Chissà se questa pioggia di marzo avvolgerà anche i prossimi giorni della Pasqua: gocciole che faticano a posarsi sui tetti e sulle strade, e sul primo fogliame che pure aspetta di essere mondato dalle ceneri dell’inquinamento. È stagione che mi ricorda certi tardi pomeriggi della settimana santa: quando, in una cattedrale deserta e fredda e buia – solo qualche suora giù nei banchi – centinaia di giovani seminaristi, in coro con il Vescovo, officiavano l’ufficio delle tenebre
attorno a un candelabro triangolare: i Salmi non finivano in gloria, ma nello spegnimento di una candela. Ad una ad una: e si entrava sempre più nella notte. Ore penetranti, riti densi: e calibravano la vita. Nel liber usualis – un tomo di canti liturgici gregoriani – mi segnava le pagine una immagine del Crocifisso: ogni anno una differente, e segnava i miei passaggi, le mie corse e le mie fermate.
Ci sono tante crocifissioni nell’arte: ma tutte diversamente drammatiche. Da ieraticità bizantine a contorsioni moderne, dicono il dramma di un uomo e di una storia. E soprattutto rimandano o all’animo distaccato di un pittore che la fissa in un passato antiquato, o alla passione affannata di chi ricalca uno strazio presente, per le tante crocifissioni che rendono oggi a molti inspiegabile la consuetudine di questo pianeta. Ritorna ancor più feroce la bufera in Palestina – semmai si possa attendersi una spietatezza maggiore di quella a cui si sta assistendo da decenni – attorno al calvario del Cristo figlio di Dio; e continua in più di sessanta nazioni della terra il flagello della guerra. Muoiono ogni giorno migliaia di persone per fame; e altre migliaia si preparano ogni giorno una morte per una insoddisfatta sazietà. Nel terrorismo che alimenta le paure, neppure la minima legge del taglione è ormai più rispettata; e le ipocrite ma cavalleresche leggi della guerra – uno contro uno, dieci contro dieci – sono retaggio dei libri di storia: ora le distruzioni invadono le piazze e le metropolitane, e lutti e sgomento squassano le case e gli affetti, ora si rendono orfani i padri dei loro figli piccoli. Mai come in questo tempo si rende comprensibile l’avvertimento evangelico che la fine sarà accompagnata dalla falce che divide nella stessa casa: contro gli illuministici pensieri di un’umanità avviata verso la pienezza già su questa terra; e contro le illusioni fomentate da ottimismi anche ecclesiastici. Altro che secolo e millennio nuovi! Giorni di furore, di vendette che chiamano vendette, di oscuri burattinai del male. Furbizie. Tante furbizie. A nasconderci ancora una volta nelle pieghe di chi non vuol vedere luce.
Quest’anno la Pasqua dovrebbe lasciare Gesù in croce. Non perché non possano esserci mani pietose ad accoglierlo, sfilato dal legno verso la Madre che lo aspetta. Non dunque perché non ci sia pietà. Ma perché in lui, disteso tra cielo e terra, nessuno si senta estraneo di quelli che la violenza di questo tempo sta crocifiggendo. Cristo resta in Croce: come potrebbe sennò stendersi nei secoli il suo grido di compassione sull’umanità? Potrebbe aver compassione se noi non ne fossimo nella necessità? E che altro sarebbe la storia se il mondo non definisse se stesso secondo il suo essere peccatore? E poi, farlo scendere per che cosa? Per dimenticarlo nel sepolcro, come si è fatto per millenni? Ma è condizione di resurrezione, voi dite, ed è vero: se raccontate la storia di Dio. Ma la storia dell’uomo ha sottratto il Risorto alle urla di questo mondo, lo ha confinato, lui il Dio della nostra vita, negli inferi senza suono. Meglio sulla croce, visibile nella contraddizione, che nascosto sotto i lini di una Pasqua che non sa ancora pronunciarsi in bellezza per tutti. Ma proprio tutti.