No, miei cari, la vena poetica – in scrittura di prosa – permane, e convive. Le grandi distese di campi in fiore, quel giallo dell’erba colza che la pioggia di questi giorni sta mortificando, ma non distruggendo (a questo ci penserà la falce dell’uomo tra non molto); queste distese che trovi nella bassa bergamasca, a citare i campi dipinti da mille sfumature di colori, che hai attraversato in Provenza; no, gli occhi delle emozioni ci stanno ancora: ma convivono. Una sensibilità diversa, che gli anni producono; cicatrici giovani che più si risentono col passare del tempo, e che inducono pruriti problematici. Scriveva Montaigne “grattarsi è una delle gratificazioni più grandi che ci offra la natura, e quella più a portata di mano”. Ma, aggiungeva, purtroppo il pentimento gli sta sempre alle calcagna. Perché a prurito segue prurito, fino talvolta a nuove lacerazioni.  Il convivere dell’animo poetico con la fatica della realtà, definita da una prosaicità del quotidiano, è condizione di equilibrio. Ed è di tutti, per tutti. Quando Freud e Jung saranno finalmente superati, e con loro le innumerevoli forme in cui si è sedimentato il delta della psicanalisi; quando ci si accorgerà che un padre e il Padre non si possono “uccidere” allo stesso modo; e che la storia di una vita non può essere intristita per anni da un avvolgersi su se stessi alla ricerca di colpe, distesi o no su un divano; quando, insomma, si accetterà di far convivere in sé strade intasate – e il loro fracasso di clacson – e campi ubertosi di colori e di silenzio, allora sarà pace. Non la pace del mondo – il Signore ci ha avvertito – ma la pace che assume il conflitto come creativa legge della vita. Certo, a volte nelle mie prose, cari amici che trepidate, ultimamente non compare la pennellata che rinfranca l’ottimismo del cuore: ma l’utilità del pessimismo della mente è esso stesso un cantico. Che va cantato: pena il prolungarsi di quel prurito che offusca la lucidità su quel che avviene. E avvengono cose: nel mondo, e nella Chiesa. Che finalmente un presidente americano rompa il silenzio dell’orrore nucleare, e affronti il grande spartiacque del secolo scorso, tra Occidente e Oriente, tra il prima e il dopo che fu il Vietnam; e lo faccia mettendo piede a Hiroshima, e a Ho Chi Min – la città che ha preso il nome del generale che fece fuggire la grande potenza impotente, di fronte all’orgoglio e al martirio degli abitanti delle giungle (come dimenticare quelle fiammate al fosforo, e la corsa della bimba nuda, le braccia alzate, e sulla bocca il grido che ha l’innocenza violata). Cose buone di un Presidente “abbronzato”, accanto ad altre non riuscite per l’ottusa occlusione di una maggioranza parlamentare contraria (ma di gufi sembra ormai riempirsi la terra, e non solo di là dell’Oceano, in maniera esponenziale: gente dalla vista notturna, e mai il sole di un bene seppur limitato a trarli dai loro trespoli boschivi!). Ed è bello che Francesco non abbia paura ad esporsi continuamente, nonostante i suoi appelli siano sistematicamente inesauditi: applauditi ma non esauditi. Il fallimento del mondo non è fallimento davanti a Dio. E l’essere minoranza che difende la fragilità – sia essa di chi si straccia contro un reticolato o di chi si lacera nella propria umanità impedita – è gradito a Dio come vero sacrificio che redime. Dunque, occorre imparare a convivere. Tra quello che è, e quello che resta una evangelica utopia. Nella giornata di oggi, è previsto un voto di fiducia sulla proposta di legge delle unioni civili. Un ottimo passo avanti là dove si riconosce finalmente ad ogni persona il diritto ad essere cittadino a pieno titolo. E tuttavia, su alcune pretese di diritto – che cos’è il matrimonio? – è il diritto dei cittadini cristiani di dire la loro. Senza scomuniche, ma anche senza adeguamenti irresponsabili. Poi, che costino di più alle casse della previdenza gli accresciuti assegni di reversibilità, per i discepoli del vangelo non è argomento (lo è per i piazzaioli che si definiscono, loro, i veri cattolici; quelli che non si vergognano di proclamare che la sessualità è solo per la riproduzione: almeno ipocriti, o, secondo l’immagine evangelica, sepolcri imbiancati di vescovi e preti che non frequentano la quotidianità delle persone, e non sono afferrate dall’odore delle pecore). Dire che una riflessione antropologica dev’essere all’inizio di decisioni così forti, questo è nostro e da rivendicare. Non altro. Senza le troppe preoccupazioni per quel che sarà: imparando ogni giorno, per il giorno che è dato, dai gigli del campo.