caro Enzo, non ti ricorderai di me, con tutti quelli con cui ti sei incontrato nel tuo magnifico mestiere di evangelizzatore. E non ricordi certamente una mia piccola osservazione, in privato, che tu hai smosso con insofferenza, in uno dei tuoi passaggi a Santa Lucia (Mi è successo altre volte, e con altri,  di essere un rompi-cabasisi, per dirla come quel mio amico siciliano: non lo faccio perché ne godo, ma perché lo sento come bene, magari sbagliando, perché no?). Ma fammi dire: quel che succede lì a Bose sta intristendo molti, e sta facendo festeggiare alcuni avvoltoi. E’ mai possibile che non si potesse trovare nel silenzio monastico una soluzione, che è poi, nel caso, l’insediarsi nell’umiltà? Far scomodare Francesco, quanto lacera la tua fedeltà più vera, e tanto lodevolmente espressa, al suo servizio autenticamente evangelico? (pensa che io mi aspettavo, e nel riconoscimento della tua opera, che ti facesse cardinale, avverando un ritorno ai cardinali-diaconi). Leggo il tuo comunicato: già il fatto che con te siano invitati una sorella (già responsabile del settore femminile) e due frati a questo distacco, dice qualcosa, non ti pare? Sai, i cerchi magici… Ed è il qualcosa che dovrebbe darti risposta: sei intelligente a misura spirituale per capire che qualcosa non deve aver funzionato. Dalle tue dimissioni in poi. Immagino la difficoltà di staccarti da un ruolo elogiabile – il fondatore – per metterti nell’obbedienza al nuovo priore. È difficile. Lo è stato per Benedetto, e forse tu hai usato le stesse espressioni nel lasciare l’incarico: “tra di voi c’è anche il futuro Papa al quale oggi prometto la mia incondizionata riverenza e obbedienza”. Certo, ancora una volta tra il dire e l’agire, scorre il fiume dei nostri sentimenti. Sai, è lo stesso dei parroci che lasciano l‘incarico, e continuano a vivere nella stessa parrocchia. Non tutti, ma alcuni si risentono per un suono delle campane diverso, per delle candele che scompaiono, per chiamate pastorali che sembrano mettere in discussione quanto lavorato da loro. Non è così, ma sentono così. Eppure te lo sarai detto, oltre che dirlo ai tuoi lettori, che “lasciare la presa è un’arte non facile”. Ti dilunghi nel capitolo sesto del volume Sulla vecchiaia. Dieci paginette per raccomandare di lasciare ad altri di subentrare “per portare avanti ciò che per noi umani resta sempre incompiuto”. Certo, senti l’esigenza che ci siano cuori pronti ad ascoltare: forse è questo che hai sofferto in questi due anni? Non ti sei più sentito ascoltato? ma su che cosa? e per che cosa? Non per nostalgie del come eravamo belli quando eravamo giovani “e andavamo dove volevamo” (Giovanni, 21), spero. Ma forse questa è l’ombra che sperimentavano proiettata su di sé fratelli e sorelle del monastero; e forse da più anni, ancor prima delle tue dimissioni. Posso dirti che c’era un’aria di guru (presenze- assenze che incombevano) pure sui vostri ospiti? A parte gli acritici passivi che sempre stanno tra i seguaci, e che adesso mi sputeranno sul testo. Ecco perché mi spiace che tu voglia prove per l’accorgimento (sentilo come un accorgimento, e non come una punizione quanto ti è chiesto; e mi ripeto: non avessi costretto ad arrivarci sarebbe stato meglio per la Chiesa tutta, e per chi si arrabatta lontano dai riflettori per indicare le luci che richiamano, e Bose tra quelle!). Ma quali prove? Non si tratta di atti (e mi vergogno un po’ a dire io queste cose a te, di cui sono stato interessato apprendista) ma di quell’esserci che non sa ritrarsi. Non ti sei lasciato custodire a sufficienza dalla tua cella? “L’opera che un vecchio vorrebbe veder finita” non sta consistendo per te in una eredità che sai inviolata, e inviolata proprio da te, nelle mani di un fratello? Una eredità preziosa per la nostra Chiesa e per l’oikumene cristiano, non può aver la sorte dei cedri del Libano: quando cadono, risuona a sgomento e molto lontano il loro lamento. E le pigne si spandono. Recedere è non far succedere. Per favore, fallo.