[A buona ragione, alcuni nella Chiesa cattolica si interrogano sul numero dei sacramenti. E non solo per un buon confronto ecumenico – che sia davvero un ascolto reciproco – per capire in che modo la Chiesa evangelica conosca solo due sacramenti, il Battesimo e la Santa Cena. La spiegazione che loro ne danno è che gli altri cinque, conosciuti dalle chiese cattolica e ortodossa ( = cresima, confessione, unzione degli infermi, ordine sacerdotale, matrimonio), non sarebbero stati istituiti da Cristo. È vero: non è facile riconoscere allo stesso modo la definizione di sacramento – segno visibile istituito da Gesù Cristo – a tutti i nostri sette. Ad esempio: se si prende la cresima come invocazione dello Spirito e unzione con il crisma, questo avviene già pienamente nell’atto battesimale. E dunque sembra davvero una ripetizione, tant’è che la si chiama anche sacramento della confermazione: cosa che negli anni ottanta è stata mantenuta sì, ma con lo sguardo puntato su una ulteriore celebrazione, detta “professione di fede”: chiamate pedagogiche di appartenenza alla chiesa e meno al Signore che il sacramento produce]. Questa summa sacramentaria (!) per introdurre un interrogativo: ci sarà ancora il matrimonio religioso in un non lontano futuro? Poiché il Censis, facendo una proiezione, ci sta raccontando che tra quindici anni matrimoni in chiesa non ci saranno più. Si sa come sono le proiezioni: parenti dei sondaggi, il più delle volte cannano. Ma qui una fermata va fatta: è sotto gli occhi di tutti i parroci la caduta libera di queste celebrazioni. E non è che ci si può consolare con l’analoga flessione dei matrimoni civili: in una società liquida, gli uni e gli altri patiscono certamente la perdita dello status socialis che il matrimonio dava nel passato. Quel che conta sono i sentimenti: avvolgersi in un intimismo a due, che sta producendo anche un rimando continuo di fecondità, per altro surrogata da cani e gatti che affettivamente sostituiscono i figli; e poi i diritti che vengono oggi riconosciuti alla pari, rinforzati  ancor più dalle legge sulle unioni civili, senza doversi restringere dentro un atto vincolante, e un per sempre che non si percepisce come possibile: questo il sentire comune. La risposta a questo sentire, nelle nostre comunità cristiane, da che cosa è data? C’è purtroppo un cardinale di santa romana chiesa che da un posto di responsabilità sta dicendo che il ricevere la comunione in ginocchio riporterà alla fede (dev’essere una fissazione di quel dicastero, un mantra che viene da lontano, e che si pensava finalmente accantonato con il ritorno di un predecessore nelle lontane terre natie…). Intimismo per intimismo: deprecabile in un senso, e non nell’altro? Il vangelo se chiama all’amore, chiama ad uscir fuori da sé. Se si recinta il vangelo, come mostrare il vincolo matrimoniale come luogo privilegiato, capace di fornire garanzie di stabilità in favore del proprio amore e di quello dei figli? O se il vangelo lo si riduce a organizzazione, a grandi manifestazioni, o, per contro, al “tra di noi” proprio di certi movimenti (e l’ipertrofia dell’ego di preti, che vivono e fanno vivere di surrogati?!), non chiamerà più alla bellezza del consegnare sé a qualcuno: come Gesù ha fatto, come ogni cristiano può fare. E dunque, certo i sacramenti: ma la fede? Fede della Chiesa e fede della persona? In un visibilità che appunto non si congela in intimità, ma vive la testimonianza di un vincolo dentro una comunità. Certo è che tra quindici anni, qualche rara avis volerà ancora nel cielo delle chiese, tubando in Spirito santo: ci mancherebbe. Ma appunto saranno ancor più pochi dei pochi di oggi. Pochi ma buoni? No. Il vangelo non è di pochi. Almeno suscitare la nostalgia per quello cui non si riesce ad accostare. E questa è la responsabilità oggi delle nostre chiese: senza fughe consolatorie altrove, e senza arretramenti in pratiche di religiosità popolare che non contengono la fede.