Avete notato, di questi giorni, i bellissimi cieli che s’affacciano dopo un temporale? Bianchi cumuli di nuvole lattiginose, fissati sull’azzurro, in una plasticità che neppure Michelangelo… In viaggio, qualche giorno fa, a distrarre un poco dalla guida: ma basta mettersi sulla corsia di destra, quella meno frequentata, e prendersi una velocità che permette di osservare senza pericolo. E pensieri che accompagnano, sollecitati dal teatro della natura: senza alcuna apparente parentela, ma non è detto. Appunto, in quel viaggio, giorno in cui la liturgia festeggia il Cuore di Gesù, riverberi di considerazioni, slegate ma non troppo. Una festa, quella, a cui togliere i riferimenti zuccherosi, e ottocenteschi, del Gesù biondo dallo sguardo languido che apre la tunica per mostrare un cuore da cui si dipartono raggi luminosi: non so se questa fu la descrizione suggerita da Margherita Alacoque. La stessa immagine, anche se rinnovata da uno pseudo gusto moderno, che imperversa nelle nostre chiese, da quando suor Faustina, la veggente polacca ha convinto il papa conterraneo a dare titolo diverso alla domenica in Albis: festa della misericordia. Dimenticando che una giornata della misericordia c’era già nel calendario liturgico, il venerdì dopo il Corpus Domini appunto. (E passando sopra a quel ritmo battesimale che nella deposizione delle vesti in albis immette nella Chiesa a pieno titolo verso la Pentecoste). Voglia di rifare il volto di Cristo, di secolo in secolo? Tra l’altro dimenticando che le visioni delle cosiddette veggenti nulla hanno a che fare con la Tradizione scritturistica che si è conclusa con il libro dell’Apocalisse? (Si può essere canonizzati nonostante; questo è successo a un po’ tutti i santi, papa Giovanni Paolo compreso: ed è bello saperlo per ciascuno di noi che, con molta probabilità, non saremo messi in nicchie d’altare). Certo, e nonostante le lunghe file ad ogni esposizione, quel Cristo che esce dal lenzuolo di Torino non è il massimo per un gusto che Lo vuole bello secondo canoni di irrealtà: Gesù, ebreo di due millenni fa, un poco tarchiato, alto non fino all’uno e settanta, uno il cui fascino doveva consistere soprattutto nello sguardo: fissando amava, e ti sentivi amato. E invece: eccolo lì, colori impossibili, lungo e affusolato come un certo standard maschile attuale richiede; e comunque ancora con quella faccia femminea, e una rinnovata raggiera che gli esce dal petto. Ed entrambe le veggenti a dire che non andranno all’inferno quanti seguiranno … che cosa?, l’una, la frequenza eucaristica di nove primi venerdì del mese (e si badi di non scavalcare la sequenza, se no si ricomincia da capo!), l’altra ad assicurare che non perirà chi venererà quell’immagine (un dipinto che si sovrappone alla contemplazione eucaristica? un dipinto e/o il corpus Christi!?). E forse per questo tanti preti l’han subito collocata – gusti estetici pur non permettendo – per assicurarsi personalmente la salvezza? Preti che avrebbero potuto accontentarsi, al di là d’ogni figurazione, di predicare quanto il vangelo ci dice da sempre: Cristo ci ha amati e ci ama, senza compromessi e con una fedeltà che è inversamente proporzionale al nostro peccato. Amore che non chiede una corrispondenza alla pari: non impone gioghi, o ricatti devozionistici. Amore che non chiede emozioni, semmai concretamente avvia al difficile dell’affidarsi. E certo l’icona della Sindone, per quanto sgradevole secondo canoni di bellezza contemporanei, aiuterebbe di più a entrare nel cuore del Cristo che ama: oltre appunto le apparenze, nel Cristo glorioso e bello della bellezza della Trinità. Tuttavia, se è vero quanto ha insegnato Hume, essere la bellezza “non è una qualità delle cose stesse, ma esistere soltanto nella mente che le contempla” accettando che ogni mente percepisca una diversa bellezza: se è così, è bello pretendere che l’immagine di Gesù – ancora in-glorioso, terrestre, umano come noi siamo – sia propria di ciascuno, non imposta da fuori. Fabbricata da sé, vivendo ciascuno una storia che lo specchia in Colui da cui, in momenti diversi e in modi diversi, ma sempre, sa di essere amato; e secondo il bisogno di amore che vive, e condivide. Come queste nubi in cielo: di diverso splendore, se sipario disteso sul sole di giorno, o sulla luna di notte.