Tempi pasquali, tempi di gioia: Cristo è veramente risorto ed è apparso – appare – a quanti si nutrono di lui. Ma c’è quella crepa di un virus che non cede del tutto, e forse per sempre; e c’è la guerra. C’è nell’intreccio di brutto e di bello con cui è impastato questo mondo, e di cui è impastato ciascuno di noi, da chi fa lo zar all’ultimo capovillaggio africano. E quell’impasto genera una fragilità che resterà insolubile alla faccia di qualunque delirio di onnipotenza umana. Sia per una fisicità mortale, sia per una razionalità ferita. La verità di un peccato d’origine mai così manifesta come oggi per noi che viviamo l’oggi. È lì da vedere. E non sfugge a chiunque non abbia deciso di spegnere le voci che nascono dalle tinte fosche del turpiloquio vanesio: vanesi i conduttori in cerca di clienti, e vanesi quanti si impalcano ad esperti nel regno dei talk show, quelli che vogliono spiegare la guerra. E per farlo s’appoggiano a quell’ informacja propria di paesi ex-sovietici, che da una parte e dall’altra disinforma. E giocano sulla pelle di chi viene infilato da bombe. Soprattutto, ma non solo, i fautori di quel Né Né mai rischiando fino in fondo. “Questa non è un’invasione”, dicono, ma – sono gli stessi – non hanno creduto al Covid e alle bare di Bergamo, e prima ancora all’abbattimento delle Twin Towers o allo sbarco sulla Luna. Accomunati dall’odio per la democrazia che non fosse diretta secondo loro; o come qualcuno li ha definiti, eroici combattenti per la libertà degli italiani dal green pass, si battono ora per la schiavitù degli ucraini? Macché, straparlano per se stessi. Sono lì, appollaiati in comode poltrone televisive, a far propaganda ai loro giornaletti pagati dallo stato, che pure criticano se dà le armi, o se non le dà, rivendicando l’articolo 1 della costituzione americana (non conoscendo quella italiana?). E pure se la prendono con l’America, causa di ogni male; mancava che anche il papa, nel chiedere pace, usasse quell’espressione colorita di una Nato che si è messa ad abbaiare ai confini russi! Intanto – la nostra volubilità! – i titoli dei giornali in prima pagina sono passati dal totale alle tre colonne: la diminuzione della sensibilità utile a lasciarci in pace nei nostri confini; e sì tanta accoglienza ancora agli esuli (purché siano di là, non di giù), ma si comincia a non far valere la gratuità: qualcuno ci paghi l’ospitalità che diamo. Il prendersi cura del mondo? Ma chi? Ma quando? Ecco crepe di sconforto nella letizia pasquale. Per chi crede, non più ampie dello spessore di un’ostia tra pollice e indice. Perché il cielo è ritornato a piangere gioiose lacrime di pioggia; e una rondine s’è fatta il nido nella loggia del chiostro; e torneranno cieli con nubi che avanzano rotolando, a insegnare il farsi delle stagioni, e il segno che a vacche magre succedono sempre le grasse – ma anche il contrario, facciamocene una ragione. A ribattere l’idea che gli uomini nascono liberi e uguali, e che uno straniero sia del nord-est europeo sia africano può avere gli stessi diritti di tutti. A riscaldare la speranza della necessità di un Trascendente, che guidi il giudizio di uomini impelagati nella complessità delle tante, utili ma difficili, differenze. E allora sarà pace? Non sarà più guerra?