Si sa che i vescovi americani non sono i più frequentabili. Avendo a che fare, dicono loro, con innumerevoli movimenti destrorsi, con predicatori dalle raccolte vistose di offerte, debbono per forza spostarsi a destra. A destra dell’uomo, dove non sta propriamente il Cristo, che dei poveri ha fatto il centro del suo invito. E delle povertà è venuto come rimedio: fragilità umane da accompagnare, non da condannare. E così si radunano per decidere se il loro Presidente può o non può fare la comunione, dato che non si oppone alla legge dell’aborto. Si sa che i fanatici di ogni epoca non aggiungono, sostituiscono. E la laicità – che è un attributo di Dio che nulla espelle ma tutti accomuna – non è coinquilina di quei vescovi, che si mettono al di sopra della coscienza, pur avendo studiato (ma come hanno studiato?) il contrario. Per questo anche fanno di Francesco papa un bersaglio, seppur nella forma prelatizia che è cugina stretta dell’ipocrisia: dicendo e non dicendo, allontanando i molti che vorrebbero una Chiesa impegnata per davvero nella costruzione di una società più umana. E non un’istituzione che è lì quasi sempre per accusare e condannare, triste e noiosa. Anche alcuni preti che lasciano il ministero si trovano a pensare come i due di Emmaus: noi pensavamo, e sconsolati si allontanano da chi è stata per loro madre. Insani, certo, perché una madre non si rinnega mai, comunque. Ma una madre non può mettere un figlio nelle condizioni di rinnegarla. Va molto di moda oggi la resilienza, parola magica che si combina in tante salse; eppure parola necessaria, là dove esprime resistenza alle sollecitazioni d’urto. E quante oggi, oggi nella Chiesa e nella società! Colpi che ti arrivano in pancia, e non piegarti: resilienti, appunto. Capaci di vivere l’imperfezione come fosse l’unica possibilità di perfezione; e non per adeguarsi al peggio, ma per riconoscere che l’unico perfetto è il Padre nostro che è nei cieli. E accettarne le conseguenze: una Chiesa che non giudica, ma accoglie; che non teme di benedire due persone di qualsiasi vocazione umana, quando ha pratiche di benedizione degli animali nella festa di sant’Antonio. E contemporaneamente ricordando che il libro dell’Apocalisse chiude qualsiasi rivelazione; per non piegarsi, come la lobby polacca del tempo in Vaticano, a familismi patriottici di una suora che si è spinta fino a dipingere il “suo” Gesù: arrivando a soppiantare il titolo liturgico in albis con quello della divina misericordia, che non è riducibile a un giorno (quasi fosse una festa della mamma) essendo il tutto del Vangelo. Una Chiesa che conosca i propri limiti, e li mostri, e non li nasconda dentro vestimenti obsoleti. E non si allei, come in Polonia (ancora? ancora) con un regime cattofascista, che riproduce in equivalenza una sharia assoluta e incontestabile, e mentre combatte l’Islam; e lo fa con la voce potente della radiomaria di là, dove, per i toni, Maria la madre di Gesù esce bestemmiata. Volere una Chiesa bella: sanificata dalla polvere della storia, splendente della sobrietà evangelica, la stessa delle rondini che un tempo sfrecciavano nei nostri cieli di maggio. Tutti i giorni a far trasparire il Dio di misericordia per malati, peccatori, stranieri. Per chi ce la fa e per chi crede di farcela senza di lui. Evitando gli scandali veri, del credere nel denaro come un sacramento inevitabile. O di pensare che, senza condivisione di quella misericordia in alcun giorno della storia e verso la storia di ciascuno, si possa annunciare il Vangelo. Tutto questo dovrebbero fare preti e vescovi, pure quelli americani. Pure quelli che hanno lasciato il ministero: preti in eterno, preti di misericordia universale comunque sia la loro vita presente. Essendo la veste battesimale irreversibilmente su di loro.