25 anni dopo il ’77

In attesa che la storia emetta l’ardua sentenza, più del ’68 mi pare che l’anno di svolta per il mondo contemporaneo, e per la Chiesa che ci vive dentro, sia stato il ’77. Un anno certamente più significativo: sia perché del ’68 è l’inaspettato, e forse indesiderato, compimento; sia perché ha espresso nello slogan-tipo “tutto, e subito” quella mutazione antropologica di alcuni popoli dell’Occidente, che ha toccato pensiero e comportamento. E se rispetto al Concilio, già allora si scriveva che qualcosa s’era rotto – l’entusiasmo, il vento nuovo della speranza a spalancare finestre e coscienze –

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Il dolce mistero della morte

I bambini vedono ogni anno quindicimila morti violente in tv: eppure sono tenuti lontano dal nonno morto. I defunti sono commemorati con monumenti costosi dentro i cimiteri, ma fuori, la città non vuole essere disturbata dal loro ultimo passaggio: pochi ormai accennano a un segno di croce, pochissimi fermano l’auto, alcuni sorpassano e s’incuneano come fosse una qualsiasi coda. Si accettano i rumori al di sopra di ogni sopportabilità igienica: ma si lasciano mute le campane che annunciano l’agonia di un fratello,

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Se ci si bea dei numeri

Ritorna la celebrazione estesa della Pasqua nelle nostre comunità, con quella pagina di Atti 2 che ha deciso il battesimo delle genti, e insieme un metodo per l’evangelizzazione. Nella Pentecoste è il Risorto che parla: senza compiere violenze sui linguaggi degli uomini, si fa ascoltare da tutti, medi ed elamiti, giudei e greci, schiavi e liberi. Affidando per sempre alla Chiesa la voce dello Spirito. Che lingua parla la Chiesa, oggi? È una lingua che incrocia le domande degli uomini, dentro una vita che non va rappresentata ma consumata?

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Molto cristiani, poco evangelizzati

Mettete una trasmissione televisiva del sabato pomeriggio. I bambini sono naturalmente ancora alzati. Tre di un gruppo musicale sono intervistati in una chiesa sconsacrata: voce impastata, profusione di metallo sulle orecchie e sulle mani, e occhi naturalmente nascosti da lenti scure. Giovani che appartengono dunque alla normalità del look contemporaneo, da Brindisi a Berlino. Intervistatore che s’affanna sull’intelligenza: come la mettete con la religione? Dicono che nel loro albergo ci sta una setta (forse di cattolici) che fanno cori religiosi tutto il giorno, e loro fanno musica profana in una chiesa: bello, no, in un tempo di ribaltoni? . Non saranno certo

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Un massacro irripetibile?

Il resto è silenzio. Con questo sibillino concetto si conclude l’Amleto. Ma con tonalità diverse da quello che è successo attorno a una tragedia non annunciata, dopo che tutta l’Italia si è trovata, in uno strano febbraio*, a parlare, ad ascoltare, ad interrogarsi a voce alta per una ventina di giorni sul male che c’è. Forse per la prima volta nella storia di cronaca nera, non si è andati a caccia di morbosità: semplicemente ci si è sentiti coinvolti. Perché genitori, perché figli; perché l’assassino non era lo straniero denunciato, ma era un nemico dentro casa. Tante parole per esorcizzare la paura che possa toccare a chiunque

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A disagio nel mestiere di prete

Oltrepassato l’anno del Giubileo, sembra affermarsi l’idea di una chiesa pura e dura. E non è strano che questa invocazione appartenga più al mondo laico che non a quello cattolico? E che, tra i cristiani, appartenga in misura grande ai parroci? Essi più di altri stanno soffrendo la quotidianità di una chiesa che si svuota, in un andare via sommesso, senza particolari ribellioni, per esaurimento. Sentono sulla propria pelle una estraneità alla propria gente:

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Tenete aperta quella porta

Contro la tradizione, non si è più usato il martelletto, e non si murerà più quell’accesso: perché non fare un passo in più e si decide di non chiuderla in alcun modo quella porta? Quella soglia che è stata attraversata da milioni di cristiani - materialmente a Roma e a Gerusalemme, e un po’ più simbolicamente in tutte le altre parti del mondo – perché non lasciarla spalancata? Non è Cristo la porta, e la sua salvezza non è per tutti i giorni?

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Placidamente scristianizzati?

Se non l'avesse ripetuto lui, il Papa, dopo l'allarme lanciato da uno dei centocinquanta vescovi d'Europa, sarebbe potuto passare per un attacco di pessimismo antievangelico da seppellire alla svelta. E invece, in una fredda domenica d'autunno, l'accorato monito di Giovanni Paolo che sta aprendo l'anno santo come l'atto più desiderato dei suoi ventuno anni di servizio apostolico in Roma, non ha potuto che dare ragione a chi vivendo sul campo vede avanzare una apostasia di massa senza traumi o particolari crisi di identità:

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Attenzione, non succederà nulla

È il 9/9/99: già scrivere così in una lettera non commerciale avrebbe tirato il mio professore di liceo al culmine dell'ira. Ma allora i personal-computer erano di là da venire, e alla fine di questo secolo mancavano parecchi decenni. Non pensavamo allora, lui e noi, che la scrittura avrebbe abbandonato la lentezza carica di creatività della penna a stilo per una serrata tastiera alfabetica, il cui segno sembra talvolta precedere il pensiero. Né si sarebbe potuto supporre che i francesismi non sarebbero rimasti gli unici nemici della bella lingua italiana:

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Forestieri a questa terra

Cardine delle tematiche del giubileo ebraico è lo shabbat, il riposo della terra. Una intuizione che viene dal mondo agricolo, e che comporta una conoscenza delle leggi che regolano l'incremento e il rispetto per il dono del creato. Una indicazione che si è persa nel tempo dell'industriale e del postindustriale sotto la spinta dello sviluppo: che è inteso al di fuori del rispetto e solo nell'accezione dell'accrescimento. Così è nata l'analogia tra progresso e sviluppo: il primo termine a esasperare il secondo, in un crescendo che ci conduce oggi a nodi etici di non facile soluzione; ma che soprattutto induce a quel ritmo della fatica come valore

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