Dei gesti della Chiesa si è fatta talvolta l’abitudine. E di certe presenze, persino negli addetti ai lavori, se ne pensa al ribasso: a un fastidio, o a un di più. La visita non di cortesia ma di missione che il vescovo fa alle comunità cristiane, qualcuno la soffre. Non la desidera: o perché non ne sente la necessità – auspicando per altro tutte le visite possibili purché siano di cortesia o di minuto “mestiere”– o perché certe visibilità hanno appannato il ruolo apostolico

che un vescovo ha per la continuità con il Cristo. Gesù ha voluto la sua Chiesa visibilmente corporea, visibile attraverso uomini. Piedi di salvezza, mani di battezzatori, bocche di evangelizzatori. E frutti della terra, acqua e olio, e pane e vino trasformati da una intenzione affidata a un ministero. Celebrazioni che ogni comunità compie. Ma: non bastiamo dunque a noi stessi?

A volte la sana rivendicazione della salvezza tradotta nella storia individuale – originale e irripetibile – di ciascuno di noi, può diventare la tentazione di un individualismo ecclesiale: appunto, bastiamo a noi stessi. Abbiamo buoni preti, intense celebrazioni per i vivi e per i morti, predicazioni ben preparate diffuse sui tempi dell’anno, percorsi studiati per l’annuncio del Vangelo, un accostamento personale che si avvale di tradizioni e di innovazioni: che altro, se non correggere difetti che pure noi vediamo e tentiamo di sistemare?

L’apostolicità della Chiesa, che continua nei vescovi, preserva dal pericolo di una frammentazione secondo se stessi. L’errore di Lutero non fu quello di rivoltarsi contro quanto di sbagliato era nei capi e nelle membra della Chiesa del suo tempo. Errore sarebbe stata una tolleranza del malcostume: il Cristo che intreccia corde per farne fruste ben vale il rischio di quel monaco che attacca alle porte della cattedrale di Wittenberg le novantacinque contestazioni. Suo errore fu quello di perdere la speranza di un rinnovamento della predicazione evangelica all’interno della Chiesa degli apostoli: e dunque di ritirarsi in sé, e nella sua prima chiesuola di puri. Vivere di pura fede, in una chiesa invisibile, fu il suo approdo di teologo, e il suo boomerang. Nacquero da subito diverse confessioni cristiane, in una inevitabile continua frammentazione che non si è ancora fermata: con uno scadimento nel fai-da-te religioso che non solo non ha conservato la parte buona della dottrina luterana, ma neppure, in alcune frazioni, la memoria di Cristo morto e risorto.

E dunque il segno autentico della sua Pasqua: del suo dono di vita, preceduto dalla preghiera che l’evangelista Giovanni mette davanti ai giorni del distacco: “Consacrali nella verità… Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo… Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola.”. Noi che crediamo per la parola degli apostoli, arrivata a noi nella discendenza ininterrotta dello Spirito, a noi è data la gloria di una unità che si rende certa nella verità consegnata al ministero degli apostoli, e dei loro successori: la verità è che nell’albero della croce di Cristo – come canta la copertina di questo nostro giornale – s’innesta ogni primavera di questa vita, e quella eterna.

Per questo, nell’ aspettare il vescovo nel suo primario compito di confermare la fede, celebriamo questa Pasqua come una vigilia. Può essere, la pienezza, un’attesa? Lo è, per chi nella fede riconosce la gloria a cui si è avviati, per segni e per pastori.