Per una puntata di lavoro a Perugia, sono ritornato ad Assisi dopo molto tempo. Avevo letto dei danni del terremoto nella basilica francescana, ma non avevo capito: la sfogliazione delle superfici giottesche è più ampia di qualsiasi sgomento; e il risanamento non solo non alleggerisce il disastro, ma, a mio parere, lo sottolinea in maniera ingombrante. Una desolazione, se si ripensa a Francesco chiamato a ricostruire, nella chiesetta del piano, la Chiesa

 di Cristo. Un avvertimento? È difficile di questi tempi essere profeti: ma quando il potere nelle sue spirali ammalianti, e diversificate, prendesse anche i conventi – potere di visibilità, insomma l’antifrancescanesimo – non è forse bene che tutto venga diroccato?

Nella cripta – una catacomba – dove Francesco è sepolto, il terremoto non ha smosso sasso: almeno così mi è parso. Tutto è rimasto come prima: un poco di pulizia, ma quella giusta, a preservare il colore del tempo, nel sottolineare la distanza tra l’epoca di Francesco e la nostra; e insieme ad ammonire a come sulle cose migliori possa adagiarsi l’oblio. (Al contrario, tutta Assisi risplende, per i soldi del terremoto, in uno brillio patinato: non più il rosato della pietra scalfita, ma il biancore furioso di un ripristino che solo nella basilica di San Pietro e nel palazzo del Quirinale a Roma ha i corrispondenti di un indigeribile ripristino).

Nella cripta, dunque: come in altri momenti salutari della mia vita, a lasciarmi illuminare dal silenzio. È nata lì la predica di Francesco grande, ma di Gesù più grande. Dell’inarrivabile radicalità di Francesco nel confrontarsi con il mondo – con gli amori, con la bottega, con il padre, con la città – ma dello stupore che nasce contemplando Gesù: alla radicalità della propria croce, sa accompagnare la comprensione per chi non ce la fa. Ho pregato per tutti: non posso dire di avervi fatto passare faccia a faccia, ma certo strada per strada a risalire e discendere verso il Tempio, centro della celebrazione della nostra fede, e delle nostre fatiche di vivere. Ho pregato per la Chiesa di Bergamo, che si sta convocando nel Sinodo; una Chiesa che ha perso dei pezzi nel gran terremoto di cambio di civiltà: pietre di sostegno smosse e pezzi di bellezza crollati, riportando a una visione di essenzialità di cui si ha troppa paura. Ho pregato per questo mondo in cui ci è capitato di vivere, non peggiore di altri, e come tutti gli altri tanto amato da Dio da mandare il suo Figlio unigenito a salvarlo. E mi son detto che occorre ridare speranza, senza ipocrisie e senza ulteriori ritardi: decidersi per la Chiesa di Cristo è decidersi per il mondo. Ma decidersi per quella Chiesa che si raccoglie là dove è il deposito della fede: non nelle sovrastrutture, ma nella attenzione alle più urgenti domande di ogni uomo. Che son poi le domande di senso: una vita che non vuole la morte, anche se talvolta occorre la morte per ricordare la vita: la morte degli idoli, fossero pure le pitture fantastiche di Giotto, a cui ci si aggrappa come fossero il tutto desiderabile; la morte delle pratiche che non evangelizzano, quando rispondono solo a un come eravamo grandiosi quando eravamo tanti: folclore, dunque, e non religione, e tanto meno fede.

Questo numero del Santalucia vi racconta un’estate di viaggi. Alcuni, non tutti: e diversi, per le mete e i percorsi. Ma tutti al margine di quei mondi dove si muore in maniera oscena, dove neppure l’immagine di Caino basta a descrivere l’attuale mostruosità nel dare la morte; e dove anche un prete può perdere la fede nel silenzio assordante di Dio dai delitti degli uomini. E tuttavia, con questo numero, si racconta l’uscir fuori a cercare. Viaggiare è indispensabile all’accorgersi: per capire dove siamo e a che cosa siamo chiamati. A quali essenzialità, e a quali bellezze. E da quali quotidiani fascini e fasulle essenzialità siamo chiamati ad allontanarci, per ritornarvi colmati: come i tre che scendono dal Tabor a cui sono stati ammessi per grazia.