covid. Niente di nuovo, si dirà. E invece di nuovo c’è che l’uso strumentale di atti giudiziari che dovrebbero essere coperti dal segreto istruttorio sta colpendo, tra gli altri, alcuni degli uomini più apprezzati della nostra città, in particolare una persona di carità come don Davide Rota, superiore del Patronato San Vincenzo. E, dispiace dirlo, quasi nessuno alza un dito per difenderlo anche di fronte alle menzogne. Domenica scorsa (28 giugno) sul quotidiano La Verità diretto da Maurizio Belpietro è apparso un articolo a firma del vicedirettore, Francesco Borgonovo, che sconcerta fin dal titolo di prima pagina: «I preti sfruttano i migranti, Gori li premia». Don Davide Rota sfrutta i migranti? In un Paese normale sarebbe una battuta che non farebbe nemmeno ridere. I giornalisti de La Verità e de Il Giornale (che ha ripreso l’articolo sul suo sito) hanno la minima idea di chi sia questo sacerdote ex missionario in Bolivia e di che cosa faccia per gli immigrati e per i bergamaschi? Hanno mai varcato il cancello di via Gavazzeni per rendersi conto di quale aiuto rappresenti per Bergamo questo “ospedale da campo” che accoglie 330 ospiti, settanta dei quali italianissimi, chiamato Patronato San Vincenzo? La Verità, nel sommario, aggiunge un altro particolare: «Il superiore del Patronato è indagato per avere lucrato sul lavoro nero degli stranieri: il sindaco di Bergamo l’aveva decorato per la sua attività coi profughi». Benché non risulti da nessuna parte che don Davide Rota sia indagato (non ha ricevuto alcun avviso di garanzia), le indiscrezioni affermano che a suo carico ci sarebbe un’indagine perché avrebbe fatto lavorare senza regolare contratto alcuni ospiti. Il primo a parlarne è stato il Corriere della Sera. Va da sé che gli obiettivi delle testate giornalistiche sono diversi. L’edizione locale del Corriere è da sempre la velina della Procura di Bergamo e infatti ha pubblicato diverse indiscrezioni e intercettazioni su questa inchiesta; La Verità, invece, ha tutto l’interesse a indebolire l’immagine del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, avversario politico della Lega. In effetti, l’obiettivo ultimo dei quotidiani di area centrodestra non è “il prete che sfrutta”, ma Gori che lo premia. Ma per colpire quest’ultimo non si fanno scrupoli. E la magistratura, in mezzo a queste fughe di notizie e di intercettazioni, che cosa dice? Niente, come se lo scempio delle persone non la riguardasse, come se le informative in mano ai giornali fossero piovute dal cielo e le indagini le stesse facendo qualcun altro. di Ettore Ongis, da Prima Bergamo, 3 Luglio 2020
Non siamo migliori lettera di Bose
Cari amici, ospiti e voi che ci seguite da lontano,
a testimonianza dei legami fraterni che ci uniscono in diversi modi, in queste ultime settimane molti di voi ci hanno chiesto – con discrezione e rispetto, insistenza e preoccupazione, sconcerto o qualcuno perfino con rabbia – una parola sulla vicenda che ha coinvolto la Comunità e che è causa di molte e profonde sofferenze. Siamo rimasti in silenzio attendendo un certo tempo per non ferire ulteriormente le persone e dire una parola di pace e chiarezza, nella responsabilità che avvertiamo di rendere conto sia della speranza che è in noi, sia dello scandalo suscitato in tanti cristiani e persone che ci seguono...
Innanzitutto vi ringraziamo per la vicinanza che ci avete mostrato con messaggi, telefonate e visite, per la preghiera con la quale ci state accompagnando, per l’amicizia che, pur messa alla prova dagli eventi, non è venuta meno. E poi vogliamo chiedervi perdono per lo scandalo che abbiamo suscitato e per la contro-testimonianza che abbiamo dato.
Ma affinché questa gratitudine e questa richiesta di perdono non suonino come vuota retorica, vorremmo aiutarvi e aiutarci reciprocamente a capire più in profondità sia le sofferenze che stiamo attraversando e delle quali vi abbiamo reso partecipi, sia le speranze che nutriamo per il cammino che ci attende.
La visita apostolica è stata avviata dalla Santa Sede, a partire da diverse segnalazioni circa profonde sofferenze nella vita fraterna a Bose e dopo averne verificato la fondatezza. La Comunità ha accolto la visita in obbedienza, come segno di attenzione paterna da parte di papa Francesco e come aiuto a discernere le cause profonde di un grave malessere relativo “all’esercizio dell’autorità, la gestione del governo e il clima fraterno” a Bose.
La scelta delle persone incaricate di tale compito delicato è stata segno di un’attenzione alla nostra peculiare natura di comunità monastica di fratelli e sorelle, costitutiva del nostro vissuto fin dalle origini: oltre a un religioso esperto anche di problematiche attinenti alle relazioni umane (p. Amedeo Cencini), sono infatti stati chiamati a questo servizio un abate benedettino (p. Guillermo Arboleda) e una badessa trappista (m. Anne-Emmanuelle Devêche). La presenza di quest’ultima, che con p. Michel Van Parys aveva condotto una precedente visita alla comunità, garantiva inoltre la possibilità di far tesoro anche di quanto visto e ascoltato in quell’occasione. La visita del 2014 – la prima dopo quasi 50 anni di vita monastica a Bose – era stata di altra natura: l’allora priore fr. Enzo aveva chiamato un abate e una badessa di sua fiducia, che già conoscevano bene i fratelli e le sorelle di Bose, ritenendoli le persone più indicate a favorire un proficuo cammino comunitario verso il cambio di priore. Si trattò di una visita fraterna che poteva dare consigli e suggerimenti, ma senza potere di intervento reale. Alcune criticità erano emerse, ma queste non avevano impedito il percorso culminato con le dimissioni di fr. Enzo, da lui stesso annunciate da tempo, e l’elezione di fr. Luciano da parte della Comunità, secondo le modalità disposte dal nostro Statuto.
Così, tra dicembre dello scorso anno e l’Epifania di quest’anno, seppure non in modo continuativo, i visitatori inviati questa volta dalla Santa Sede hanno potuto ascoltare lungamente e anche a più riprese tutti i fratelli e le sorelle, sia residenti a Bose che nelle diverse Fraternità, e raccoglierne anche le testimonianze scritte. Al termine, come era stato loro richiesto, hanno sottoposto la loro relazione finale alla Santa Sede, che l’ha vagliata in un arco di tempo di quattro mesi, presumibilmente verificandone sia la fondatezza che l’esaustività, ritenendo gli elementi raccolti necessari e sufficienti alla stesura di una lettera al priore e alla Comunità e all’emanazione di un “decreto singolare, approvato dal Santo Padre in forma specifica”, contenenti una serie di indicazioni e disposizioni che riguardano la prima l’insieme della Comunità, il secondo il fondatore fr. Enzo, due altri monaci e una monaca. Per notificare il decreto e avviarne l’esecuzione, la Santa Sede ha nominato p. Amedeo Cencini delegato pontificio con pieni poteri, non “commissario”: non ha ritenuto cioè di dover esautorare il priore fr. Luciano legittimamente eletto nel 2017 – e riconfermato dalla Comunità due anni dopo, come richiesto dallo Statuto – bensì di sostenerlo nel suo ministero di presidenza all’unità della Comunità. Unità che i visitatori avevano constatato essere seriamente compromessa, vedendo la profonda sofferenza quotidiana, lo sconforto e la demotivazione suscitati in molti fratelli e sorelle.
Le disposizioni che hanno suscitato maggior impatto sia in Comunità che tra gli amici e presso l’opinione pubblica sono state indubbiamente la richiesta a fr. Enzo e ad altri tre membri di allontanarsi dalla Comunità e dalle Fraternità, restando fratelli e sorelle di Bose, per vivere per un certo tempo ciascuno in un luogo diverso, non necessariamente monastico. Nessuna espulsione, quindi, nessuna cacciata, ma un allontanamento temporaneo di alcuni membri della Comunità che ad essa continuano ad appartenere. Le motivazioni specifiche di questa parte del provvedimento sono state comunicate dal delegato pontificio in forma riservata a ciascuno dei fratelli e alla sorella implicati nei provvedimenti. Queste disposizioni non riguardano assolutamente questioni di ortodossia dottrinale: non vi è per loro nessun divieto di esercitare il ministero monastico di ascolto, di accompagnamento, di predicazione, di studio, di insegnamento, di pubblicazione, di ricerca biblica, teologica, patristica, spirituale…
Quanto invece alle disposizioni che riguardano l’insieme della Comunità, esse sono state comunicate a tutti i membri della Comunità, attraverso una lettera del cardinale Segretario di Stato + Pietro Parolin al priore fr. Luciano, che indica anche un cammino da intraprendere per garantire la permanenza e lo sviluppo del carisma fondativo di Bose negli anni a venire, con espliciti e reiterati riferimenti alle nostre peculiarità più preziose: la scelta della vita monastica nel celibato e nella vita comune, la presenza di fratelli e sorelle in un’unica comunità, la composizione ecumenica dei suoi membri e il suo prodigarsi nel movimento ecumenico: un ecumenismo, quindi, non solo spirituale o di intenti, ma di concreta vita comune quotidiana tra fratelli e sorelle appartenenti a Chiese cristiane diverse.
Come leggere con gli occhi della fede questo evento della visita apostolica e delle sue conclusioni, rivelatosi da un lato necessario e, d’altro lato, fonte di sconcerto e di ulteriori sofferenze anche tra di noi fratelli e sorelle di Bose? Crediamo che la risposta non la si possa trovare nell’attribuire colpe e responsabilità agli uni o agli altri, bensì nella lucida constatazione che “non siamo migliori” e che il Divisore non ci ha risparmiato e noi non abbiamo saputo fronteggiarlo con sufficiente fede, speranza e carità. Sì, “non siamo migliori” non è solamente un adagio che fr. Enzo ha coniato fin dai primi anni della nostra vita a Bose, riprendendolo anche come titolo di un suo libro sulla vita monastica. È invece una realtà che noi da sempre tocchiamo con mano e di cui ora anche voi, amici e ospiti, vi rendete conto con sofferenza. Anche questa crisi che ora è esplosa in modo manifesto, e per tanti di voi in maniera assolutamente inaspettata, ha in verità radici più lontane.
Anche in questo doloroso frangente della nostra storia cerchiamo di proseguire quotidianamente nella nostra vita di preghiera, di lavoro e di ospitalità, come molti di voi l’hanno conosciuta in tutti questi anni, pur dovendo fare i conti con le conseguenze della pandemia e con la rimodulazione della Comunità successiva agli esiti della visita. Possiamo farlo solo invocando la misericordia del Signore e il suo perdono, che passa attraverso il perdono che sapremo offrirci gli uni gli altri. Vi chiediamo di continuare a pregare per noi, affinché tutti noi – a Bose, nelle Fraternità e negli altri luoghi in cui ci troviamo a vivere – possiamo continuare a cercare di essere discepoli di Cristo, possiamo ricominciare un cammino di conversione e di sequela del Signore, possiamo ascoltare e mettere in pratica ogni giorno il Vangelo: solo così la nostra testimonianza potrà essere credibile e potremo, anche assieme a voi, tratteggiare qualche lineamento del volto del Signore Gesù, così da renderlo visibile e amabile ai nostri fratelli e alle nostre sorelle in umanità.
I fratelli e le sorelle di Bose - Bose, 19 giugno 2020 - San Romualdo, monaco
La Chiesa in entrata e in uscita … torneremo nelle nostre Chiese …
2. Tra qualche giorno, dunque, nelle Chiese italiane si potrà tornare a celebrare l’Eucaristia con la partecipazione dei fedeli... Si tornerà a celebrare le Messe ma come? Di certo garantendo il distanziamento sociale, l’afflusso controllato, non oltre un certo numero di persone e tutta una serie di altre regole sui dispositivi di protezione individuale e l’igienizzazione degli ambienti per prevenire nuove occasioni per la diffusione dell’epidemia (rispettando il protocollo firmato dal governo italiano e dalla Cei per le celebrazioni con il popolo). >>> Ma forse - al di là dei protocolli la vera sfida è ripensare alle celebrazioni eucaristiche come comunità. Andando oltre la logica del «tutti o nessuno» o del ritornare semplicemente al passato. >>> Alcune evidenze e interrogativi possono rappresentare spunti di confronto e riflessione: >>> Le messe dei giorni feriali non dovrebbero rappresentare un grande problema in quanto la scarsa presenza è già di per sé distanziamento sociale quasi sufficiente. In questo caso bisognerà evitare i crocicchi di nonnine e anziani che abitualmente dopo o prima della messa si creano per avere le ultime news sui morti o su altri fatti/pettegolezzi del paese. >>> Per le messe della domenica la questione è più complessa. Dovremo infatti abituarci almeno per molti mesi ad una messa di comunità che non sarà più come prima (coro , cantori, libretti , presenza massiccia dei ragazzi e delle famiglie) >>> Se non potremo esserci tutti , allora chi entra? Useremo il criterio “chi ultimo arriva male alloggia”, si prenoterà la partecipazione fino ad esaurimento capienza? >>> Raggiunto il limite di capienza …. Cosa fare si chiudono le porte??… se è Gesù che ci invita alla celebrazione … non è certamente piacevole dire ad un invitato “ ritorna a casa oppure “ “prova alla prossima”, oppure trovare le porte chiuse. >>> Molti sacerdoti hanno pensato che avvicinandosi l’estate una soluzione potrebbe essere … la celebrazione all’aperto … molta più capienza e meno problemi di contagi e sanificazione . Ottima idea ma solo per qualche mese. >>> Molti di noi hanno scoperto che si sta bene anche in casa, con quasi tutto a nostra disposizione, senza grosse fatiche nel cercare … ed è comodo mettersi sul divano e “vedere” “ascoltare” la messa, più faticoso, alzarsi la domenica, vestirsi, portare i figli al catechismo e poi andare a messa e poi ... >>> Anche per i sacerdoti … non avere due o tre messe da celebrare, magari a distanza di poco tempo e in luoghi disparati con la preoccupazione di non arrivare in tempo … è molto più comodo … si ha più tempo per la preghiera e la riflessione personale. >>> A qualcuno sembrerà di celebrare in una sorta di “sala operatoria” ma non è forse l’immagine “profetica” di Chiesa “ospedale da campo” tanto cara a Papa Francesco e vissuta in questi mesi, che continua? >>> Alla luce di quanto sopra sarebbe bello e giusto che sacerdoti e laici si confrontassero sul come ripartire dopo questa terribile esperienza COVID 19 … anche questo è un modo per vivere la comunità e fare che la vita entri nella fede e la fede si trasfiguri, si purifichi con la vita. Claudio C
- Il ritorno alle celebrazioni comunitarie. Non una consuetudine da riprendere, ma una rinascita da vivere con una motivazione più convinta e modalità che aiutino davvero a ritrovare nell'Eucaristia «la fonte e il culmine» della vita cristiana >>> Nonostante le difficoltà sarà piacevole comunque rivedere tanti volti, tante storie, e magari un po' triste notare l’assenza di qualcuno che era sempre presente e ora non c’è più. >>> Riprenderemo il nostro cammino di fede attraverso la sua Parola, non più ascoltata a distanza, ma in diretta con pieno coinvolgimento comunitario e condiviso del nostro corpo, per essere “corpo di Cristo” che brucia gli argini della solitudine e dell’isolamento a cui ci siamo obbligati negli ultimi mesi. >>> Grande gioia deve essere La Parola e l’eucarestia consumata, ricevuta, vissuta non più solo spiritualmente ma mangiando e masticando la presenza di nostro Signore, per essere sempre più simili a Lui (alla faccia dei cristiani tiepidi e legati al solo precetto festivo). >>> La Parola e l’Eucarestia che si riappropriano di due spazi a loro connaturali, la Chiesa e la strada (Chiesa, la casa del Signore - la strada uno dei luoghi dove ha più vissuto Gesù - quanto tempo Gesù ha percorso sulle strade di Galilea e Giudea ...). >>> Di messe “sterilizzate”, televisive ne abbiamo ascoltate tante nelle scorse settimane, prima ancora di indossare guanti e mascherine; adesso abbiamo bisogno di sacramenti che ci ridonino vita. Per davvero. Di celebrazioni vive, sobrie, ma curate e piene di vita. >>> L’Eucaristia non sarà mai un servizio a gettone, ma vive dentro una comunità che trasmette la fede. Non saremo tutti lì presenti forse, ma saremo lo stesso Chiesa che riparte dal Mistero di quel Pane. E guarda al futuro. >>> Servirà un certo stile e della finezza e molta carità pastorale per evitare che si stabilisca un’analogia tra l’andare in Chiesa e il recarsi a fare la spesa al “supermercato” a numero chiuso e in fila, considerando l’estrema varietà dei nostri parrocchiani. >>> “Andiamo” a messa, come siamo soliti dire, non per rispondere distrattamente a una consuetudine, ma perché avvertiamo forte e sincero il desiderio di incontrare il Signore, di celebrare il Suo Amore insieme ai fratelli che sono parte viva della nostra umanità. >>> Abbiamo tutti conosciuto il vero silenzio nella Pandemia, a volte ci ha impaurito, ma quando siamo riusciti ad affidarci siamo riusciti ad ascoltare suoni che avevamo perso . Nel nostro nuovo modo di celebrare ci sia ancora più spazio ai momenti di silenzio per interiorizzare meglio la Parola. >>> Torneremo spettatori o come protagonisti con tutti i nostri sensi, di un mistero grande?? >>> Torneremo nelle nostre Chiese grati ai nostri pastori che in questo tempo di pandemia hanno messo in gioco tanta creatività pastorale (a volte con qualche eccesso pittoresco di fantasia) per non lasciarci soli e per sostenere le nostre comunità in un tempo di sofferenza, di fatica e di paura. >>> Torneremo nelle nostre chiese notando qualche posto vuoto. Lì era solito sedersi un nostro familiare , un nostro amico che ora è volato in Cielo. Il ricordo ci aiuterà a vivere, nella speranza, la comunione con quanti i nostri occhi non vedono più. >>> Questo stesso ricordo risveglierà in noi il senso del limite e il ricordo che l’esistenza terrena è un cammino verso quel posto che il Signore Gesù ha preparato per i suoi discepoli. >>> Se questo sarà il nostro atteggiamento, potremo dire: nulla è come prima.
13 Maggio 2020 Claudio C
13 maggio,
Madonna di Fatima
sub tuum praesidium ...
È madre (festa della mamma)
È madre chi sa fare spazio. Chi si fa concava e convessa senza reticenza. Chi pulisce lacrime a suon di bacini.
È madre chi sa aprire varchi, costruire ponti, inventarsi percorsi. Chi sa scalare montagne a mani nude, posare un cucciolo, poi scendere di corsa e risalire per portarne un altro.
È madre chi accoglie senza distinzione di colore, sesso e di religione.
È madre chi porta in salvo.
È madre chi parla ai figli degli altri come fossero suoi. Chi semina parole di coraggio e sostegno. Chi, ogni giorno, unisce e tesse fili di riconciliazione. Chi protegge tutti i cuccioli come se le appartenessero.
È madre chi aiuta le altri madri e le sorregge quando non ce la fanno.
È madre chi sa guardare oltre la disabilità, l’estraneità, il sangue che non le appartiene, chi fornisce seconde e terze possibilità. Chi rende semplice ciò che è complesso, come l’amore gli uni per gli altri. Chi dà fiducia e non perde mai la speranza di riuscire laddove risiede l’impossibile. Chi intraprende viaggi lunghi per amare il figlio di un’altra. Chi intraprendere viaggi dolorosi per riportare a casa un figlio.
È madre chi lascia la porta aperta anche se non viene oltrepassata da tempo. Chi tiene una lucina accesa per far ritrovare la strada di casa.
È madre chi, a volte, ha paura. Chi lascia spazio ad altre madri e non detiene il primato dell’amore.
È madre chi ama i figli delle altre donne, si fa schiena a cui aggrapparsi e confine con cui definirsi.
Sì è madri sempre, anche quando quel figlio non ci piace, si perde o non c’è più.
È madre chi nella propria casa e in luoghi lontani si fa rifugio per ogni figlio del mondo.
È madre non solo chi è madre.
Essere madre è una condizione, uno stato e non ha a che fare solo con la nascita di un figlio, spesso, ha a che fare con la capacità di prendersi cura dei figli di tutti.
È madre chi protegge quel futuro, in ogni dove, in ogni istante, in ogni occasione.
E non può solo riguardare l’amore verso i propri figli. E non deve.
È madre chi spinge l’umanità.
Madre non si nasce, lo si diventa. (Penny)
A Napoli e Johannesburg, in tempo di covid 19, la fame
Il missionario africano: «Da alcune settimane il governo ha imposto la quarantena e le persone abituate ogni giorno a uscire per procurarsi il cibo si sono ritrovate senza alcun sostentamento per sé e per i famigliari. Qui la disperazione si tocca con mano. Al mio numero personale ricevo quasi tutti i giorni messaggi di ragazzi lavoratori immigrati, disperati, senza niente da mangiare. Alcuni di loro sono l’unica risorsa economica per la loro famiglia che vive in altri Paesi africani. Tra questi, sono moltissimi i mozambicani vittime dello sfruttamento qui in Sudafrica». La situazione descritta all’Agenzia fides dal missionario scalabriniano Pablo Velasquez rivela tutto il dramma delle periferie di Johannesburg, dove vivono gli immigrati e i sudafricani più poveri. Le restrizioni governative per far fronte alla diffusione del coronavirus impediscono loro di procurarsi il cibo, in quanto abituati a vivere alla giornata. Per questo, alla porta della parrocchia di Saint Patrick arrivano anche duecento persone al giorno per avere una borsa con i prodotti alimentari di base per una famiglia. Sono soprattutto immigrati africani, che non sono inclusi nei programmi di aiuto del governo sudafricano. Essi sono costretti dalla fame a rompere le misure restrittive imposte dalle autorità e, così, cresce la tensione. Pablo e i suoi confratelli scalabriniani, però, stanno iniziando a fare fatica a trovare il cibo necessario con le proprie risorse, derivanti soprattutto dalle donazioni dei parrocchiani durante la Quaresima. Ormai, tra le persone in coda davanti alla parrocchia si è arrivati a dire: “meglio morire di coronavirus che di fame”. «Abbiamo sentito spesso pronunciare questa frase. L’altro giorno alcuni l’hanno pronunciata anche di fronte agli agenti della polizia che erano venuti a disperdere la fila di fronte alla nostra chiesa. All’inizio anche noi religiosi temevamo di essere contagiati. Di fronte alla disperazione di questa gente abbiamo ripensato alle parole di Gesù: “Non abbiate paura, sono io…”. Così, pur rispettando le misure imposte dal governo, tendiamo una mano a chiunque ci chieda aiuto».
Il parroco di Napoli: «C'era anche chi mangiava solo passata di pomodoro» - «Abbiamo iniziato con gli anziani ammalati che vivono da soli, poi siamo venuti in contatto con tante famiglie che nell'emergenza covid19 si sono trovate senza nulla, c'era chi mangiava passate di pomodoro, perché avevano solo quelle». Così padre Michele Madonna, parroco di Santa Maria di Montesanto a Napoli, racconta del bisogno a cui la parrocchia sta rispondendo nel quartiere nel cuore di Napoli, arrivando a mille pacchi spesa al giorno. «Ci siamo riusciti - racconta il parroco - grazie alla generosità del quartiere. Avevamo cominciano con i fondi della parrocchia ma poi ci sono arrivati sostegni economici da tantissimi napoletani che abitano nella zona. Per la distribuzione non abbiamo problemi, perché tanti giovani hanno fatto un cammino spirituale che permette loro di andare oltre la paura. E così le spese giornaliere sono salite a 300, poi a 600 e ora siamo a mille».
25 aprile: i preti della Resistenza a Bergamo
Preti sociali da sempre accanto al popolo e ai suoi bisogni. Poi, durante fascismo, guerra e Resistenza, nascono i preti partigiani e resistenziali. Durante il ventennio fascista, la Chiesa bergamasca cercò di evitare lo scontro frontale, ma parallelamente catalizzò tutte le energie per contrastare la concezione totalizzante del regime. Nei suoi studi quando era docente di Storia ecclesiastica, monsignor Roberto Amadei affermò che la Chiesa di Bergamo era riuscita a raggiungere egregiamente questi obiettivi. Questa tesi è ulteriormente avvalorata dai contenuti del volume che già dal titolo dice tutto: «“Ho fatto il prete”. Il clero di Bergamo durante l’occupazione tedesca (settembre 1943-aprile 1945», promosso da Diocesi di Bergamo, Anpi provinciale e Centro Studi Valle Imagna, editore del volume (500 pagine). Frutto di due anni di ricerche meticolose, è stato scritto da Barbara Curtarelli, ricercatrice storica bergamasca, che ha portato alla luce tante microstorie dei preti oppositori che hanno rischiato la propria vita, salvato persone dalla fucilazione, aiutato o mediato. L’autrice ha indagato su numerosi preti, ma anche religiose, di cui ha trovato documentazione in archivi o in altre pubblicazioni, ma il loro numero è più elevato. Il volume riporta anche una frase assai significativa di monsignor Agostino Vismara, presidente dell’Opera Bonomelli: «Chi vive in continua comunione col popolo non può estraniarsi nei momenti di maggiore pericolo e proprio quando sono in gioco i presupposti di ogni possibile vita civile: il pane e la libertà. La resistenza quindi contro l’ingiusta ed inumana esperienza fascista trovò all’opposizione più ostinata tutta la parte più sana del popolo e il clero che vive continuamente in mezzo al popolo». Nel volume emerge che opposizione del clero e la partecipazione alla Resistenza hanno radici lontane. «Possiamo affermare che i sacerdoti sociali dei decenni precedenti sono diventati preti partigiani — sottolinea monsignor Goffredo Zanchi —. Il clero bergamasco era molto vicino al popolo perché in maggioranza proveniva dal mondo rurale, con la capacità di comprenderne cultura, ansie, attese, paure. Proprio per questo nella quasi totalità il clero bergamasco manifestò, più o meno apertamente, la propria ostilità verso il regime. È stato monsignor Roberto Amadei ad aprire le ricerche storiche su questo periodo, che nel tempo si sono arricchite di altri preziosi contributi». Due i motivi principali su cui si fondava l’opposizione. «Innanzitutto per motivi religiosi e morali, per esempio la lotta contro l’Azione cattolica, le leggi razziali e la pessima condotta religioso-morale di molti fascisti. Poi per motivi di credo politico, soprattutto nei preti che avevano accolto il Partito Popolare di don Sturzo. Le indagini recenti dicono che il numero di questi ultimi sia assai più elevato di quanto si pensasse. Per cui — conclude monsignor Zanchi — come dice il titolo del volume, essere prete era anche condividere gli ideali di libertà del popolo, anche se questa condivisione non aveva sempre una motivazione politica. Il risultato fu che il già saldo legame clero-popolo divenne ancora più forte. E i preti apertamente fascisti furono una piccola minoranza».
Lo raggiungiamo al telefono, una mattina di lavoro nel suo "ministero" vaticano dedicato alla cultura. Settantasette anni, il cardinale Gianfranco Ravasi, biblista fra i più autorevoli al mondo, erudita sconfinato, legge con Repubblica questi giorni difficili a causa del «trauma» del coronavirus. Parla di trauma? «Lo è. Come ricorda la radice indoeuropea della parola, "tro-", che significa storcere, perforare, trauma è una ferita inflitta in profondità. Così ne parla anche il Nuovo Testamento. Non so in quale altro modo definire questi giorni».Come uscirne?«Ho letto in questi giorni un saggio di un professore di New York, David McLain Carr. S'intitola Holy resilience , la santa resilienza come chiave di lettura di tutta la Bibbia. Può avere un significato anche per noi adesso». Dobbiamo essere resilienti? «Prima dobbiamo capire cosa è resilienza. Viene dal latino resilire , che significa rimbalzare. È un termine spesso usato per indicare un metallo che assorbe un colpo senza rompersi. Speranza e resilienza , hanno scritto Dan Short e Consuelo Casula, mettendo in pagina quel processo cognitivo ed emotivo che rielabora perdita e traumi superandoli. Ricostruendo un impianto personale emerge una interiorità grande che non si sospettava di avere. Ecco forse è questa la chiave utile per noi». La storia può aiutare? «Dopo il peccato adamico c'è Abramo, dopo il diluvio c'è una nuova umanità, la Pasqua ebraica celebra la liberazione dalla schiavitù egiziana, dopo la crocifissione di Cristo c'è la risurrezione e la missione degli apostoli che dicono che la morte non è l'estuario definitivo. Scrisse Mario Luzi, "Il bulbo della speranza / che ora è occultato sotto il suolo / ingombro di macerie / non muoia, / in attesa di fiorire alla prima primavera". Questi segni di rinascita sono possibilità generate dal trauma». Cosa dice ancora questo trauma? «Che la scienza ha mostrato i suoi limiti. Ha compreso che non basta a sé stessa, che non riesce a spiegare tutto. Ci sono anche altre forme di conoscenza, ad esempio la poesia, la musica, l'amore e anche la fede». Poi? «La nostra scala dei valori è precipitata. Il denaro, il successo, il potere non bastano più, si comprende bene come i valori siano altri». C'è valore nello stare chiusi in casa? «Lo stare in casa può essere una fatica. So di donne che proprio in questi giorni subiscono da parte dei loro compagni violenze terribili, esacerbate proprio dall'essere costrette entro le mura domestiche. Ma nello stesso tempo in questa reclusione c'è anche del positivo perché si può riscoprire il gusto delle relazioni non solo virtuali. Per troppo tempo siamo usciti al mattino per rientrare alla sera e terminare le nostre giornate davanti alla tv. Questi giorni ci offrono qualcosa di diverso». Cosa ancora? «Ci accorgiamo solo oggi di come eravamo caduti nella superficialità. Quante cose inutili: oggi invece possiamo essere diversi, e trovare addirittura il coraggio di parlare ai nostri bambini della morte. La morte ora è davanti a noi. Prima l'unica esperienza di morte che facevamo era quella che ci colpiva quando mancavano i nostri cari». I credenti cosa possono imparare? «Direi che stanno imparando che la fede è anche protesta, alzare la domanda a Dio che fu di Giobbe e di Cristo: dove sei? Perché mi hai abbandonato?» La letteratura può venirci in soccorso? «Ci sono quattro romanzi per me decisivi in questi giorni. Anzitutto La peste di Camus. Un non credente s'interroga sulle credenze umane e anche sul silenzio di Dio. Si può mai credere in un Dio che lascia morire un bambino? Poi i Promessi Sposi di Manzoni, e insieme a La città dolente di Axel Munthe, uno svedese che nel 1884 venne a Napoli per curare le vittime del colera. E, infine , L'amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez. Dovrebbero essere letture imprescindibili oggi». Cosa la colpisce ancora di quanto sta accadendo? «Io sono vecchio, eppure non so se avrei il coraggio di andare volontario a curare i malati. Alla fine andrei, lo so, ma di per sé non ne avrei il coraggio. Per questo la mia ammirazione per i medici e gli infermieri che hanno perso la vita in questi giorni è enorme. Queste persone hanno adempiuto la legge dell'amore esternata da Gesù nell'ultima cena: non c'è amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici. Da loro ci viene una grande lezione, la lezione di una resilienza che si trasforma. Diceva Pascal che l'uomo supera infinitamente l'uomo». La politica come le sembra? «Abbiamo bisogno di una politica che superi l'egoismo. L'uomo, del resto, lavora, agisce, ma giunto alla fine della sua giornata è ancora incompleto. Ha bisogno della relazione, di qualcuno che gli stia di fronte occhi negli occhi. La politica deve amare l'umanità e non fare come Mafalda di Charles M. Schulz che diceva: "Io amo l'umanità, è il vicino di casa che detesto"». Cosa ancora non va? «Ci sono tre grandi sofferenze oggi: la corruzione che si vede anche nel fatto che in questi giorni alcuni benestanti hanno chiesto comunque 600 euro al governo. Voglio dirlo: questo è peccato. Poi peccato grave resta l'evasione fiscale. Paolo nella Lettera ai romani chiede di pagare le tasse a Cesare che, è giusto ricordarlo, a quel tempo era Nerone. Infine c'è la sofferenza data dalle diseguaglianze sociali che emergono sempre più. Forse la crisi della politica si risolverebbe permettendo alle donne di accedere ai posti di potere. Le donne hanno generato. Prima di uccidere, di distruggere, ci pensano due volte. Hanno caratteristiche che noi uomini non abbiamo». Accanto alla politica cosa serve? «È importane che ritorni la religione, il ruolo della religione nella società. C'è il Papa a cui guardare che fa vedere la vulnerabilità e chiede sguardi alti, che trascendono. E chiede la morte dei fondamentalismi e degli egoismi. E poi la cultura, che è muta. Pensi che faccio fatica a trovare per il Cortile dei gentili voci di atei che abbiano una visione alternativa e che non sia legata alla malattia della superficialità. Almeno fino all'avvento del coronavirus era tutto grigio, vivevamo come nella nebbia. Un tempo non era così. Nell' 800 avevamo il pessimismo di Leopardi insieme a Dostoevskij che entrava nelle profondità del male elevandosi poi verso il bene. E Manzoni. E ancora la grande poesia. Nel '900 c'erano Ungaretti, Mario Luzi, Turoldo, Montale con la sua nostalgia del credere, eguagliata in un certo senso da una frase di García Márquez quando disse: "Sfortunatamente Dio non ha nessuno spazio nella mia vita, ma spero, se esiste, di avere io spazio nella sua"». Se dovesse suggerire come iniziare queste giornate cosa direbbe? «Proverei a iniziarle con la Bibbia: lo sa che per esattamente 365 volte ricorre l'espressione "non temere"? Per un anno si potrebbe ogni mattina fare propria una di queste espressioni, come una sorta di "buon giorno" da parte di Dio».preghiera per il tempo della prova
O beatissimo Egidio, tu che i pellegrini del Camino di Santiago hanno sperimentato come il più sollecito di tutti i Santi a giungere in soccorso dei bisognosi, dei tribolati e degli afflitti che a te si rivolgono, guarda alle nostre presenti necessità: non ci rallentino nel cammino della carità, non ci deviino dai sentieri della giustizia, ma ci aiutino a confermarci sempre più nella fiducia: del Padre, che ci ha sempre nelle sue mani, del Figlio che si è dato per salvarci, e dello Spirito d’amore che scalda i nostri cuori e dirige i nostri passi nelle freddezze della vita. Amen
Una favola africana, della serie ciascuno faccia il suo
Un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all’avanzare delle fiamme, tutti gli animali scapparono terrorizzati mentre il fuoco distruggeva ogni cosa senza pietà. Leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume, ma ormai l’incendio stava per arrivare anche lì. Mentre tutti discutevano animatamente sul da farsi, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d’acqua, incurante del gran caldo, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure e proseguì la sua corsa sospinto dal vento. Il colibrì, però, non si perse d’animo e continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d’acqua che lasciava cadere sulle fiamme. La cosa non passò inosservata e ad un certo punto il leone lo chiamò e gli chiese: “Cosa stai facendo?”. L’uccellino gli rispose: “Cerco di spegnere l’incendio!”. Il leone si mise a ridere: “Tu così piccolo pretendi di fermare le fiamme?” e assieme a tutti gli altri animali incominciò a prenderlo in giro. Ma l’uccellino, incurante delle risate e delle critiche, si gettò nuovamente nel fiume per raccogliere un’altra goccia d’acqua. A quella vista un elefantino, che fino a quel momento era rimasto al riparo tra le zampe della madre, immerse la sua proboscide nel fiume e, dopo aver aspirato quanta più acqua possibile, la spruzzò su un cespuglio che stava ormai per essere divorato dal fuoco. Anche un giovane pellicano, lasciati i suoi genitori al centro del fiume, si riempì il grande becco d’acqua e, preso il volo, la lasciò cadere come una cascata su di un albero minacciato dalle fiamme. Contagiati da quegli esempi, tutti i cuccioli d’animale si prodigarono insieme per spegnere l’incendio che ormai aveva raggiunto le rive del fiume. Dimenticando vecchi rancori e divisioni millenarie, il cucciolo del leone e dell’antilope, quello della scimmia e del leopardo, quello dell’aquila dal collo bianco e della lepre lottarono fianco a fianco per fermare la corsa del fuoco.
A quella vista gli adulti smisero di deriderli e, pieni di vergogna, incominciarono a dar manforte ai loro figli. Con l’arrivo di forze fresche, bene organizzate dal re leone, quando le ombre della sera calarono sulla savana, l’incendio poteva dirsi ormai domato. Sporchi e stanchi, ma salvi, tutti gli animali si radunarono per festeggiare insieme la vittoria sul fuoco. Il leone chiamò il piccolo colibrì e gli disse: “Oggi abbiamo imparato che la cosa più importante non è essere grandi e forti ma pieni di coraggio e di generosità. Oggi tu ci hai insegnato che anche una goccia d’acqua può essere importante e che insieme si può spegnere un grande incendio. D’ora in poi tu diventerai il simbolo del nostro impegno a costruire un mondo migliore, dove ci sia posto per tutti, la violenza sia bandita, la parola guerra cancellata, la morte e la fame solo un brutto ricordo”.
In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani (…).Giovanni 4,5ss
Libri
La presenza pura di C. Bobin, ed AnimaMundi, pagg 75 – È il diario di un incontro molteplice, i cui protagonisti dialogano sul piano di parità. L’Inverno, la neve e la pioggia, il vento e le foglie, un padre e un figlio che semplicemente esistono. “Nel rovescio del mondo” la casa di cura in cui il padre dell’Autore viene a poco a poco sommerso dal morbo di Alzheimer, ciascuno è ricondotto a una identità essenziale, primigenia. I rami spogli, nel giardino della clinica, suggeriscono che il fallimento è legittimo nel percorso di una creatura verso la luce. Il racconto di Bobin, scandito dalla virtù rara in cui lo sguardo si fa parola, senza orpelli letterari, ma conducendo alla poesia più pura, qui si fa confidenza. Ciò che in noi è ferito chiede e trova nelle opere di Bobin l’equilibrio che salva. Dove le parole generano tenerezza, cura vicinanza: quello di cui occorre a ciascuno nelle diversità delle prove a cui è chiamato dalla vita. È il fascino di una letteratura meditativa, come l’ha definito nel 2016 l’Academie Francaise.
I santi vanno all’inferno, di Gilbert Cesbron, Mondadori 2014 ( € 18,oo,) in Amazon, prime edizioni dal 1966 (€ 10,oo)
Romanziere francese del ventesimo secolo di ispirazione cattolica, Cesbron in questo romanzo racconta dell’impegno dei preti operai nella periferia parigina. Il protagonista, Pietro, sceglie infatti attraverso la sua condizione di prete operaio di predicare il Vangelo nella banlieu parigina Sagny, un posto dimenticato che non si trova neanche sulla cartina geografica di Parigi. L’autore usa un linguaggio molto efficace per descrivere la rassegnazione delle famiglie che vivevano in periferia. Si veda, ad esempio, la disperazione di Paoletta, che pensa di abortire perché non può sfamare un altro figlio. Un bel romanzo, che parla di qualcosa che non c’è più, non solo i preti operai, ma gli operai veri e propri. E non c’è più la lotta di classe, il comunismo etc. Eppure è un romanzo molto attuale se pensiamo al tema delle periferie e dei suoi problemi. La periferia come un luogo da evangelizzare, per umanizzarla. Ma anche un luogo che può aiutare cristiani tiepidi, o da salotto come li ha definiti Papa Francesco, a vivere la forza rivoluzionaria del messaggio cristiano La periferia non come un problema ma una risorsa. Il luogo geografico e umano da cui ripartire per costruire un mondo più giusto. Per finire, non ci vedo la lotta tra i bravi cristiani e la chiesa cattiva. No. È tutta la chiesa che è così, non ci sono buoni e i cattivi. Si vive insieme, si sbaglia e ci si aiuta, e si prega perché il signore illumini tutti. D’altronde il cardinal Suhard, anche personaggio del romanzo, non dovrebbe rappresentare l’istituzione cattiva? E invece no. – un libro da leggere o da rileggere –
Cinema
Sorry We Missed You prende il titolo dalla frase standard stampigliata sugli avvisi lasciati dai corrieri ai destinatari dei pacchi in consegna che non hanno trovato in casa. In questo suo nuovo film, infatti, Loach racconta per l'ennesima volta le fatiche dei lavoratori più umili: che, in questo caso, sono appunto corrieri schiavizzati e costretti tour de force impensabili per rispettare scadenze, orari e numero di consegne imposte loro dai datori di lavoro e dalle leggi spietate dell'e-commerce, che comporta dinamiche pratiche e umane spesso invisibili e non considerate da coloro che acquistano con un click dai loro computer e dai loro smartphone. Nè Verga nè Dickens saprebbero raccontare la bolla del " lavoro fluido", del precariato travestito da lavoro autonomo 3.0 , meglio dello spietato Ken Loach di oggi. Dopo averci regalato lacrime e magoni con il sublime Daniel Blake ,che ci ha introdotti al mondo dei navigator e del sussidio di disoccupazione (id est reddito di cittadinanza) , Ken ci presenta la realtà vera della Gig economy, quella dell' e-commerce che tutti ci attrae nel suo magico giro misterico. Belli gli acquisti on line, bello il fattorino che ci recapita l'agognato pacchetto, meno bello il sistema implacabile che strangola lentamente i "padroncini " che coi loro furgoni si incaricano delle consegne "temporizzate". La pellicola di Ken Loach è uno spaccato familiare che descrive ancora una volta il dramma del lavoro precario di oggi e come in ogni suo film, il microcosmo familiare è la lente per osservare meglio le derive della società inglese e di quella globale. Un film da non perdere.
Parasite, del regista Bong Joon-ho (in programmazione a Longuelo, Curno, Orio). --- Un'opera solida, coesa e compiuta, visivamente ricercata ma sempre al servizio del tema che sceglie di mettere in scena con amara consapevolezza, spaziando tra commedia, dramma e thriller. Il regista mai come questa volta convince così tanto e profondamente. Ki-taek da una parte e Park dall'altra, è nell'incontro e contrasto tra le due famiglie che si sviluppa l'intrigante intreccio del film di Bong Joon-ho, che si sviluppa alternando con sapienza e perfetto equilibrio i generi, tra commedia, dramma e thriller. Tra i personaggi di Parasite, i Park sono ricchi, puliti e corretti quanto i Ki-taek sono poveri e sporchi. Se da una parte ci sono individui abituati a lottare quotidianamente per tirare avanti, a improvvisare e cercare le scorciatoie necessarie per arrivare a qualcosa di concreto, dall'altra i Park fanno capo al dirigente di una importante azienda informatica, sono abituati a essere serviti, a pagare lautamente per ogni propria esigenza, dalla governante all'autista e le lezioni di inglese e arte per i propri giovanissimi figli. Due facce della polarizzante medaglia che è il contesto sociale della Corea del Sud. Noi l’abbiamo visto un mese fa. Splendido per chi ama film da generi compositi, dalla commedia che fa sbottare in risate al dramma che chiama se non lacrime una accentuata commozione, e al giallo che mette in tensione. In questi giorni, dopo l'Oscar, è ritornato in programmazione a Bergamo e Milano: non lasciarselo sfuggire.
SPeS: Speranza Passione e Sentimento del vivere
Mostra pittorica di Mario Giudici - Sospese tra le arcate della Chiesa Abbaziale, tredici tele raccontano trepidazione e lacerazione di un Papa dall’educazione ecclesiale ottocentesca alla svolta epocale di un Concilio. In una seconda sezione, ospitata nella chiesetta accanto all'Abbazia, una serie di tele che raccontano paesaggi "febbrili, da cui emergono soprattutto alcune figure con irresistibile impeto. Il toro, a rappresentare la sua forza per partecipare o per non esserne straziati ... la grande nave ambigua e pericolosa, non sai se ormai arenatasi o in procinto di lasciarci". "Il santo, figura di santità assolutamente esigente. Nulla di sentimentale. Santo profeta:: di fronte a noi appare tanto misericordioso quanto accusatore. giustizia e amore in uno. ferito in sé quando è costretto ad accusare e punire. lieto quando perdona". (M. Cacciari)
LIBRI
Sorge, Perché il populismo fa male al popolo, ed Terrasanta, pagg 128 --- L'equivoco di fondo del populismo sta nel ritenere che la maggioranza parlamentare si identifichi con il popolo tutto intero, legittimando il comportamento trasgressivo dei leader eletti, che ambiscono a conquistare spazi di potere sempre maggiore. Occorre prendere posizione con coraggio su una serie di sintomi, espliciti indicatori di un cancro della nostra democrazia». Da questa forte provocazione prende le mosse la riflessione di un grande protagonista e testimone della storia politica italiana, che con sguardo lucido lancia un allarme sulle derive istituzionali in atto nel nostro Paese, in Europa e nell'intero Occidente. Pungolato dalle domande di Chiara Tintori, padre Sorge. Gesuita, denuncia la superficialità con cui l'attuale politica, ossessionata dal consenso, affronta problemi complessi - immigrazione, povertà, disoccupazione - evitando di indagare, con la necessaria competenza, le radici profonde dei mali che affliggono la società italiana. L'antidoto al populismo è per i due autori un "popolarismo" moderno, certamente ancora ispirato all'Appello ai liberi e forti di don Sturzo (1919) - che con straordinaria lungimiranza aveva posto i fondamenti di una "buona politica" e di una "laicità positiva" -, ma capace di declinarsi oggi nelle nostre società multiculturali e multireligiose.
"La xenofobia distrugge anche il popolo di Dio" ----
I poveri si fanno affascinare da alcune sètte protestanti e sperano di diventare ricchi aderendovi. Come fare affinché la nostra evangelizzazione non sia proselitismo? «Ci sono sètte che non si possono davvero definire cristiane. Predicano Cristo, sì, ma il loro messaggio non è cristiano. Nulla a che vedere con la predicazione di un luterano o di un altro cristiano evangelico serio. Questi cosiddetti "evangelici" predicano la prosperità, promettono un Vangelo che non conosce la povertà, ma cercano semplicemente di fare proseliti. È proprio quello che Gesù condanna nei farisei del suo tempo. Oggi una signora mi ha avvicinato con un giovane e una giovane. Mi è stato detto che facevano parte di un movimento un po’ fondamentalista. Mi ha detto: "Santità, vengo dal Sud Africa. Questo ragazzo era indù e si è convertito al cattolicesimo. Questa ragazza era anglicana e si è convertita al cattolicesimo". Me lo ha detto in maniera trionfale, come se avesse fatto una battuta di caccia con il trofeo. Mi sono sentito a disagio e le ho detto: "Signora, evangelizzazione sì, proselitismo no"».Come è cambiata la sua esperienza di Dio da quando è stato eletto Papa? «Credo che la mia esperienza di Dio non sia cambiata. Resto sempre lo stesso di prima. Avverto un senso di maggiore responsabilità, senza dubbio. La mia preghiera di intercessione poi si è fatta molto più ampia di prima. Ma anche prima vivevo la preghiera di intercessione e avvertivo la responsabilità pastorale. Parlo al Signore come prima. E poi commetto gli stessi peccati di prima. L’elezione a Papa non mi ha convertito di colpo, in modo da rendermi meno peccatore. Sono e resto un peccatore. Per questo mi confesso ogni due settimane. Mi conforta molto sapere che Pietro, l’ultima volta che appare nei Vangeli, è ancora insicuro come lo era prima. Leggere dell’ipocrisia di Pietro mi conforta tanto e mi mette in guardia. Soprattutto mi aiuta a capire che non c’è alcuna magia nell’essere eletto Papa. Il conclave non funziona per magia».Come si fa a evitare di cadere nel clericalismo nel corso della formazione al ministero sacerdotale? «Il clericalismo è una vera perversione nella Chiesa, pretende che il pastore stia sempre davanti, stabilisce una rotta, e punisce con la scomunica chi si allontana dal gregge. Insomma: è proprio l’opposto di quello che ha fatto Gesù. Il clericalismo condanna, separa, frusta, disprezza il popolo di Dio. Il clericalismo confonde il "servizio" presbiterale con la «potenza» presbiterale. Il clericalismo è ascesa e dominio. In italiano si chiama "arrampicamento". Il clericalismo ha come diretta conseguenza la rigidità. Non avete mai visto giovani sacerdoti tutti rigidi in tonaca nera e cappello a forma del pianeta Saturno in testa? Dietro a tutto il rigido clericalismo ci sono seri problemi. Una delle dimensioni del clericalismo è la fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento. Una volta un gesuita mi disse di stare attento nel dare l’assoluzione, perché i peccati più gravi sono quelli che hanno una maggiore "angelicità": orgoglio, arroganza, dominio. E i meno gravi sono quelli che hanno minore angelicità, quali la gola e la lussuria. Ci si concentra sul sesso e poi non si dà peso all’ingiustizia sociale, alla calunnia, ai pettegolezzi, alle menzogne».Cosa pensa di questa xenofobia dilagante? «La xenofobia e l’aporofobia — fobia che rappresenta la paura per la povertà o per i poveri, ndr — oggi sono parte di una mentalità populista che non lascia sovranità ai popoli. La xenofobia distrugge l’unità di un popolo, anche quella del popolo di Dio. E il popolo siamo tutti noi: quelli che sono nati in un medesimo Paese, non importa che abbiano radici in un altro luogo o siano di etnie differenti. Oggi siamo tentati da una forma di sociologia sterilizzata. Sembra che si consideri un Paese come se fosse una sala operatoria, dove tutto è sterilizzato: la mia razza, la mia famiglia, la mia cultura, come se ci fosse la paura di sporcarla, macchiarla, infettarla. Si vuole bloccare quel processo così importante che dà vita ai popoli e che è il meticciato. Mescolare ti fa crescere, ti dà nuova vita. Sviluppa incroci, mutazioni e conferisce originalità. Il meticciato è quello che abbiamo sperimentato, ad esempio, in America Latina. Da noi c’è tutto: lo spagnolo e l’indio, il missionario e il conquistatore, la stirpe spagnola e il meticciato. Costruire muri significa condannarsi a morte. Non possiamo vivere asfissiati da una cultura da sala operatoria, asettica e non microbica».Ho sentito che i missionari francesi usavano dare come penitenza per i peccati di far piantare alberi. Cosa ne pensa? «Mi sembra un’intuizione pastorale molto creativa! Da quel che mi dici si è trattato di una penitenza sociale, ambientale, che si prende cura di costruire la società. Quando sono andato alla Città dell’amicizia, padre Pedro mi ha fatto vedere alcuni pini. Mi ha detto che li aveva piantati proprio lui 20 anni fa. Questo è davvero molto bello».«Non temo lo scisma e prego perché non ce ne siano». ... in un suo DaQui lei don Attilio si è detto non impaurito daun possibile scisma purché si faccia pulizia presso il popolo della Chiesa che non scandalizzi più i credenti. Questo réportage credo che possa completare il suo pensiero ... (Al. Man.)«Non temo lo scisma e prego perché non ce ne siano». “Quando vedete cristiani, vescovi, sacerdoti, rigidi, dietro di loro ci sono dei problemi, non c’è la sanità del Vangelo”.L’aereo sorvola il Kilimangiaro quando Francesco raggiunge i giornalisti che lo hanno seguito in Mozambico, Madagascar e Mauritius. All’andata, nel commentare un libro sugli attacchi contro di lui dell’ultradestra cattolica americana, il Papa aveva esclamato: per me è un onore che mi attacchino. Ora risponde sereno ma secco: «Io prego che non ci sia uno scisma, ma non ho paura. Nella Chiesa ci sono stati tanti scismi». Negli occhi ha l’immagine di innumerevoli bimbi: «L’africa è un continente giovane. Come ho detto a Strasburgo la madre Europa è quasi diventata la nonna Europa, è invecchiata, stiamo vivendo un inverno demografico gravissimo. Ho un’opinione personale: penso che la radice sia il benessere, attaccarsi al benessere. Sì, ma stiamo bene, io non faccio figli perché devo comprare la villa, fare turismo, un figlio è un rischio, non si sa mai...».Santità, negli Usa ci sono forti critiche e alcune persone a lei vicine parlano di un complotto contro di lei... «Le critiche non sono soltanto degli americani ma un po’ dappertutto, anche in Curia, almeno quelli che hanno l’onestà di dirlo. E a me piace, non mi piace quando le critiche stanno sotto il tavolo, ti fanno un sorriso che mostra i denti e poi ti pugnalano da dietro. La critica delle pillole di arsenico non serve, non aiuta. Aiuta i piccoli gruppetti chiusi che non vogliono sentire la risposta. Invece una critica leale è aperta alla risposta e costruisce. Fare una critica senza voler sentire risposta e senza dialogo è non volere bene alla Chiesa, è andare dietro ad un’idea fissa, cambiare Papa, stile, o fare uno scisma». Ha paura di uno scisma nella Chiesa americana? «Nella Chiesa ci sono stati tanti scismi. Dopo il Concilio Vaticano I e l’ultima votazione, sull’infallibilità, un bel gruppo si è staccato dalla Chiesa e ha fondato i veterocattolici. Anche il Vaticano II ha creato queste cose, forse il distacco più conosciuto è quello di Lefèbvre. Sempre c’è l‘azione scismatica nella Chiesa, è una delle azioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi. Prego perché non ce ne siano, perché c’è di mezzo la salute spirituale di tanta gente, prego che ci sia il dialogo e la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino nello scisma non è cristiano. Pensiamo all’inizio della Chiesa: tanti scismi, basta leggere la storia, ariani, gnostici, monofisiti... È stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi. Gli scismatici hanno sempre una cosa in comune: si staccano dal popolo, dalla fede del popolo di Dio. Uno scisma è sempre una situazione elitaria, l’ideologia staccata dalla dottrina. Per questo io prego che non ci siano. Ma non ho paura. Questo è uno dei risultati del Vaticano II, non è che questo Papa o un altro Papa... Ad esempio le cose sociali che io dico sono le stesse che ha detto Giovanni paolo II, le stesse, io copio lui. “Ma il Papa è troppo comunista, eh”! Entrano delle ideologie nella dottrina, e quando accade lì c’è la possibilità di uno scisma. E c’è ideologia, cioè la primazia di una morale asettica sulla morale del popolo di Dio. Oggi abbiamo tante scuole di rigidità dentro della Chiesa, che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudoscismatiche che alla fine finiranno male». Cosa pensa del fenomeno della xenofobia in Africa? «Non è solo dell’africa, è una malattia umana, come il morbillo. Ti viene, entra in un Paese, in un continente. I muri lasciano fuori tanta gente, ma coloro che li fabbricano rimarranno dentro soli e alla fine della storia saranno sconfitti da invasioni potenti. La xenofobia è una malattia, “la purezza della razza”, per nominarne una del secolo scorso. Le xenofobie tante volte cavalcano i cosiddetti populismi politici. Delle volte sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel ’34. C’è un ritornello in Europa, ma anche in Africa c’è una xenofobia interna: il tribalismo».Gian Guido Vecchi, da Il Corriere della seraIl catechismo al SenatoDa tempo ha forzato la mano e ha deciso di cercare una contiguità con i segmenti di elettorato più estremi; non solo quelli politicamente più estremisti come Forza Nuova e CasaPound, ma anche con quelli religiosamente più integristi. Portatori di omofobia in nome del familismo, di islamofobia in nome di odii identitari, aree della devozione popolare — specialmente mariana — di cui qualche radio e qualche prete si è intestato la rappresentanza: che avrebbero dovuto restare ipnotizzati dall’agitazione ingrugnita del rosario, impugnato come fosse l’amuleto fallico del dio Po o un remake lombardo dell’esorcista. Quella scelta, che secondo gli sceneggiatori delle propaganda salviniana (La Bestia n.d.r.) avrebbero dovuto rendergli molto, ha sedotto solo qualche prete svitato e ha portato alle due lezioni di catechismo impartite nell’aula del Senato, quasi a dare il segno di una capacità di reazione del cattolicesimo che finora era rimasta afona ma non inesistente. Se Giuseppe Conte, devoto di padre Pio, ha denunciato la blasfemia spirituale e costituzionale di quel gesto nell’aula del Senato dove il rosario era già stato molte volte, ma rimanendo chiuso nelle tasche di La Pira o di Scalfaro, è perché ha sentito dentro di sé e attorno a sé, di qua e di là dal Tevere, l’indignazione di tutto il cattolicesimo. Tutti disgustati da una strumentalità che è apparsa anche in una citazione (alquanto insipida a dire il vero, ma almeno non manipolata come quella d’una esortazione post-sinodale usata altre volte sulle migrazioni) di Giovanni Paolo II. Matteo Renzi ha invocato lo sbarco per i migranti della Open Arms con la citazione della parabola del giudizio finale al capo 25 del vangelo di Matteo che ricorda ai giusti, che aver dato da mangiare a chi ha fame, da bere a chi ha sete, vestito l’ignudo e via dicendo è un gesto fatto al Cristo in persona. Quando Salvini diede del "povero comunista" a un ragazzo con lo striscione "ama il prossimo tuo" — forse non rendendosi conto che usava lo stesso cliché usato in America Latina dai militari contro i vescovi e anche contro Bergoglio — le reazioni sono state poche: ma se quelle a cui ha dato voce l’ex segretario del Pd sono state di più è perché nel cattolicesimo la convinzione che l’Italia, pur dovendo regolare i flussi migratori in entrata e in uscita, non può diventare il Paese dove la fede resta muta quando l’unità della famiglia umana viene messa in discussione verbis et operibus. Qualcuno anche fra i leghisti avrà pensato fra sé e sé: «l’avevo detto» e si sarà ricordato dei fischi a Francesco in piazza Duomo e dell’adagio "chi mangia papa crepa". Alberto Melloni, da La Repubblicanel caso vi possa sfuggire in quest'estate così calda e non solo per il sole, un bellissimo affondo di Selvaggia Lucarelli per bacchettare i "mori" con qualche sorriso intelligente “Matteo, Medjugorje è Mark Caltagirone”. Lettera al leghista: “Mi tenga fuori dalla propaganda”Caro Matteo, mi presento: sono la Beata Vergine Maria, colei che ieri hai ringraziato in un tweet. Di solito non mi scomodo a rispondere ai tanti che mi invocano, ma visto che Papa Francesco mi ha definita l’influencer di Dio e tu sei l’influencer di una buona fetta di italiani che credono nel tuo verbo (nello specifico il verbo ruspare), scendo momentaneamente sulla Terra e ti spiego un paio di cose. Io ne ho sopportate tante nella vita, compreso Paolo Brosio. Avevo fatto la gnorri anche quando in piazza, a Milano, hai baciato il rosario e hai affidato il paese “all’Immacolato cuore di Maria”. Ho sperato che ti rivolgessi alla De Filippi, magari aspirando a un falò di confronto con la Isoardi. Adesso però non riesco più a tacere. TI SEI DEFINITO felice che il decreto Sicurezza bis sia passato proprio “il 5 agosto che per chi è stato a Medjugorje rappresenta il compleanno della Vergine Maria”. Tanto per cominciare: grazie per il pensiero, Matteo, ma come certi mariti distratti hai toppato la data. Io sono nata l’8 settembre. Il 5 agosto è nata la Madonna di Medjugorje, nello specifico una collega che non esiste, una che definirei la Mark Caltagirone delle apparizioni mariane, per fare un esempio alla tua portata. Guarda, te la faccio più semplice ancora: l’apparizione della Madonna di Medjugorje non è mai avvenuta, la sparizione dei 49 milioni della Lega invece sì. E, siccome il mio superiore è pure spiritoso, tu ti chiami Matteo come San Matteo, il santo protettore della Guardia di Finanza, pensa che graziosa boutade ti ha dedicato. Detto ciò, visto che ti piace credere a un legame simbolico tra date e avvenimenti, te ne rivelo uno io: tu sei nato il 9 settembre e sai chi è nato il 9 settembre come te a parte l’Inter (e tu sei milanista, che soave giubilo)? La Barbie! Vedi, il 9 settembre sono nati due dei pupazzi più famosi della storia! Non trovi che questo, sì, sia un preciso segno dell’esistenza di Dio? Un disegno divino? E ora passiamo a qualche lezione di mariologia. No Matteo, non ti stai confrontando con una giornalista, non mi rispondere con strafottenza che la biografia dell’amico Mario Giordano la conosci benissimo. La mariologia è la branca della teologia che studia me, Maria. Vedi, tu ti sei definito “padre di 60 milioni di italiani”. Ecco, io sono modestamente madre di un solo figlio, ma m’è uscito decisamente meglio dei tuoi. E credimi, tirarlo su non è stato facile. Tanto per cominciare, il suo arrivo mi venne annunciato da un giorno all’altro, con Giuseppe che all’inizio non ha capito né come sia stato concepito né il proprio ruolo in questa vicenda. Sì, lo so che anche il tuo di Giuseppe, Giuseppe Conte, non ha capito come sia stato concepito ’sto governo e il suo ruolo in questa vicenda, ma noi avevamo qualche problema in più. Giuseppe doveva partecipare a un censimento, tipo quello che vuoi tu per i rom, quindi eravamo in viaggio. Mio figlio è nato e siamo dovuti scappare in Egitto perché Erode lo voleva uccidere. Ecco, se ci fossero stati i tuoi decreti sicurezza, l’egiziano alla frontiera ci avrebbe detto: “Tornate indietro in Giudea, è un posto sicuro!” e oggi ai tuoi comizi ringrazieresti, al massimo, la madre di un altro Cristo, Krzysztof Piatek. Non avevamo moto d’acqua per fuggire via mare, non avevamo cibo con cui fare selfie e, a dirla proprio tutta, Giuseppe era pure un bellimbusto che sembrava scappare da tutto tranne che dalla fame e dalla guerra. Gli mancava giusto l’iPhone ed è un vero peccato, perché almeno avremmo potuto twittare “Amici, se voi ci siete noi andiamo avanti! Le minacce non ci spaventano. E al ricco e viziato Erode diciamo: bacioni!”. Poi vabbè, mio figlio è diventato quello che è diventato, ma pensa, nonostante abbia camminato sulle acque anziché avanzare con le ruspe, nonostante abbia trasformato l’acqua in vino davanti al popolo anziché in mojito davanti a una consolle, nonostante sia stato capace di guarire i ciechi anziché di rendere ciechi i suoi discepoli come te, non si è mai fatto chiamare “capitano”. Anche perché io sarò pure piena di grazia, ma il battipanni, se mio figlio dovesse imboccare la tua deriva narcisistica, lo saprei usare anch’io. E a proposito di soprannomi, i miei sono Beata Vergine Maria del Soccorso, Ausiliatrice, Nostra Signora della Misericordia e anche Stella Maris, ovvero stella polare e guida per chi viaggia per mare. ORA CAPISCI BENE, caro Matteo, che ringraziare ME per un decreto che stabilisce che gli ultimi della Terra possono pure essere ingoiati dai flutti, mi ha fatto drizzare il velo. Ringrazia Schettino, se proprio cerchi un modello ispiratore. Infine, prima che suoni l’Ave Maria di Schubert al Papeete, ti chiedo di riporre i rosari e di lasciarmi fuori dalla tua propaganda. Prova, piuttosto, a seguire un consiglio cristiano che sembra fatto apposta per te: ama il prossimo tuo come te stesso. Cioè tantissimo. Ah. Solo un’ultima cosa: sai la storia che avrei pianto sangue, di tanto in tanto? Ecco. Era una bufala pure quella. Ma solo fino a ieri. Poi ho letto il tuo tweet. tratto da "il fatto quotidiano"Libri Preziosi, Indimenticabile. I 33 giorni di papa Luciani, ed Cantagalli / Railibri, pp 160. ll 1978 è un anno cupo e orribile. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, il massacro dei cinque uomini della scorta, i tormenti di Paolo VI, lo scandalo Lockheed e le dimissioni del presidente Giovanni Leone, le trame finanziarie di Calvi, Sindona e Marcinkus. “In Italia si respira un clima pesantissimo, in nome del quale si può alimentare ogni sospetto, ogni complotto, ogni illazione, in un intreccio mefitico di avvenimenti non chiari, di fatti, questioni, affari, persone e intrighi sui quali ancora oggi si fa fatica a fare luce”. L’elezione di Luciani arriva “come un vento di primavera che interrompe l’inverno del terrorismo e del piombo”. Il Patriarca di Venezia era un uomo umile e mite determinato a riportare la Chiesa alla purezza e povertà dei primi cristiani. I segni sono inequivocabili: il primo Papa che sceglie un nome doppio e rinuncia all’incoronazione», che parla di sé in prima persona e non col ”noi”, che interviene a braccio definendosi “povero Cristo, vicario di Cristo”, una cosa così inaudita che il giornale vaticano e i testi ufficiali lo censurano. Un libro anche per spiegare come sia nato il sospetto non vero e tuttavia “verosimile” di un complotto per uccidere il Papa. E per capire i più evidenti complotti contro papa Francesco; quando si predica Vangelo, i più riottosi sono gli affamati di potere: di vesti paonazze o violacce o nere siano rivestiti. Creandosi codazzo tra i credenti.libri


LE PAROLE SEMPLICI DEL BUONSENSO_ contro chi calpesta il pane
Sembrava un "Aprile" a lieto fine, ma senza Nanni Moretti in tinello e Massimo D’Alema sullo schermo. Un giovane, ripreso dai telefonini di chi voleva irriderlo, che metteva in fila una via l’altra quattro cose se non di sinistra, di civiltà. Concetti di buon senso, ovvietà valoriali che ormai da questa parte del mondo, spesso barcollante, timorosa, inchiodata alla ricerca del consenso spicciolo o del quieto vivere, pensiamo destinate a una minoranza. Empiti di tolleranza che ci paiono, più che irricevibili, non consegnabili, circondati come sono dal crepitio delle tv, e dei social, che ripetono lo stesso gorgogliando la stessa parodia di insulto: "Buonisti!". Nei 15 anni di Simone, c’è il gusto profondo della sfida al pensiero dominante. Il coraggio concreto di scandire i propri riferimenti culturali, più che politici, sapendo che sono impopolari tra chi lo circonda. Concretamente. Con la concreta possibilità di perdere un dente o più, non follower. La speranza che il "cosa" dici, quando speri di cambiare le regole del gioco, sia più importante del rumore altrui che ti fa velo. C’è, inoltre, un tono di voce che radical chic — altro rifugio espressivo dei cattivisti — proprio non è. Un lessico popolare che in pochi secondi fa giustizia della polemica anabolizzata tra élite e popolo, il cui sfruttamento da parte delle vere élite, comprese Lega ed elettori ex berlusconiani/neogrillini, rappresenta uno dei più clamorosi inganni della nostra Storia recente. Dal quale il popolo prima o poi si desterà. Prendendola malissimo. Il destino scampi e liberi il piccolo riformista riluttante dal consenso interessato di cui sarà oggetto da oggi (ieri, dai) in poi. Spero non disdegni il "grazie" di un vecchio signore che, affaticato pure ieri dal clangore dei social, per un attimo ha aperto la finestra e ha scorto un improvviso, promettente, scintillio. Luca Bottura
CINEMA
Green Book - Il titolo del film viene da una guida pubblicata dagli anni 50 dedicata ai “viaggiatori negri” per aiutarli a trovare motel (non certo hotel di livello, rigorosamente riservati ai bianchi) e ristoranti che li avrebbero accettati.Chiunque veda questo film , in perfetto equilibrio fra risata e parabola sulla tolleranza, ne rimane conquistato. Gli americani hanno un termine per definire questo tipo di film: non stupisce che proprio attraverso le risate si possa veicolare un messaggio di rispetto della diversità, un invito a guardare al diverso con curiosità, magari per ribaltare un pregiudizio negativo. Sono tematiche sempre attuali, a maggior ragione in un'epoca in cui le minoranze stanno rivendicando a giusto titolo la dovuta attenzione anche a Hollywood.
LIBRI
G. Carofiglio, La versione di Fenoglio, ed Einaudi - Pietro Fenoglio, un vecchio carabiniere che ha visto di tutto, e Giulio, un ventenne intelligentissimo, sensibile, disorientato, diventano amici nella più inattesa delle situazioni. I loro incontri si dipanano fra confidenze personali e il racconto di una formidabile esperienza investigativa, che a poco a poco si trasforma in riflessione sul metodo della conoscenza, sui concetti sfuggenti di verità e menzogna, sull'idea stessa del potere. La versione di Fenoglio è un manuale sull'arte dell'indagine nascosto in un romanzo avvincente, popolato da personaggi di straordinaria autenticità: voci da una penombra in cui si mescolano buoni e cattivi, miserabili e giusti. Quando il "giallo" aiuta a capire l'uomo, e i suoi reconditi invisibili.
ORATE, di Giuseppe Delle Vergini
“Noi siamo quello che mangiamo!”. Così disse Mara all’amico. Che fece silenzio. Lungi da lui l’essere trascinato in una battaglia sul cibo, in quella guerra infinita tra vegani e pastafariani, onnivori e carnivori, vegetariani contro erbivori! Aveva solo voglia di pranzare con qualcosa di buono data l’ora e l’acquolina in bocca. Inseguiva l’amica tra un banco e l’altro del mercato dove lei agile danzava, con addosso la gioia di una bambina quando entra in un negozio di dolci e la competenza di un chirurgo deciso tra quali ferri scegliere per l’operazione che l’attende. Per questo motivo lei aveva scelto quella città fatta di sole e di mare, fuori dall’assalto delle orde turistiche sfamate con falsi cibi tipici, dalla qualità pessima e impropriamente strapagati. “Qui si mangia bene...”. Che fosse tra i banchi dei mercati rionali o dai fruttivendoli in agguato coi loro motocarri agli angoli delle strade, lei riusciva ancora a sentire il profumo dei prodotti della terra e del mare, come succedeva solo a casa sua. Riempì prima una borsa di tela con cavolo e porri, cicoria, patate e carote – ottimi per un minestrone – l’altra con mele, arance, kiwi e pere tutti futuri protagonisti di una macedonia appena da inzuccherare e spruzzare con acre succo di limone. “Bene...”. Lui sperò che il rito della caccia al genuino fosse terminato, per prendere finalmente la via di casa e vedere quelle masserizie diventare cibo. Ah! Quanto a questo le mani di Mara erano come di fata. Bastava un niente, mentre canticchiava perché tutto si trasformasse in un capolavoro di alta cucina. “Solo se imparerai a gustare il cibo assaporerai l’amore – e sottolineava con malizia questa parola – vero per la vita...” era solita dire. Improvvisamente Mara, mentre già stava abbandonando i vicoli formati dai banchi del mercato, si fermò ed esclamò: “No! Stavo dimenticando il pesce! Ma come si fa!”. Lui rabbrividì. Questo significava un’altra mezz’ora persa alla ricerca di quello giusto. “Non temere. Andiamo direttamente da Pietro. Lui è il migliore!” e senza terminare la frase partì in direzione del banco del citato pescivendolo. “Signurì, buongiorno!” fu il saluto di Pietro. “Buon giorno Pietro. Cosa c’è di buono oggi?”.- “’Ca tutt’a robba è buona! ‘O ‘ssai! Che vi serve?”. “Qualcosa da fare al forno, di veloce… se no questo mi muore per la fame...” e lo indicò con la testa. “Nun sia mai! Ecco, tenimmo tutto! Cernie, dentici.. tonno, pesce spada… a voi la scelta!”. Mara guardò i pesci dalle belle forme adagiati su letti di ghiaccio. Indugiò solo un attimo, poi decisa disse: “Voglio un’orata! Una tra quelle là. Mi sembrano belle e saranno certamente saporite...”. “Avete l’occhio clinico, dottorè! Mai come quest’anno le orate del Mediterraneo sono belle grosse e dalla carne morbida, squisita. Mi raccomando – ma che ve lo dico a fare! - ricopritele bene di sale e insaporitele la pancia di rosmarino, olive, capperi e limone. Poi ne parliamo la prossima volta...”. Mara fu orgogliosa della scelta. Mise il cartoccio con il pesce in una delle borse di tela e si avviarono finalmente verso casa. Prima però sostò in edicola. Prese il giornale e lo infilò di fianco al pesce, lasciandolo fuoriuscire per metà dalla borsa. Lui sbirciò un titolo. “OIM: 2.217 persone morte in mare lo scorso anno nel tentativo di raggiungere l’Europa”. Le orate pescate nel Mediterraneo da qualche tempo sono davvero più grosse e saporite. Buon appetito!
DA UN ANNO ALL'ALTRO, di Carlo Verdelli
Secondo una previsione temeraria del presidente del Consiglio, l’avvocato Giuseppe Conte, il 2019 sarà un anno bellissimo. La speranza di tutti è che abbia ragione. L’evidenza di questi primi cinquanta giorni direbbe il contrario. Siamo entrati ufficialmente in recessione. Le previsioni di crescita del nostro Pil sono franate allo 0,2 per cento, il gradino più basso d’Europa. La produzione industriale è balzata all’indietro del 5,5 per cento. Si è scoperto che l’agognato reddito di cittadinanza non arriverà a destinazione per un milione e mezzo di lavoratori poveri: sei su dieci degli aventi diritto, più della metà. In Abruzzo, alle Regionali di dieci giorni fa, ha votato il 53 per cento, una percentuale allarmante, tranne per chi pensa che la democrazia parlamentare sia un orpello da smantellare, un ostacolo tra popolo e capipopolo. Le uniche cose che salgono, e non pare di buon auspicio, sono il livello dell’insofferenza verso chi rema contro, dal Quirinale al Vaticano, e il volume delle minacce contro i nemici, dovunque si annidino. Bankitalia e Consob? «I vertici andrebbero azzerati» è l’opzione zero di Matteo Salvini. Azzerati. Come gli sbarchi dei migranti. O le canzoni straniere, da intervallare per legge con musica nostrana doc. Il giorno di San Valentino, a Melegnano, provincia di Milano, sul muro della casa di una famiglia che aveva da poco adottato un ragazzo senegalese è comparsa questa scritta: “Pagate per questi negri di merda”. È come se la natura di tanti italiani si stesse rapidamente trasformando, incattivendosi. Insieme a molti diritti su cui si fonda la nostra comunità, stanno saltando i valori che quei diritti sottendono e sostengono. Stavamo seduti sopra un vulcano di rabbia e rancore, e non ce ne eravamo accorti. Se abbiamo forti dubbi su un 2019 bellissimo, abbiamo una certezza sul 2018: è stato un anno incredibile, l’eruzione di un’Italia delusa, spaventata, e anche un po’ spaventosa. È passato un anno, anche se sembra molto di più: 4 marzo 2018, un voto che cambia connotati e anima a un Paese, che da lì ha cominciato freneticamente a scollarsi, a disunirsi, a isolarsi da quell’idea di Europa che aveva contribuito a edificare, per inseguire pericolose alleanze con Paesi e concezioni del mondo lontani anni luce dai pilastri ideali della nostra Costituzione. Un anno durante il quale la sinistra ha assistito attonita al proprio disfacimento, dilapidando milioni di consensi e di speranze, in attesa di una rinascita che con fatica, e ci auguriamo con umiltà, proprio in queste settimane stava assumendo un qualche contorno riconoscibile (le ultime vicende di casa Renzi di certo non aiutano). Un anno dove la Terra che ci ospita ha visto peggiorare il suo già precario stato di salute, nell’incuranza e nello sfregio dei Grandi che dovrebbero invece proteggerne il cuore. E così la scienza, oltraggiata dall’incompetenza al potere. L’Internazionale dell’egoismo, del «me ne frego», ha rotto argini che sembravano incrollabili. E l’Italia è un fronte avanzato di questa ondata globale di “disumanesimo”. Alzi la mano chi, un anno fa, avrebbe potuto immaginare che il ministro dell’Interno sarebbe stato indagato per sequestro di persona, oppure che l’ambasciatore francese a Roma sarebbe stato richiamato in Patria in segno di protesta, o ancora che una parlamentare di Forza Italia avrebbe guidato un gommone per forzare un blocco e verificare lo stato di salute di un’umanità derelitta tenuta in ostaggio su una nave a cui era negato l’approdo a un porto. E chi poteva spingersi a prevedere che persino la vittoria al Festival di Sanremo di un cantante milanese, ma di origini egiziane, sarebbe stata additata come una mossa contro il popolo sovrano? C. Verdelli, da Repubblica 20.02.1919
Questa lettera è apparsa su Repubblica: la ritengo consona agli umori di molti cittadini come me. Se lo è anche per voi, potete diffonderla E.B.
Egregi signori,
in nome e per conto del sottoscritto ma anche, per usare un argomento a voi noto, dei cittadini italiani che vi remunerano e/o vi hanno remunerati molto al di là delle vostre modestissime competenze, sono a significarvi quanto segue: nel commentare le polemiche sulla realizzazione (o meno) della linea Tav tra le città di Torino (Italia) e Lione (Francia), avete utilizzato le espressioni "Salvini pro-tav? Torni da Berlusconi e non rompa i coglioni" (Di Battista) e "Ridimensionarla? Supercazzola!" (Di Maio). Benché tali enormità espressive siano rivolte a un Vostro alleato di Governo e facciano dunque parte di una patente, nonché patetica, commedia elettorale, è presumibile che il prossimo passo sia quello di eseguire la Marsigliese coi rutti e/o sostenere che i Vostri avversari, interni o esterni, ce l'hanno piccolo (già detto dal portavoce Di Stefano a Emmanuel Macron, peraltro). Sono perciò a pregarVi formalmente, in quanto rappresentanti del mio Paese, di rallentare l'escalation verbale e di attenerVi a un linguaggio più consono alle istituzioni che, contro ogni principio meritocratico, altresì rappresentate. Perché con questo lessico da bettola, questo modus exprimendi da trivio, questa sintassi comunicativa da perenne ora della ricreazione, state gettando un discredito pressoché irrimediabile sulle Istituzioni di cui, incredibile dictu, fate parte. Traduco: con le parolacce, avete rotto il c.... .
Cordialissimamente, il cittadino Luca Bottura
Alla messa perenne dell'Aja per salvare i rifugiati. “Questa è l'Europa”
IL sermone più recitato è ovviamente quello del buon Samaritano, perché quanto accade nella chiesa evangelica di Bethel è proprio un atto di misericordia e compassione verso il prossimo, nel caso specifico verso una famiglia armena che vi ha trovato rifugio nel momento in cui le autorità olandesi volevano rispedirla in patria. "Ho perso il conto delle volte che abbiamo citato la parabola di Gesù", dice Axel Wicke, il giovane pastore del tempio della via Thomas Schwencke, un palazzetto anni Trenta in un quartiere residenziale dell'Aia. Dal 26 ottobre scorso, dandosi il cambio giorno e notte con altri 750 preti, pastori e diaconi, il pastore Wicke recita ininterrottamente messa per impedire la deportazione dei Tamrazyan - madre, padre e tre figlie di 15, 19 e 21 anni - grazie a una legge del Paese che impedisce alla polizia di penetrare in un luogo di culto durante una funzione religiosa. "La nostra comunità ha deciso di accoglierli per onorare il principio di apertura e ospitalità, ma non mi aspettavo tanta solidarietà. A darci una mano sono arrivati sacerdoti cattolici, protestanti ed evangelici perfino dall'estero, e adesso diciamo preghiere anche in italiano, francese, tedesco e inglese". L'interno della chiesa Bethel è spoglio. Il pulpito è un tavolino di legno sul quale arde un grosso cero. Sul grossolano mosaico di mattonelle che riveste l'abside giganteggia invece la foto di una donna con in braccio il suo bimbo, entrambi avvolti in una coperta di sopravvivenza, quelle dei migranti salvati in mare. Per accedervi si passa dalla cucina della parrocchia, dove in attesa che venga il suo turno sosta una mezza dozzina di religiosi, per lo più anziani ma non per questo meno determinati. Il pastore Wicke ha sistemato i Tamrazyan al primo piano, in sacrestia, ed è dovuto ricorrere ad un addetto stampa sia per proteggere i suoi ospiti sia per smistare le richieste di intervista che giungono da tutto il pianeta. Per evitare che attorno all'evento della messa-maratona si crei un circo mediatico, in chiesa i giornalisti possono entrare solo su appuntamento. Nell'ora in cui c'è consentito di assistervi, tra un canto e una lettura riusciamo a scambiare due parole con Hayarpi, la sorella maggiore delle Tamrazyan. E' una ragazza minuta, dallo sguardo triste. Dice: "Non posso uscire altrimenti rischio di essere arrestata e rispedita in Armenia, dove non riuscirei mai a integrarmi. Siamo arrivati in Olanda più di 8 anni fa, e qui abbiamo costruito il nostro mondo, abbiamo i nostri amici, le nostre abitudini". Hayarpi è iscritta in Econometria all'università dell'Aia ma due mesi fa è stata costretta ad abbandonare gli studi. "Pregando riesco a dimenticare i miei problemi e il grande sostegno che riceviamo da tutti ci dà forza, ma ho comunque tanta paura". Nel 2010, dopo essere fuggito da Erevan perché oppositore politico del regime post-comunista che governava l'Armenia, suo padre sbarcò in Olanda portandosi appresso l'intera famiglia. Più volte il governo dell'Aia aveva cercato di rispedirla indietro, senza mai riuscirci. Fino al 25 ottobre scorso, quando pensava di aver finalmente raggiunto il suo obiettivo negandogli il cosiddetto children's pardon, che consente alle famiglie con bambini residenti nei Paesi Bassi da più di 5 anni di ottenere un permesso di soggiorno. Come accade ogni anno alla metà delle oltre tremila richieste di asilo, è stata rifiutata anche quella dei Tamrazyan. La durezza della legge olandese sull'immigrazione è del resto nota. Lo scorso settembre, per ostacolare la decisione di espellere due adolescenti armeni residenti da anni nel Paese è servita una petizione con 200mila firme. E solo dopo un aspro dibattito in Parlamento il governo del liberale Mark Rutte è stato costretto a concedere ai ragazzi il permesso di restare: ci sono oggi 400 bambini a rischio deportazione, sebbene molti di questi abbiano vissuto gran parte della loro vita in Olanda, frequentino scuole olandesi e parlino soltanto il fiammingo. Il sottosegretario alla Giustizia Mark Harbers ha recentemente dichiarato che la messa-maratona non scalfisce l'intransigenza del governo sul caso Tamrazyan. Eppure, secondo il pastore Derk Stegeman, portavoce improvvisato della chiesa Bethel, nonostante la linea dura ostentata dall'esecutivo, molti suoi esponenti sarebbero pronti a cedere anche stavolta. "Del resto, come può un Paese che si dice civile accettare che venga inflitto tanto dolore a dei ragazzi deportandoli in una terra che è per loro diventata straniera?", spiega Stegeman. "Ai Tamrazyan noi cerchiamo di offrire conforto e speranza e in attesa che la loro richiesta di asilo venga riesaminata andremo avanti finché sarà necessario". In tanta risolutezza si può anche leggere la riconoscenza della chiesa cristiana locale agli immigrati, perché sono loro che le hanno fornito nuova linfa dopo le copiose emorragie di fedeli degli ultimi decenni. Con quest'atto di disobbedienza civile il clero olandese dimostra anche la forza della sua fede. E che un'altra Europa esiste. Da La Repubblica, 13. 1.’19
iN ATTESA CHE ANCHE A BERGAMO IL DIACONATO DECOLLI
C'è un luogo, a Roma, dove la sinodalità sta diventando prassi, esercizio quotidiano, vita vissuta: è la comunità di San Stanislao, a Cinecittà, che da tre mesi è guidata da Andrea Sartori, un diacono che abita nella canonica con la moglie Laura e quattro figli – tre maschi di 20, 19 e 17 anni e una bambina di 10 – e che vorrebbe incidere su una targa “Casa della fraternità”. Alla Messa e alle confessioni pensa il viceparroco della vicina San Giuseppe Moscati (con un gruppetto di altri preti che stanno offrendo la loro disponibilità), mentre il lavoro pastorale viene portato avanti con un’équipe di diaconi. «Bisogna fare una storia sinodale, sperimentando la comunione con il popolo e con la comunità ministeriale», sottolinea il diacono che, con la sua famiglia, ha intravisto in questa vocazione il modo per «andare verso Dio e verso gli uomini». Del resto, il servizio è un filo rosso che attraversa l’esistenza di Sartori e la tesse con quella di Laura, conosciuta durante un’esperienza di volontariato con ragazzi disabili. «Prima del matrimonio – racconta – entrambi volevamo andare in missione. Così, appena sposati, abbiamo deciso di partire con i salesiani per il Togo per tre mesi per studiare la realtà e poi, con in mano un progetto che abbiamo elaborato in Italia, siamo tornati in Africa per un anno: di giorno giravamo per la Savana per formare animatori sociali che potessero essere leader nelle microimprese e di sera stavamo in una casa famiglia con 24 bambini di strada». Che il servizio fosse la sua dimensione, Sartori l’aveva già capito, ma non pensava affatto di diventare diacono. Nel 2003 però, su invito di alcuni sacerdoti, inizia l’iter e nel 2008 viene ordinato. «Vedevo questa figura solo come qualcuno che sta sull’altare, ma ora ho capito che il vero diacono porta Gesù in mezzo alla gente: quella goccia di acqua che metto nel calice, nel sangue di Cristo, è il segno dell’umanità che raccolgo e porto a Dio», spiega Sartori che ama definire il diacono come «la mano di Gesù che tocca, si sporca e tira fuori dalla tomba». Per dare ulteriore concretezza al servizio, Andrea e Laura pensano di «trovare un monastero dove poter fare comunità» e cominciano a parlarne con i figli. Così, quando arriva la proposta di accompagnare la comunità di San Stanislao, capiscono «che Dio, che fa bene tutte le cose, aveva preparato il terreno e che quella era per noi la conferma di ciò che avevamo intuito». Sebbene sia una tradizione documentata a Roma fin dal VII secolo, oggi la diaconia di Cinecittà rappresenta un unicum. Inizialmente c’è stata un «po’ di perplessità, un punto interrogativo che riguardava soprattutto il cosa sarebbe mancato, visto che siamo abituati ad avere un presbitero», osserva Sartori. Pian piano però le seimila anime di San Stanislao «hanno visto che la presenza eucaristica è rimasta e che, essendoci una famiglia, i giovani hanno dei coetanei con cui stare e i genitori si sentono compresi nelle fatiche e nelle difficoltà quotidiane». «Come tutti i papà di famiglia, anche io, che ho 49 anni, mi alzo alle cinque per andare a lavoro, so cosa significa litigare o discutere perché uno dei figli avrebbe bisogno di un paio di pantaloni nuovi ma non si ha la possibilità di comprarli», confida Sartori che si sente ripagato di tutto quando «quelli che incontro mi dicono che vogliono tornare in Chiesa». Si respira “aria nuova” e, complice una giusta dose di curiosità, «in tanti si stanno avvicinando». «È bello che la gente voglia aiutare e non solo essere aiutata», rileva Sartori per il quale «la parrocchia non deve essere solo un centro di distribuzione, ma di comunione». Per questo, dal lunedì al venerdì «proponiamo l’adorazione eucaristica, perché una comunità prima prega e poi va in missione». Come il diacono che va per le strade, nelle case. Facendosi prossimo «per pregare, ascoltare, intuire quali sono le ferite e fasciarle».Leggere di più
Sfollati
Se attraversate il ponte che unisce la bergamasca al milanese, e gettate uno sguardo giù, sicuramente vi fermate: i centocinquanta metri dal livello dell’Adda che scorre, a mulinelli, verso la diga di Concesa, mettono paura; se non fosse che le sponde avvallate raccontano in questi giorni la meraviglia autunnale, che un calendario da Frate Indovino potrebbe pennellare così: tavolozza di colori rosso arancione giallo, e bianco della nebbia a nuvolette, tra il verde superstite a macchiettare il tutto. E sono quei colori, a quinta di un fiume lento e forte, che dicono una natura che si quieta spandendo il meglio di sé, il suo tutto. Un canto del cigno prima dell’inverno, e di una nebbia che avvolgerà nel silenzio sponde acqua e ponte. E i tuoi passi. E sarà per quella ricorrenza di pensieri, che qualche volta succede, che in questo luogo sospeso tra acqua e cielo si fa strada una parola: sfollati. Certo sul riverbero di questa disgraziata, imponente migrazione di folle lontano da guerre e miserie. Ma qui gli sfollati sono quelli che hanno attraversato questo ponte per scappare dalla guerra (ad esser precisi, non proprio questo manufatto, ma quello che lo ha preceduto, dall’Ottocento ai primi anni cinquanta del secolo scorso, in elegante ferro traforato): ricche signore con figli, alle nostre povere case di campagna da Milano, la grande città, nell’immaginario di paese lontana per usi e costumi tanto quanto lo può essere oggi una località prospiciente il Mediterraneo. Riconosciuti nel bisogno di salvarsi dai bombardamenti. Accolti, e integrati: ricordo il loro ritorno per anni e anni dopo la guerra, in un festosità dell’incontro che rompeva ogni distanza di ceto. Una familiarità non di sangue, ma di figli dello stesso Padre. La familiarità che non da oggi è propria della Chiesa. Che può essere tante cose, talvolta sfiancata da indecenze e grigiori, ma sempre attenta a mettere il Vangelo davanti a tutto. E a chiamare a una fraternità che non accetta muri, né tra vicini né tra lontani. In quella sinfonia che mette insieme le diversità, sapendone cavare una consonanza armonica che fonde silenzi e suoni. Una convivialità: i foresti ad apprezzare la polenta contadina nel latte appena munto, i paesani a gustare per la prima volta quanto è buono il formaggio di grana con le pere. Le piccole grandi cose della vita, scambievolmente offerte, a costruire la ricchezza delle diversità: questa paura di tanti uomini di Chiesa, che ancora li costringe a colonizzazioni teologiche, a chiusure verso le persone che hanno da Dio un diverso disegno sulla propria vita. La diversità che, per loro, diventa scontro invece che incontro: lontani da quel guardare a ciò che unisce piuttosto che a quello che divide. Anche per questo, l’armonia delle sponde del fiume nella loro colorata diversificazione autunnale – e sempre per quella connessione di pensieri – mi ricorda di essermi sentito lontano da quanto, qualche tempo fa, proponeva un illustrissimo, e altrettanto carissimo, pittore nostrano: Città Alta? città dal verde monocorde, di soli cipressi a svettare in gara con torri e cupole. Guardatela oggi, venendo dalla superstrada che collega l’Isola a Bergamo, e chiedetevi che cosa si perderebbe: una tavolozza, che mentre dice l’incantevole variazione delle stagioni, racconta la storia sinfonica dei secoli. Una armonia di apparenti dissonanze, senza cui non ci sarebbe la bellezza che state ammirando. Appunto. 31 ottobre 2015
Sinodalità
Non tanto i contenuti quanto il metodo. Chi si aspettava un rivoluzione sui sacramenti, e il loro accesso, è lì che la cerca tra le parole dette e quelle non dette. Tanto da permettere a uno di quei firmatari della fronda antisinodale, venuto dall’Australia ad insegnare come si fa il papa, ad insistere il giorno dopo sulle proprie posizioni: ogni persona, ogni storia è da leggere in sé? macché, c’è l’intoccabilità del sabato; e la fame dei discepoli cui proibisci le spighe del nutrimento? se la sono cercata peccando. Ce ne sono, e tanti ad aver paura: paura della misericordia che illumina la giustizia: paura di sé, della propria fragilità che non vogliono riconoscere, e dunque non sanno consegnare al Crocifisso risorto. Paura di una chiesa senza potere: e non il grande potere di perdonare, ma il potere che avvolge sé in vesti di seta lasciando il povero senza mantello. Possibile che nessuno riesca a smuoverli, muli del dissenso verso l’umanità? Il Sinodo ha detto, il papa promulgherà: non forse nella desiderata attesa della legge, ma dello spirito sicuramente. Ma il metodo, quello per cui si sono levate le voci che non volevano essere parificate a quelle di altri, il metodo cui la Chiesa ormai si chiama - o non è quell’assemblea dei convocati che è nella sua natura - il metodo prende il nome di sinodale. Ed è consegnato ormai a tutte le comunità: un mettersi attorno, ascoltare, e parlare senza opporsi, ma mettendosi nel dono del Consiglio, dono dello Spirito. Il brain storming come metodo: vento della parresia e del rispetto, vento del discernimento reso partecipe. Dunque il sentire risuonare parole che già nel piccolo di alcune comunità di periferia sono state fatte riecheggiare fin dai tempi del Concilio, e sentirle vivaci e forti ormai consegnate a tutti, beh, è una soddisfazione. Un godimento, pensando a chi ha continuato imperterrito nella sua corazza del sabato, pronunciandolo intoccabile nelle forme e nella sostanza, e tenendo così lontano il popolo, peccatore e santo, di Dio. Ci si era dati, allora, i consigli di partecipazione – pastorali, presbiterali – e li si sono ingessati nel giro tre lustri: non ci si è accorti (non ci si è voluti accorgere) che occorreva svolgerli per non impiantarsi nella lettera degli statuti. E ora, là dove sopravvivono - o addirittura li si reimpianta soppiantando collaudati Consigli di Chiesa della Comunità – fanno da paravento dietro cui il parroco continua a vivere il mantra “qui il parroco sono io”. Sottilmente, ma realmente. Ecco perché ho personalmente goduto per il metodo che si chiede sia ormai di tutti: ho goduto, per quel po’ di ragione che ci si doveva e non è stata riconosciuta, anche da soloni che ancora preferiscono sedere sulla cattedra di Mosè. Ho goduto, certo peccando per la piccola rivincita: ma sarà una delle poche volte che mi confesserò con gioia (altro peccato!). Ma insomma, uno attraversa una intera vita con pochi compagni del cuore e della testa, in mezzo ad ali fitte di paracarri del diniego, e poi gli capita sul finire di vedersi avvalorate, le cose che ha vissuto, da Chi può? E in una Chiesa finalmente dislocata da sé? E non sentire soddisfazione? Ma che incarnazione sarebbe la mia, e quella degli amici che hanno creduto con me, che lo Spirito sarebbe, prima o poi, tornato dall’America latina?
Sinodo e misericordia
Riuniti ad ascoltare e a dire sulla famiglia, dalla poligamica Africa all’Asia buddisto-confuciana, dalla spersa Oceania alla duplice America: con il peso di una tradizione europea invecchiata nella fede e nei costumi. E così, le sommarie cronache che escono dicono di una compattezza spirituale nella diversità di vedute. Ché, poi, è un motto di difesa scrivere “diversità di vedute”, quando alcuni cardinali, prima e durante, non sanno cos’è l’umiltà dell’attendere, del mettersi in sintonia ascoltando. Anche i cardinali, uomini!, soprattutto “si" ascoltano: il che non è esemplare per qualsiasi consiglio di una chiesa che voglia camminare insieme. E si assiste, tra l’altro, a una rinarrazione modernizzata della voxpopuli-voxDei, già collaudata nella leggenda di sant’Ambrogio, attraverso la spontaneità di un bambino: un giorno, mentre celebrava la messa con la Prima comunione - è un vescovo che racconta - un bambino, salito all'altare per ricevere l'ostia consacrata, l’ha spezzata in due e ne ha dato metà al papà che, essendo divorziato risposato, non avrebbe potuto riceverla. Sarà uscito un “bello, ma andiamo oltre” non riconoscendo al bambino una volontà divina? o è stato un episodio che ha "commosso l'assemblea"? Anche i sentimenti fan parte di deliberazioni pastorali, non c’è alcun dubbio; ma, chiaramente, se la commozione del cuore non è da confondersi con sentimentalismi, neppure è da buttar via con arguzie teologistiche, o esclusioni aprioriste. Così, se non è facile capire perché in una assemblea sinodale dedicata alla famiglia, escano proposte sul celibato dei preti (naturalmente da rivedere!) e sulle diaconesse (naturalmente da introdurre, e da riconoscere al modo anglicano: e prima che poi, gradino su gradino, diventassero vescovi); se non è facile, è logico: se non si vuol finire nella newage cattolica del familismo, o la Chiesa la si vede in tutta la sua globalità o non è. Sfuggendo tuttavia, appena possibile, alla tentazione di trasformare quell’aula sinodale in una stanza dai simbolici lettini d’analisi freudiana. Non sempre, si sa, è buona letteratura quella che accompagna i professionisti dello scavo psicologico: “Si prendono i soldi che hai guadagnato con il sudore della fronte e ti rimpinzano di rancore e risentimento, tanto che dopo un po’ stai peggio di quando avevi cominciato, impiantando talvolta nel cervello falsi ricordi di abusi”. Professionisti che s’annidano anche dentro quel gran corpo che si è composto da ogni angolo della terra, per leggere il Vangelo sulla pelle dell’uomo che vive oggi: occorrerebbe ricordare a qualche solone più o meno imporporato di non renderlo difficile, il Vangelo – e così tradendolo e non tramandandolo; di liberarlo da quelle incrostazioni che hanno fatto dimenticare la persona affamata per privilegiare il sabato; per annunciare, una volta di più e meglio, che Dio è misericordia e non castigo. Ne saranno capaci senza scendere a falsi compromessi, ma senza ergersi ad arrocchi che negano la salvezza già in questa sovranità che qui e ora è data all’uomo dal suo Creatore? Sperare è la liaison tra fede e carità. Dunque speriamo.