È avvenuto quello che non mi era mai successo: le partite di pallone? a spezzoni, per curiosità condivisa con i milioni altri,  in tempo di mondiali, niente più. Non sono tifoso. Mai entrato in uno stadio, neppure per manifestazioni religiose (questo però dovrei spiegarlo a parte…). Ma ieri sera mi sono digerito tutta la partita. Ammaliato dallo stadio vuoto. Dall’assenza del fracasso di cosiddetti tifosi che son lì non per contemplare, ma per esibirsi in cori da stadio, appunto: insulsi, quando non sono offensivi, certamente lontani da un rito che chiede pause di silenzio. Silenzio appunto: e il suono del calcio che finalmente ti arriva. Quelle voci, quel pallone che tocca suolo o la traversa. Il silenzio che ti fa partecipe finalmente del gioco, dei suoi protagonisti, e fa anche te protagonista. Perché sì, i calciatori hanno necessità di chi li circondi e li ammiri. Ma nello spettacolo di ieri sera (quattro gol più quattro non son mica paglia, cantavano i telecronisti), avranno sentito su di sé lo sguardo diverso, la diversa partecipazione di uno, o forse di tanti che come me sono stati coinvolti totalmente una prima volta?  Non tifoso, ma frequente lettore di cronache sportive – si impara sempre, si impara da tutti – leggevo di una partita a stadio vuoto da tutti considerata più che una bestemmia, qualcosa da campetti d’oratorio: detto con quel tono sarcastico di chi non sa che il meglio dei giocatori è partito da quei campetti.  La solitudine di sgambettanti rincorse non per spettatori ma per se stessi: una bestemmia, o invece una liturgia? (Profanata oggi da quei genitori che dagli spalti ridotti dei campi di paese traducono in piccolo, ma non in modo meno truce, l’aggressività delle curve.).  Non potrebbe essere stata una rivelazione, una epifania, anche per chi è uso guardare dalla conca domenicale infuocata? Il suono del calcio è il silenzio di uno stadio. Perché le sfide più ardue possano essere vinte senza necessariamente perdere se stessi: soprattutto in un gioco, perché tale è e dovrebbe tornare ad essere. Ma soprattutto in quelle sfide che la vita ti mette dentro i giorni: facendoti arretrare di fronte ad ottimismi facili o a pessimismi faticosi; costringendoti a rivedere il nocciolo delle cose, tempo e spazio che chiedono di essere rimisurati in tempi di epidemia, ma per i tempi di sempre. Perché sì: è giusto che i credenti siano, alla Diogneto, in tutto cittadini della loro patria. Ma la sofferenza di non avere il dono dominicum, se celebrato in sicurezza? quell’eucarestia che è salute dei viventi? Responsabili certo, ma da adulti. Forse chi ha deciso e chi si è adeguato senza meditato confronto, meriterà, a epidemia conclusa, di essere raggiunto da una qualche interrogazione. Perché le sfide si assumono senza rinnegare se stessi. Tutte. Anche quelle di tempi nefasti. O soprattutto?