Il grido strozzato nella gola di quasi tutti, per il 4 di maggio (che è il giorno prima del 5 di manzoniana memoria. a chiederci comunque attenzione su quell’ ei fu di uomini e di cose della vita). Finalmente! Almeno liberati verso i congiunti! Ma un poco strozzato rimane ancora, sulla elaborazione di congiunto: perché no gli amici. E dunque un prete da un altro prete per confortarsi nella solitudine celibataria, no? Credo che nel bailamme, per altro comprensibile nella pandemia che ha viruslizzato le menti di chi non ne è stato preso fisicamente, sia mancato da parte degli uni e degli altri quella parola tanto ascoltata: responsabilità. Tanto ripetuta quanto non rispettata: non dico nei comportamenti, davvero encomiabili nell’osservare le “distanze”, ma nelle teste. Così nel gran cortile degli italiani ciascuno è entrato in zuffa per le galline che pure sono di tutti: vescovi contro governo, preti contro vescovi.  Una serie di interventi a raccontare ciascuno la sua parte. E finalmente!, dicono gli uni, ché i vescovi oggi hanno detto di non aver nulla contro le disposizioni di difesa del governo, anzi. E finalmente!, anche se un po’ più strozzato, mormorano quelli che han visto fissare una data, ma non è un po’ troppo lontana?, per la riapertura al culto eucaristico. Perché di questo si tratta, e attorno a questo c’è la gran disputa che non si può sorpassare con disinvoltura. Il dominicun, appunto. Desiderarlo è il minimo; e non ridurlo a uno spettacolo televisivo: meglio il nulla, meglio persino che anche i preti non celebrino, e in mancanza di quel popolo celebrante per cui la memoria di Cristo si fa, rispettino anch’essi il digiuno dei loro popoli. Buone ragioni degli uni e degli altri. Ma mi pare che denominatore comune sia la sfiducia nella responsabilità. La dimensione etica della responsabilità è il fine dell’obbedienza: le regole possono orientare la condotta, ma la condotta può orientare le regole; è la risposta sulla intelligenza dell’obbedienza che si deve avvalere della disobbedienza: il mio mantra che molti miei pazienti interlocutori non riescono a digerire. È lo stile con cui nella Chiesa intera ci si deve porre, con cui ci si pone nell’annuncio del Vangelo. Se abbiamo bisogno di templi per la nostra terrestrità religiosa, tuttavia dobbiamo ricordare a noi stessi e al mondo che l’unico tempio è Cristo stesso. E dunque questa è l’occasione data per riflettere sulla “ritualità”: talvolta, si può vivere senza di essa? senza la precettistica che l’accompagna? senza domeniche prive di dominicum? Una risposta la si deve ora per uscire dalla battaglia fuorviante che molti hanno ingaggiato in difesa di qualcosa che forse non è evangelico: né nei modi né nello stile. C’è una impressionante quantità di livore da questa pandemia, e di arroganze: dei nostri politici – e c’era da aspettarselo che non avrebbero imparato niente; ma nella Chiesa? Ci è stato dato un cervello per pensare, un cervello spirituale: per assumerci le responsabilità senza sentirsi costretti da strettoie necessarie, ma anche prendendoci la libertà dovuta a chi ne chiede il servizio. Se è vero che in chiesa si va e non ci si resta, perché fuori è la missione del cristiano; e sempre che la missione della Chiesa è di ribadire al mondo, in un linea chiara, che non è qui per un potere ma per un servizio all’umanità (La Chiesa è Chiesa soltanto se è per gli altri, Dietrich Bonhoeffer). E se entra in conflitto, non è per sé ma perché annuncia qualcos’altro rispetto a logiche terrene. E allora finalmente sgorgherà un finalmente! vero, della verità di un inizio buono per tutti, per chi accelera e per chi decelera. Sull’isola tra Nizza e Cannes c’è l’abbazia di Lerins (ad abati che incontro, racconto di come celiando dicessi all’abate d’essere anch’io un priore ma senza monaci – e la risposta sua, pronta e intrigante: non sa quanto è fortunato!). Ebbene, a Lerins c’è un Crocefisso che sorride. Un sorriso enigmatico per un confitto alla croce. Un sorriso che interroga. Un Crocefisso che chiede di ricordare sempre perché è lì: non finito lì, perché nessuno di noi si senta finito nella vita che muore, e muore ogni giorno nella incomprensione di attese che vanificano, e di intese che si estinguono. E’ un segno di grande speranza quel sorriso sulle labbra di Cristo: invita a sorridere, a non inginocchiarsi davanti a lui avendolo ingessato a una croce, a delle ritualità bloccate che offendono il soffio libero dello Spirito. Invita finalmente a capire le differenze, a sapersi dire che se manca a noi l’Eucarestia, quanto più manca a popoli dell’Amazzonia. E dunque quanto sia lontano dal sorriso di Dio impedire che ne abbiano possibilità, e solo per leggi umane che impongono un certo status di vita per il ministro celebrante, pena il nulla. L’eucarestia varrà pur bene un prete non celibe! Tanto per allargare il sorriso di nostro Signore, e non rinserrarci solo dentro il cortile di casa nostra, dove il razzolare da galline a volte genera ottusità.