Questo maggio, così aprile: con tuoni e rovesci improvvisi di acqua che danza nel vento; vento che mani non acchiappano, ma che c’è; e lo dice questa natura scomposta, pioggia che schiaffeggia in secchiate che nessun ombrello può contenere; e alberi che sembrano avvitarsi su di sé con rami che sfiondano l’uno sull’altro. È bello, ma certo c’è rischio: fulmini che possano entrare da finestre lasciate improvvidamente aperte, o piante, di cui non si è misurata una possibile malattia, che si schiantano improvvisamente su uomini e cose. Ma questo tempo – di mattinate fosche e pomeriggi azzurri, di queste stagioni racchiuse in una sola giornata – , di più mi fa pensare a chi ha della vita una dimensione monocorde. E mi richiama, a mo’ d’esempio, quei fanatici che a Natale partono per spiagge assolate; a chi si lascia alle spalle la propria stagione, che non è climatica solamente, ma intrisa della propria storia, fatta di cielo e di terra, di atmosfere che racchiudono tutti per radici che vengono da lontano;: e chiedono di essere riconosciute per assicurare una fecondità ben oltre la biologica. E non solo per un credo religioso, ma per una necessità antropologica che tocca anche a chi se ne può infischiare del Natale dei cristiani, e delle loro speranze. Non è questione di presepi o di alberi addobbati a palline di vetro. È questione di felicità. Che, si sa (o si sappia) non è un singolo valore, che su qualche mercato della vita si può trovare e comprare. È una somma di valori: una somma algebrica, fatta di più e di meno, e non gli uni senza gli altri. Sottrarre il dolore, il conflitto; non viverli dal di dentro proprio per uscirne: è sottrarsi alla felicità che si coglie per attimi qui e ora, ma sarà piena (una promessa anche per i non credenti) nell’eternità della vita.  (E’ un’Ape che se posa | su un bottone de rosa: | lo succhia e se ne va… | Tutto sommato, la felicità | è una piccola cosa. Trilussa). Una somma di piccole cose, che si danno a volte l’una dentro l’altra, talvolta l’una a soppiantare l’altra. Ecco: negarsi le stagioni è rifiutarsi di immergersi nella vita che è data. Come rimuovere ricordi, e melanconie e nostalgie, che tessono emozioni, terriccio fertile e fecondante per  vivere il presente? Rifiutare è seppellire uomini e circostanze che hanno dato fiato alla propria anima, in incontri che, non potendosi cancellare, si possono far fruttare nella riconoscenza. Vivere dunque la pioggia come una bellezza non minore di terra e cielo inondati dal sole; e lasciarsi affascinare da quei cieli plumbei, che apparentemente minacciosi (o forse no) si stendono fino a un’ultima striscia d’orizzonte che si sfianca in un luminoso grigio perlaceo: è non voler perdere nulla di quanto sta nella promessa della vita. Quanto sarebbe scialba una vita, e noiosa, se le sottraessi l’acqua lasciando solo il sole, lo si vede dalla stupore di chi scopre la neve, che la sua regione non gli ha mai dato. E dunque, altri cieli, altre terre? Sì, non dimenticando mai tuttavia che si porta sempre sé, con il corpo l’anima: e cioè, quella storia incominciata fin dal grembo materno; e quel desiderio d’immortalità che “nessun continente può appagare più di quanto un pizzico di farina, in bocca ad un affamato, possa saziarlo”. Questo lo avrebbe detto il santo Curato d’Ars. Che, seppure da una cultura diversa da quella che oggi viviamo, più luminosa di quella sua canonica triste, ha centrato il bersaglio. Perché l’aver vissuto una buona vita pur nella maniera diversa di ciascuno, ha chiesto ai santi di sempre un solo grande riconoscimento: vivere proiettati, assaporando tutti i giorni che ci sono dati, così come ci sono dati. Senza fughe. Tantomeno fughe all’indietro, come sta succedendo a molti che si dicono credenti, ma credono alla fin fine solo a se stessi: senza umiltà vera, che sta nell’affidarsi, creano stagioni proprie, eliminando quelle che gli stanno davanti. Quelle a cui siamo chiamati da una obbedienza che canta il Laudato sii per ogni creatura: il sole, la luna, l’acqua, l’uomo, e perfino la morte. E quella morte a sé, al proprio delirio di onnipotenza, che la vita esige ogni giorno, per dare i suoi pizzichi di felicità.