‘sti giorni di Pasqua non sono le solite vacanze pasquali. Nelle quali ci stanno sì gli impegni, per i preti, di una più intensa preparazione omiletica da scandire nella diversità delle celebrazioni; e ci stanno anche quei profumi di primavera che coincidono con il mistero grande della resurrezione. Di Cristo e la nostra, ancorché per il momento promessa. Di primavera è il bianco dei ciliegi che sta riempiendo la collina, una rinascita che sfida il rosso del covid, che di queste vacanze pasquali segna appunto il contrasto. Che si allinea ai pensieri: tanti, sconcertanti. Al dopo che qualcuno desidera come il prima. Ma che i molti sanno che non sarà più lo stesso. Certo che ci si butterà in quella sarabanda di recupero del tempo perduto; perché questa è la sensazione che un poco tutti sperimentiamo: abbiam perso del tempo, e occasioni, e ricchezze. E non se ne uscirà al meglio: i preti più svegli sanno che sarà dura. Sempre meno certezze, sempre più fanatici dell’io, le cose di Dio scaleranno all’indietro, riguardo alle priorità. E crescerà per contrappunto l’ossessione religiosa di altri: con il risultato di una cacofonia difficilmente affrontabile in comunità che già risentono dell’indifferenza religiosa. Se poi ci mettono il carico i preti stessi!: quelli che si preparano allo strafare; o quelli, e forse neppure se ne accorgono, che si adagiano dietro sacrestane delegate a fare da filtro; e quelli che ancor più di prima si riterranno capaci da soli, e incapaci di un lavoro di squadra si drizzeranno ad attori protagonisti. E Cristo che ancora sta in disparte. Se ci saranno invasioni di campo dopo aver vinto la pandemia – e cioè invasioni di chiese non più frequentate per prenotazioni o biglietti numerati – prepararsi a “vedere” i chi che affolleranno; e non perché teste calve o argentate siano di scarto, ma se sono le sole? Se i giovani stanno nei paraggi delle chiese, nei campi di calcio, nelle funzioni del Grest e non in quelle eucaristiche? Seminari deserti non per colpa della pandemia, si sa: dunque il tarlo lavorava già nel bosco ecclesiale. Il perché è il grande interrogativo su cui, preti intelligenti, potranno ripartire: non lamentando un gregge piccolo, né, forse, una atmosfera da catacombe, di minorità. Piccolo e ristretto potrebbe diventare il bello evangelico. Che sa testimoniare le cose sane del Signore – sane per qui in terra e per il cielo – a partire dai pochi: gli undici, e i santi di dopo (quelli veri, non quelli come me). Un servizio umile, gratuito, svincolato da pregiudizi. Pressati dalle tante domande di senso, anche ecclesiastico – no ai divorziati? no al celibato? no alla benedizione su chi spera nell’amore? e, per converso, sì alle pompe celebrative, residui liturgici che confondono la tradizione con le tradizioni? – un prete oggi ha ben più da fare dello strafare: rintanarsi per un tempo sufficiente nell’ombra della preghiera, per dire a sé nel silenzio prima che ad altri dove sta la buona notizia portata da Gesù di Nazareth. Notizia di liberazione, notizia di verità. I preti non stupidi sanno che lì trovano la sincera disposizione della propria vita. Certo non è come questa passeggiata sui colli, da cui sono venuto qualche mezz’ora fa. È un po’ più eterogenea, e un po’ meno deliziosa. E so che sono pensieri gratuiti. E so che non c’è un archetipo di prete cui fare riferimento perché non stoni la loro presenza nel mondo. (Ricordano alcuni miei lettori che un archetipo ho cercato di costruirlo in don Celso: il prete umile e saggio che avrei voluto essere, un desiderio che era un proposito. ) No, l’archetipo di prete non c’è. C’è l’uomo che ciascuno è, lasciatosi mandare ad annunciare partendo dalla propria fragilità. Riconosciuta e accettata, nonostante, con serenità. Pensieri pasquali, questi, da prendersi con un goccio d’amore, mi raccomando.