Sono stato qualche giorno a Roma. E tra un impegno e l’altro della predicazione al popolo di una grossa borgata romana, mi sono preso un’abbondante mezza giornata per camminare attraverso una città che amo. Mi sono avvicinato al centro su un trenino da far-west che percorre tutta la via Casilina fino alla stazione Termini. Un avvicinamento rigidamente in piedi, schiacciato tra figure ed odori multietnici. Qualche sguardo tra gli interstizi delle molte teste per accorgersi dei multistrati dei quartieri attraversati: il serpentone dell’acquedotto
alessandrino accompagna casupole misere framezzate a condomini pretenziosi. Un blocco del traffico, dovuto all’ennesima manifestazione del contado sceso nella Capitale stavolta a protestare per la mucca pazza, ci fa sbarcare tutti a Porta Maggiore. E incomincio a camminare: attraverso l’Esquilino colorato di mercati, le vie adiacenti che hanno come quinte negozi tutti retti da cinesi, entro in S.Maria Maggiore a gustare la rigorosa trabeazione che dirige sguardo e corpo verso l’altare, esco sotto una pioggia che non mi impedisce di continuare sotte le grondaie verso stazione Termini, che ritrovo piacevolmente trasformata in uno spazio che ho ammirato solo negli aereoporti delle metropoli europee, con vaste librerie e sale d’aspetto del tutto accoglienti. Ricosteggiando
La Chiesa non ha più la sua icona in San Pietro: ne dovrà trovare un’altra. Questo è il primo impulso: e faccio dietro-front al limite della piazza. Prima un bus, poi il tramwai, mi riportano di corsa a predicare la speranza.