Sede vacante. Tra un papa che non c’è più, e un papa che non c’è ancora. Questo è l’intervallo in cui scrivo questa pagina. Uno spazio sospeso, che permette di uscire dalla ressa di immagini e parole. Ne ho preso la mia parte anch’io, lo confesso. Infastidendomi degli eccessi, e ironizzando sugli acrobatismi. Gli eccessi di peana che sfigurano la vera importanza di un papa pur grande, assimilato a un divo da fissare dopo ore di coda con telefonino
di ultima generazione: alla barba del rispetto che si deve a ogni uomo da accompagnare al giudizio di Dio. E le paginate di acrobatismi per raccontare di nomi e curriculum vitae, di voci e accordi segreti, di cordate con capofila questo o quel cardinale, e di outsiders, e di tutti i contorni che sviano: alla barba dello Spirito santo di Dio che è il protagonista di una storia millenaria di Chiesa, Lui l’unico garante della novità pentecostale. Oltretutto Uno, lo Spirito di Dio, che è raggiungibile da ogni più lontano punto dell’orbe terracqueo, dove ci sta una comunità credente in preghiera; e da dove dunque gli possono salire i “voti” per un papa che confermi nella fede i discepoli del Risorto: questa essendo l’unica vera funzione di colui che uscirà dalla cappella inondata dai corpi michelangioleschi, a loro volta convergenti verso il Cristo giudice.
Come vorrei essere dentro l’avvenimento che rilevante è, senza l’accompagnamento insistito e aggressivo dei soliti noti, faziosi e banali, quelli che lasciano intendere di avere canali speciali se non proprio con il cielo, certo con chi loro considerano del cielo! Gli amici degli amici, appunto: che non mancano neppure nei paraggi di San Pietro. Quelli – tanto per far nomi – che pretendono una canonizzazione già sancita facendola discendere da parole solo piene di affetto di un celebrante; o quelli che gareggiano sui records della prima volta, dimenticando, ad esempio, che già sulla bara di Paolo Sesto il vangelo è stato sfogliato dal vento: allora lieve, vorticoso ora. In un tempo in cui la memoria vale solo quanto dura un’emozione, come vorrei essere accompagnato da chi sa mostrare l’essenziale, invisibile agli occhi! Che è poi ciò per cui si annuncia la buona notizia in ogni comunità di cristiani. Dove ci si impegna all’annuncio del vangelo, non trattenendo nessuno presso di sé, ma portando tutti verso il Salvatore. O tentando di portare: ogni comunità con i suoi mezzi, usando delle sua capacità, mettendo a frutto le risorse di uomini e di donne che si affidano al Signore. E dandosi una linea del proprio agire nella piccola o grande storia a cui è chiamata. Noi – in questi giorni di fine aprile, mentre le piante si gonfiano di foglie sotto la pioggia piena di vento – ci stiamo raccontando la nostra avventura in S. Lucia, per poterla presentare al Vescovo. Abbiamo molte cose da raccontargli: la passione di tanti, vivi e defunti, che ci hanno messo del loro in questa fatica della fede, prima di noi; ma gli diremo anche che cosa ci conduce oggi, il filo rosso sotteso a tutto, prima di ogni attività, ogni attenzione, ogni celebrazione, e dentro ciascun atto per il quale tentiamo la fedeltà dei discepoli: determinarsi per Cristo, mettendosi insieme. Non più ciascuno per sé davanti al Signore; e non più volontarismi del momento, generosi ma incostanti. Ma persone che si decidono per Lui, nel servizio condiviso del vangelo. Determinazione e compagnia. È una parrocchia così quella che stiamo inseguendo. E l’inseguimento ci insegna e la pazienza dei fallimenti e la gioia di chi ci sta.
Non è forse la stessa passione per Cristo – che è passione per l’umanità – che deve percorrere allo stesso modo tutte le chiese?: l’universale presieduta dal papa, e le particolari, che nei vescovi trovano il proprio discernimento?