Sono stato qualche giorno a Roma. E tra un impegno e l’altro della predicazione al popolo di una grossa borgata romana, mi sono preso un’abbondante mezza giornata per camminare attraverso una città che amo. Mi sono avvicinato al centro su un trenino da far-west che percorre tutta la via Casilina fino alla stazione Termini. Un avvicinamento rigidamente in piedi, schiacciato tra figure ed odori multietnici. Qualche sguardo tra gli interstizi delle molte teste per accorgersi dei multistrati dei quartieri attraversati: il serpentone dell’acquedotto
alessandrino accompagna casupole misere framezzate a condomini pretenziosi. Un blocco del traffico, dovuto all’ennesima manifestazione del contado sceso nella Capitale stavolta a protestare per la mucca pazza, ci fa sbarcare tutti a Porta Maggiore. E incomincio a camminare: attraverso l’Esquilino colorato di mercati, le vie adiacenti che hanno come quinte negozi tutti retti da cinesi, entro in S.Maria Maggiore a gustare la rigorosa trabeazione che dirige sguardo e corpo verso l’altare, esco sotto una pioggia che non mi impedisce di continuare sotte le grondaie verso stazione Termini, che ritrovo piacevolmente trasformata in uno spazio che ho ammirato solo negli aereoporti delle metropoli europee, con vaste librerie e sale d’aspetto del tutto accoglienti. Ricosteggiando la Basilica di S. Maria, vado verso il Colosseo, risalgo il Foro Romano, scalo il Campidoglio, ne discendo verso piazza Venezia, glissando l’Altare della patria che resta orrido. Mi dirigo al Pantheon, e passando entro nella Chiesa del Gesù. Nei pressi del Senato trovo alcune straducole con una serie di vetrine da boutique ecclesiastica: sono i tempi delle nomine cardinalizie, e sfoggiano le vesti previste, ma con una ricercatezza degli spazi interni che mi fa accelerare il passo, e l’uscita da pensieri cattivi. Arrivo a Palazzo Giustiniani che è l’una del pomeriggio: vedo la mostra impagabile di Caravaggio e di tutti gli altri Grandi che i mecenati di quel tempo (non è più tempo?) hanno saputo raccogliere. Esco e mangio qualcosa, tanto per riparare a una evidente assenza di zuccheri. Le gambe sono ancora buone, nonostante l’imminente vigilia di un compleanno (che, mai come quest’anno, qualche collaboratore sta sottolineando: che ci siano evidenti segni di decadenza?). Quello che ho velocemente immagazzinato fin’ora mi dà ali ai piedi: una città, e la pioggia che continua a scendere sembra sottolinearlo ancor più, ripensata senza alcun tradimento. Mi riavvio: attraverso il Tevere – ed è giallo, e reintendo l’oro con cui lo descrivevano i testi del liceo – e sono a Castel Sant’Angelo, ridefinito da un nuovo parco; prendo via della Conciliazione e, poiché è stata pomposamente pensata per vedere dal fondo ciò che si sarebbe invece dovuto impattare di lato, subito guardo in giù. Ora, nessuno di voi è tenuto a ricordare quanto ho scritto qualche tempo fa sulla necessità dei restauri, e proprio in riferimento a San Pietro. Ma quanto vedo mi fa ricredere: un fondale scenico da opera lirica, inconsistente, molle. Sparita la compattezza che era il segno di una Chiesa che, pur nella diversità degli elementi – timpani, colonne, sfondati, loggie, vetrate e cancellate – si è stratificata nell’unità che i secoli hanno cromatizzato in un colore suo proprio.
La Chiesa non ha più la sua icona in San Pietro: ne dovrà trovare un’altra. Questo è il primo impulso: e faccio dietro-front al limite della piazza. Prima un bus, poi il tramwai, mi riportano di corsa a predicare la speranza.