Non tanto i contenuti quanto il metodo. Chi si aspettava un rivoluzione sui sacramenti, e il loro accesso, è lì che la cerca tra le parole dette e quelle non dette. Tanto da permettere a uno di quei firmatari della fronda antisinodale, venuto dall’Australia ad insegnare come si fa il papa, ad insistere il giorno dopo sulle proprie posizioni: ogni persona, ogni storia è da leggere in sé? macché, c’è l’intoccabilità del sabato; e la fame dei discepoli cui proibisci le spighe del nutrimento? se la sono cercata peccando. Ce ne sono, e tanti ad aver paura: paura della misericordia che illumina la giustizia: paura di sé, della propria fragilità che non vogliono riconoscere, e dunque non sanno consegnare al Crocifisso risorto. Paura di una chiesa senza potere: e non il grande potere di perdonare, ma il potere che avvolge sé in vesti di seta lasciando il povero senza mantello. Possibile che nessuno riesca a smuoverli, muli del dissenso verso l’umanità? Il Sinodo ha detto, il papa promulgherà: non forse nella desiderata attesa della legge, ma dello spirito sicuramente. Ma il metodo, quello per cui si sono levate le voci che non volevano essere parificate a quelle di altri, il metodo cui la Chiesa ormai si chiama – o non è quell’assemblea dei convocati che è nella sua natura – il metodo prende il nome di sinodale. Ed è consegnato ormai a tutte le comunità: un mettersi attorno, ascoltare, e parlare senza opporsi, ma mettendosi nel dono del Consiglio, dono dello Spirito. Il brain storming come metodo: vento della parresia e del rispetto, vento del discernimento reso partecipe. Dunque il sentire risuonare parole che già nel piccolo di alcune comunità di periferia sono state fatte riecheggiare fin dai tempi del Concilio, e sentirle vivaci e forti ormai consegnate a tutti, beh, è una soddisfazione. Un godimento, pensando a chi ha continuato imperterrito nella sua corazza del sabato, pronunciandolo intoccabile nelle forme e nella sostanza, e tenendo così lontano il popolo, peccatore e santo, di Dio. Ci si era dati, allora, i consigli di partecipazione – pastorali, presbiterali – e li si sono ingessati nel giro tre lustri: non ci si è accorti (non ci si è voluti accorgere) che occorreva svolgerli per non impiantarsi nella lettera degli statuti. E ora, là dove sopravvivono – o addirittura li si reimpianta soppiantando collaudati Consigli di Chiesa della Comunità – fanno da paravento dietro cui il parroco continua a vivere il mantra “qui il parroco sono io”. Sottilmente, ma realmente. Ecco perché ho personalmente goduto per il metodo che si chiede sia ormai di tutti: ho goduto, per quel po’ di ragione che ci si doveva e non è stata riconosciuta, anche da soloni che ancora preferiscono sedere sulla cattedra di Mosè. Ho goduto, certo peccando per la piccola rivincita: ma sarà una delle poche volte che mi confesserò con gioia (altro peccato!). Ma insomma, uno attraversa una intera vita con pochi compagni del cuore e della testa, in mezzo ad ali fitte di paracarri del diniego, e poi gli capita sul finire di vedersi avvalorate, le cose che ha vissuto, da Chi può? E in una Chiesa finalmente dislocata da sé? E non sentire soddisfazione? Ma che incarnazione sarebbe la mia, e quella degli amici che hanno creduto con me, che lo Spirito sarebbe, prima o poi, tornato dall’America latina?