Quattro settimane e più da che siamo entrati in un pianeta diverso. E noi preti a celebrare in solitudine: sì davanti alla chiesa  e per la chiesa, ma senza la comunione dei corpi non è lo stesso celebrare. E dunque ci si snoda in modo diverso tra altare e navate, dandosi camminate che sigillano le parole della Scrittura in meditazioni di profondità più accentuata. E così t’accorgi che la profondità si dissimila dalla seriosità con cui imbastisci talvolta il tuo servizio di Parola. Ed emergono pezzi che trasportano ben oltre i muri, e oltre la collina. E dunque immergono nella universalità di quella liturgia che stai celebrando sine populo, ma con tutta l’umanità. Ti fanno sentire più vera la salita al Calvario che ogni messa dovrebbe ricordare, il sacrificio di chi si è dato per noi, per tutti. Ma insieme, in un connubio difficilmente districabile, la memoria di gesti, di incontri, di abbracci. Ed è lì la chiarezza il più delle volte nebulosa: non si celebra la lode di Dio se non passando attraverso la fragilità umana, la stessa che fu del Figlio di Nazareth. E dunque non ci son più quelle “distrazioni nella preghiera” che tu prete hai raccolto tante volte nei confessionali feriali: tutto concorre, tutto è bene che ci sia perché la preghiera sia vera. E se dunque si insinua quel mattino assolato di Nizza, a sgranocchiare per strada la baguette ancora calda, mentre ti si arricchiscono gli occhi delle bancarelle di frutta e verdura stese per kilometri sulla traiettoria del tram … se questo succede, la preghiera prende essa stessa la fragranza del pane sfornato e la benedizione per quel pane che diventerà la presenza del Cristo! Certo, occorre immergersi nel silenzio per afferrare i rumori nuovi: presenti da sempre, coperti, sembrava, per sempre. E invece eccoli lì. Risentire non solo il mattino il pigolio degli uccelli, e il lieve stormire del vento sull’edera rampicante del chiostro, e soprattutto il suono stesso del silenzio. Che, è vero, può inquietare, può tradursi in una pena, in una apnea di affetti, di desideri: eppure è la stessa sospensione del respiro tra una strofa e l’altra di un canto per immergere in verità. Nel canto della vita, che è anche per le pause che chiede, è quel  che sta succedendo? O si vive un silenzio forzato, nel sentore della segregazione, e dunque di una punizione immeritata? I soliti figli maggiori della parabola si son fatti sentire anche dentro questa pestilenza: è un castigo di Dio. Detto così equivale alle Madonne che piangono. E cioè un Paradiso che non è gloria, pienezza massima di vita e dunque gioia incontaminata, e incorruttibilità; ma cielo di vendicatori e di piagnucolanti: c’è qualcosa di più blasfemo di questo? Purtroppo, un certo modo di supplicare Dio in pretesa di miracoli, produrrà credenti entrati nella pestilenza che se ne usciranno non credendo più: Dio non ha fatto, i Santi non hanno ascoltato, ho pregato tanto… Un Dio che non è il Signore, Santi che non sono intercessori, ma dèi dalla bacchetta magica: ci si dovrà interrogare su quale spessore di fede si vive nelle nostre comunità. A suo tempo. Adesso pieghiamoci a questo tempo di silenzio: benedicendolo. O almeno chiedendo ai Santi e al Signore di farci capaci di benedirlo. Così si ottengono i miracoli che non si chiedono: perché così si rende presente la bene-volenza del Signore nella cagionevolezza che sperimentiamo.