Abbiamo scavalcato di due anni il cinquantesimo giubileo della consacrazione del nostro Tempio. Non abbiamo ancora finito il completamento che ci eravamo prefissi per quella ricorrenza: mancano i portali, soprattutto, e le vetrate sul presbiterio, e alcuni arredi artistici, oltre a varie rifiniture che, prima di essere definite, hanno bisogno di essere collaudate dall’uso. Poiché è un po’ di anni che si sa del nostro impegno, da parte di qualcuno giunge il

 “non avete ancora finito?” che si stabilisce sul crinale del rimprovero e della curiosità. Di solito si risponde come sono usi quelli che abitano la terra lombarda, facendo riferimento al monumento per eccellenza: è come il duomo di Milano. Che è sempre in costruzione.

Quest’idea di una costruzione continua, mai finita, appartiene molto all’adoperarsi cristiano. E ai segni che lo rendono provvidenziale. Perché: se per un verso ci può essere la tentazione di lasciarsi sopraffare dai risultati – e purtroppo da quell’appagamento nutrito di vanità che sono le inaugurazioni – dall’altro c’è la tentazione di rifugiarsi in uno spiritualismo senza corpo, e dunque, alla fine, senza comunione. E se si dice di tutto quel parlare e quel correre che compete a un prete – studio, predicazioni e incontri – non lo si contrappone certo al pregare che pure è movimento, e forse più di ogni altro. Stare con la gente, anche solo sulla soglia per la benedizione come avviene in questa stagione, è per non mancare all’appuntamento di quello Spirito che conduce fuori dai torpori, e dalle certezze non suffragate dalle emozioni della vita: e che porta dove non sai, ma porta solo se ci si lascia sospingere.

[Opere grandi e opere piccole: ho messo le sbarre alle finestre, nelle due canoniche in cui sono arrivato, appena qualche giorno dopo. Non certo per lasciar fuori, ma per vivere meglio, con le tapparelle aperte giorno e notte – se non per eccezionali burrasche – senza patemi, senza angoscianti corse all’indietro a vedere se tutto era chiuso bene contro malintenzionati; senza portarti la preoccupazione della tua casa mentre sei in altre case, dove si chiede con la presenza anche tutta l’attenzione. In una casa – non vi dirò quale – s’è dovuto chiamare un fabbro per tirar su le tapparelle. Erano state per così tanti anni inutilizzate, e si erano incancrenite su se stesse: mai era entrato il sole, mai si era spinto fuori lo sguardo sullo srotolarsi frettoloso, o annoiato o sfacciato, della vita. Solo nella casa di montagna non sentii quest’urgenza: le finestre oltretutto non avrebbero avuto bisogno, erano sospese su uno scosceso di almeno otto metri. Partivo per la città e lasciavo la porta di ingresso aperta: altra vita, altro stile (e in undici anni mai una violazione). Adattarsi senza ideologie alle persone, ai luoghi e alle fabbriche, per vivere al meglio, è il segreto per conoscere come abitare la fede: senza pregiudizi e senza arroccamenti, senza veti preconcetti e senza ingenuità prive di innocenza. A volte occorre ritirarsi: apre più del contrario; e il disperdersi è indispensabile all’evangelo, ed è dunque immancabile: l’imprevedibile fa ritrovare il profondo di sé.]

Per questo è seducente avere il senso di una fabbrica mai finita, di un cantiere sempre in movimento (come mi ha elettrizzato, ambedue le volte, camminare dentro la Sagrada Famiglia!). Che sia bello non vuol dire che non sia spesso stancante. Ma aiuta così bene a rimettere in moto la tiepidezza dello spirito, e a disincagliare dalla pigrizia! Per evangelizzare: ho sempre inteso che una chiesa non è soltanto uno spazio per chi entra, ma anche uno spazio per chi si muove attorno ad essa. Poco credente, o per nulla che sia. Perché la Pasqua che vi raccontiamo – attorno al fuoco del sagrato o nel lustro del cero e dell’acqua nuova – la vogliamo trasportata nel quotidiano. A partire da questo nostro Tempio che, dedicato alla pace, mai come oggi è segno di ciò che si è sperato, e che ancora e penosamente attende di essere edificato.