Qui come altrove i giorni passano veloci, come per tutti quelli che hanno scollinato i quaranta. Alcuni giorni, troppo lentamente passano veloci. Ed è un ossimoro, una contraddizione di termini voluta. La lentezza non si impara neppure in un anno, mi accorgo. E lo stile di vita che alcuni dovrebbero saper contenere è per altri un richiamo a saperlo espandere. Perché tra noia e affanno c’è una comunanza che esprime il non senso della vita, o almeno di alcuni suoi tempi. Non senso che conduce a interrogarsi: è difficile capire chi si toglie la vita, ma molto comprensibile chi chiede che non gli venga inutilmente allungata in sofferenze. Quell’inutilmente sicuramente scandalizza gli spiritualisti del dolore, i cosiddetti doloristi: una categoria di asceti e di teologi che hanno fatto della croce non l’unico segno di redenzione offertoci dal Cristo, ma la schiavitù attraverso cui essere i buoni cristiani. C’è una inutilità della sofferenza, se non si iscrive nella sopportabilità umana. Si tratta di afferrare, e i doloristi non lo fanno, il grido di Gesù sulla croce: “perché?”; e la verità della buona notizia già annunciata da Isaia quando profetizza che Lui verrà per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto. Agire di conseguenza: mettendo in atto tutte le pratiche, tutto quanto l’intelligenza umana, e la compassione, offrono per correggere una natura  che occorrerà pure riconoscere incompiuta una volta per sempre: accettarne l’imperfezione per usare la correzione, che è poi la condizione perché ogni uomo costruisca in dignità i giorni che gli sono dati. Della morte quieta di chi a 94 anni può essere accompagnato all’eternità divina, sto ancora ringraziando il Signore, anche se la morte resta quella scura porta sul mistero che ci attende: non bastano le memorie del Foscolo a dire la voglia di non perdere davvero nessuno  di chi amiamo. Lasciarli pure andare per un viaggio altrove: purché vi sia speranza certa di un approdo comune che ci faccia reincontrare. C’è una lentezza che segna il fare terreno, ed è noia talvolta tormentante; e c’è una lentezza che si imbeve di nostalgia per le distanze che l’umanità soffre: o per chi appunto ha varcato la soglia dei cieli, o per chi non ti lascia varcare la soglia della sua anima qui e ora. Quanto struggente quella, quanto colpevole questa: intrisa di insincerità rispetto al proprio agire, allontana chi non si fa complice. C’è un piccolo passero adagiato sul davanzale che dà sui tetti: sperduto in questa mattutina nebbiolina d’autunno, sta forse cercando la direzione di un volo. Come ciascuno, quando le contraddizioni feriscono le nostre speranze, e la sete del bene che il Creatore ci ha detto di cercare senza fughe.