Non è, cara amica, che ci impuntiamo sugli errori dei cardinali, come se si fosse condotti da “santa” invidia, non tenendo conto dei tanti che, elevati alla porpora, sono degni. Degno è stato certamente il cardinal Martini: l’abbiamo conosciuto, e si è fatto amare per la coerenza della vita ispirata alle Sacre Scritture, lette sull’uomo contemporaneo; degno il cardinale di Firenze, Piovanelli, recentemente mancato: tutta la sua vita è stata esemplare, da parroco a vescovo di Firenze, vivendo in semplicità e armonia in ogni ministero affidatogli. Ma colpisce che così non viva ciascuno di quelli a cui è stato ricordato che vestono di rosso per una missione al martirio. Pur nella diversità di ciascuno. Ma sicuramente una diversità che non può mai essere affine alle modalità mondane. Il rischio di vescovi con la “mentalità del principe”, denunciato da papa Francesco, esiste là dove ci si adegua a vivere l’autorità religiosa allo stesso modo di quella mondana: per sé e non per bene evangelico. Il Papa, diceva Piovanelli nei suoi ultimi giorni, ci insegna “a non metterci al di sopra e neppure alla pari, ma al di sotto, come ha fatto Gesù lavando i piedi. Tutti dobbiamo metterci in discussione e imparare sempre più a servire, non a difendere la nostra autorità”. E questo copre soprattutto quel bene consegnato a Pilato: la verità. Verità sulla Chiesa, ma verità sulla dottrina che si è imposta con una rigidità che nulla ha a che fare con quella conoscenza dell’uomo che è voluta dalla creazione: creazione dell’uomo sempre in divenire. L’immagine della Chiesa, nonostante il papa spiritualmente “mediatico” che ci è donato oggi, non è ai massimi livelli di esemplarità. E tuttavia fa specie sentire persone che lasciano la Chiesa, motivandosi – a viva voce e con un po’ più di un pizzico d’arroganza (sanno essi il peccato? il proprio e l’altrui? e la fragilità da cui nessun credente è esentato, a qualunque vocazione debba rispondere?) – con gli scandali che uomini di Chiesa producono. Chi gli ha insegnato che la fede dei discepoli nasce dalla coerenza di chi gliela trasmette? Chi gli ha detto che se un prete, un vescovo, sbaglia, è Cristo che sbaglia? Non ci si può chiamar fuori per questo: solo una crassa ignoranza, e nient’altro, può spiegare il loro gesto. Puoi forse rinnegare tua madre solo perché partorisce figli indegni? O ancor più la sostieni per la risposta che solo lei, con amore, sa dare ai suoi figli, quanto più sono nel bisogno? È vero: guai a chi scandalizza i piccoli. Ma piccoli sono anche quelli che si sono sempre accontentati di atti religiosi, senza nutrirsi di Parola, senza accendere la fede nel segno di Gesù che si consegna, e non si sottrae, al peccato dell’uomo? La neghittosità di Pilato è tuttavia riscattata (per ognuno c’è sempre un riscatto, persino per Giuda e il suo pentimento che davanti a Dio può non essere stato tardivo, nonostante – o forse proprio per questo – si sia condannato al suicidio), sì, riscattata, la neghittosità di Pilato, da quella domanda che nella Chiesa dovrebbe poter diventare un mantra: che cosa è la verità? Porsi in continuità questo interrogativo, aiuta a non lascia fuori nessuno, ad accorgersi di chi preme per entrare nel grande abbraccio. Anche chi fosse affetto da crassa ignoranza, certo. Difficile, ma necessario. Quanti nella Chiesa sono chiamati a condurre, ad accompagnare, dovrebbero ricordare quanto capita al re Riccardo nella tragedia di Shakespeare: non distinguendo più tra la propria persona e il ruolo, deposto da re dice: io non sono più nulla. Se lo ricordino per non ripetere lo stesso tragico errore: confondere se stessi con il posto che occupano. Solo chi assume la spiritualità del grembiule, non subirà una tale tentazione. È difficile ma necessario. Solo così ci si lascerà condurre alla verità. A poco a poco, ma sicuramente. E finalmente si libererà il volto della Chiesa da ogni confusione con i poteri terrestri. E dunque la si renderà credibile anche per quanti oggi se ne scandalizzano.