Se attraversate il ponte che unisce la bergamasca al milanese, e gettate uno sguardo giù, sicuramente vi fermate: i centocinquanta metri dal livello dell’Adda che scorre, a mulinelli, verso la diga di Concesa, mettono paura; se non fosse che le sponde avvallate raccontano in questi giorni la meraviglia autunnale, che un calendario da Frate Indovino potrebbe pennellare così: tavolozza di colori rosso arancione giallo, e bianco della nebbia a nuvolette, tra il verde superstite a macchiettare il tutto. E sono quei colori, a quinta di un fiume lento e forte, che dicono una natura che si quieta spandendo il meglio di sé, il suo tutto. Un canto del cigno prima dell’inverno, e di una nebbia che avvolgerà nel silenzio sponde acqua e ponte. E i tuoi passi. E sarà per quella ricorrenza di pensieri, che qualche volta succede, che in questo luogo sospeso tra acqua e cielo si fa strada una parola: sfollati. Certo sul riverbero di questa disgraziata, imponente migrazione di folle lontano da guerre e miserie. Ma qui gli sfollati sono quelli che hanno attraversato questo ponte per scappare dalla guerra (ad esser precisi, non proprio questo manufatto, ma quello che lo ha preceduto, dall’Ottocento ai primi anni cinquanta del secolo scorso, in elegante ferro traforato): ricche signore con figli, alle nostre povere case di campagna da Milano, la grande città, nell’immaginario di paese lontana per usi e costumi tanto quanto lo può essere oggi una località prospiciente il Mediterraneo. Riconosciuti nel bisogno di salvarsi dai bombardamenti. Accolti, e integrati: ricordo il loro ritorno per anni e anni dopo la guerra, in un festosità dell’incontro che rompeva ogni distanza di ceto. Una familiarità non di sangue, ma di figli dello stesso Padre. La familiarità che non da oggi è propria della Chiesa. Che può essere tante cose, talvolta sfiancata da indecenze e grigiori, ma sempre attenta a mettere il Vangelo davanti a tutto. E a chiamare a una fraternità che non accetta muri, né tra vicini né tra lontani. In quella sinfonia che mette insieme le diversità, sapendone cavare una consonanza armonica che fonde silenzi e suoni. Una convivialità: i foresti ad apprezzare la polenta contadina nel latte appena munto, i paesani a gustare per la prima volta quanto è buono il formaggio di grana con le pere. Le piccole grandi cose della vita, scambievolmente offerte, a costruire la ricchezza delle diversità: questa paura di tanti uomini di Chiesa, che ancora li costringe a colonizzazioni teologiche, a chiusure verso le persone che hanno da Dio un diverso disegno sulla propria vita. La diversità che, per loro, diventa scontro invece che incontro: lontani da quel guardare a ciò che unisce piuttosto che a quello che divide. Anche per questo, l’armonia delle sponde del fiume nella loro colorata diversificazione autunnale – e sempre per quella connessione di pensieri – mi ricorda di essermi sentito lontano da quanto, qualche tempo fa, proponeva un illustrissimo, e altrettanto carissimo, pittore nostrano: Città Alta? città dal verde monocorde, di soli cipressi a svettare in gara con torri e cupole. Guardatela oggi, venendo dalla superstrada che collega l’Isola a Bergamo, e chiedetevi che cosa si perderebbe: una tavolozza, che mentre dice l’incantevole variazione delle stagioni, racconta la storia sinfonica dei secoli. Una armonia di apparenti dissonanze, senza cui non ci sarebbe la bellezza che state ammirando. Appunto. 31 ottobre 2015