Il resto è silenzio. Con questo sibillino concetto si conclude l’Amleto. Ma con tonalità diverse da quello che è successo attorno a una tragedia non annunciata, dopo che tutta l’Italia si è trovata, in uno strano febbraio*, a parlare, ad ascoltare, ad interrogarsi a voce alta per una ventina di giorni sul male che c’è. Forse per la prima volta nella storia di cronaca nera, non si è andati a caccia di morbosità: semplicemente ci si è sentiti coinvolti. Perché genitori, perché figli; perché l’assassino non era lo straniero denunciato, ma era un nemico dentro casa. Tante parole per esorcizzare la paura che possa toccare a chiunque

, e non valgano porte blindate a lasciare fuori il demone. Tanti dibattiti per rassicurarsi che è sempre stato così, e dunque le percentuali di rischio dovrebbero ormai aver saziato per un po’ la propria fame. E tanti assalti ai guru della psicopedagogia per farsi tranquillizzare: chi a monte non ha qualche abbraccio negato, parole dure, una piccola violenza? Un guardarsi in giro a scoprire i corresponsabili: Scuola, Società, e anche la Chiesa non è più come prima (quando lo è, come prima, apriti o cielo sulla sua arretratezza!).

Poi, come si usa dire, è sceso un pietoso velo: bisogna pur continuare a vivere. Una nazionale elaborazione del lutto che finisce per dimenticare, o almeno per sospendere l’attenzione. Convincendosi, col passare dei giorni, che è stato un massacro irripetibile per la propria casa. Ma, a differenza di altre volte, con la sottesa sensazione che non tutti i conti tornano: non solo la violenza sta dentro le famiglie; essa sta dentro le “buone famiglie”. Recentemente, questo è il sottolineato di ogni cronaca delinquenziale con protagonisti i minori: ed è questa stranezza che inquieta. Non in famiglie-bene, dove il sospetto del lusso odora di vizi; o in male-famiglie, dove la miseria accentua la rivalsa. Spaventa che siano “nutriti” in buone famiglie, lavoratrici, aperte, magari religiose, solidali, di buona cultura e di tanti interessi: le buone famiglie a cui si pensa di appartenere nella stragrande maggioranza. E così è incominciata un’ansia: ho dato troppo, o troppo poco; mi ha quasi strappato il motorino, l’orecchino, il telefonino; sono eccessivo o assente? amico o padrone? taccagno o avveduto? Dopo quello strano febbraio – l’altro agghiacciante omicidio adolescenziale cancellato dall’orrore di Novi, per una scala dell’orrido che dimentica il gradino precedente: come se non fosse morte, e anch’essa terrificante, anch’essa inspiegabile – dopo, è certamente diventato più difficile essere padre e madre. E non perché sia mancata la rassicurazione tenera di figli che spiano l’insicurezza dei genitori che a loro volta scrutano l’imprevedibile possibile: ma perché, pur fatti adulti, si vive l’inammissibilità del male. O almeno, l’inammissibilità di una sua spiegazione sempre. E la tentazione è di rimuovere ciò che è insostenibile, prima ancora di potersi dare le coordinate di una vivibilità non ansiogena.

Non c’è ricetta: e ci si è accorti quanto più se ne è parlato. O almeno, ciascuno ha la sua, preventiva o repressiva, certamente giustificata: ma inevitabilmente non per tutti, non per ogni circostanza. Anche i cristiani non hanno ricette prefabbricate, e per loro il Vangelo non è un manuale di pedagogia, ma un compagno che avverte del farsi della vita, che rende sentinella di quel sospeso passaggio tra notte e giorno che è l’esistenza di ogni uomo, in ogni età. Finché non si capisce l’assoluta stranezza della famiglia di Nazareth – che, per le buone famiglie cristiane, non può essere esemplare né per i protagonisti né per la storia – non si può capire la vicenda di Gesù che propone se stesso alla tristezza di genitori in ansia per il suo allontanamento dalla carovana degli adulti; e non si capisce la vicenda di ogni uomo che si fa, lontano da noi e dalle nostre attese immediate. Ma neppure si impara quell’atteggiamento di Maria, che conservava nel suo cuore, che si rimetteva nell’attesa nuova che gli insegnava il comportamento del figlio. Forse per questo una buona famiglia non basta per avvertire del male che sta in agguato: occorrono famiglie belle, che si nutrono delle elementarità del rispetto, del posto riconosciuto a ciascuno, di una bontà non privata dal perdere, dal sacrificio di sé. Conservare nel cuore è comprendere, è abbracciare: al mondo è stato offerto l’abbraccio unico di Cristo in croce, che prelude alla sua discesa dalla croce con i segni dell’amore nei piedi, nelle mani e nel costato non cancellati dalla Resurrezione. Il male c’è. Ma comprendendolo, si prende la misura della violenza, e così la si affronta.

È il sorprendente offerto ai discepoli di Gesù, e attraverso loro, a tutti. Il resto è silenzio: il silenzio di chi si affida a un mistero più grande della propria arroganza di tutto dominare.

 

* è la tragedia di Novi Ligure, un’adolescente che ammazza mamma e fratellino: dal 2001, il primo di innumerevoli altri omicidi familiari.