Non dell’opera di Francisco Goya, che richiama al Prado di Madrid curiosi un poco morbosi, e poi disillusi, più che appassionati d’arte che possono trovare lì capolavori di Rubens, Rembrand, Tiziano; di El Greco con la sua Resurrezione – che è eros puro nel connubio con thanatos, la morte; se non dello stesso Goya, con quel El tres de mayo dove il condannato in bianco e giallo alza e spalanca le braccia come un crocefisso e grida la sua fede per la libertà. Non dunque della Desnuda di Goya né del suo fucilato-crocifisso così simile al Cristo di El Greco, con quella mano perforata a ricordarne la passione – anche se forse troverete una connessione qui. È questa collina che da qualche giorno è desnuda: un invito a ripulire i margini della strada, dal fogliame che calava sino a sfiorarti, è diventato un disboscamento che ha raggiunto alberi da alto fusto: e quelle rotonde vestigie sane sono lì, accumulate, ad accusare. E ottenendo una piattezza che stona. E se chiedi perché, ti rispondono Già che c’ero: uno strapianto molto, molto increscioso. Denudata: e ci vorrà un po’ più di una estate perché tornino le ombre a lasciarsi accarezzare dal sole su questa strada, viottolo antico, che porta alle pietre antiche. Un’operazione che ha avuto la vigilanza indispensabile? Mah! Di altri denudamenti, e certamente più drammatici, viviamo. Una Chiesa messa a nudo, e non solo per gli scandali pedofili. Messa a nudo in personaggi che sono stati “elevati” a dignità di testimonianza, e che vivono di un narcisismo per nulla evangelico. Di una rigidità che non conduce al sineglossa del Vangelo; volendo far vivere di una sacralizzazione che è distante dal Nazzareno, mandato a chiedere fede e non religione: non ritualità ossidate, non separazioni inumane. Ma un desnudamento di quel vivere civile che ha fatto della politica un assecondamento dell’egoismo più becero. La distinzione sociale che doveva obbedire a una acculturazione dei popoli sta diventando – è diventata – uno spogliazione di quei traguardi di convivialità che pure le generazioni precedenti avevano generato. È penetrato nel vissuto degli individui quell’odore stantio che annusi in certe scale di condominio: dove ciascuno cucina secondo sé, incurante delle narici altrui. Ho imparato in questi giorni una nuova parola, emmenalgia: viene dal verbo greco emméno, che significa rimango saldo, persevero, continuo strenuamente. Nonostante. Questa è la fedeltà che ci è chiesta: rimanere dentro le istituzioni, chiesa e mondo, nonostante. E nonostante che, parole come queste, siano bollate come cose da parroco. Bollate da gente che scambia la risposta ai bisogni quali fossero sogni: e non la speranza che conduce, appunto, e concretamente, in questa marea di mediocrità dentro cui siamo immersi. Cacciar fuori la testa, non assimilarsi, controbattere: sapendo la fragilità altrui misurata sulla propria, e tuttavia non cedendo. Che non è ridursi alle fantasie delle magnifiche sorti e progressive; ma aver chiaro che il peccato del mondo, tolto dal Cristo, non ci salva dai peccati di infedeltà di cui sappiamo così bene, e tutti, infarcire i nostri giorni. Bukowski ha scritto che “tutti i vicini pensano che noi siamo strani, e noi pensiamo lo stesso di loro, e facciamo tutti centro”. È vero: con la distinzione però del centro. Ci può aiutare l’indimenticabile battuta di Marcello Marchesi: l’importante è che la morte ci trovi vivi. Vivi di quale vita? È la differenza del centro. Si può anche vestire la desnuda accoppiandola alla vestida. Ma l’effetto potrebbe essere peggiore dell’originale, se si perde la libertà del fucilato che prorompe dal grigio degli altri corpi.