Con la nuova stagione mondiale, sembra definitivamente tramontato il buonismo, quel movimento che per un quinquennio ha vasteggiato: o per essere accreditato o per essere contrastato.

Sono stato tra questi ultimi: non ho mai letto il Vangelo come un manuale di fioretti morali, semmai di bellezza. E non ho mai conosciuto un Gesù che fosse principe del non giudizio: da Figlio di Dio ci ha insegnato a non condannare,

 ma insieme ci ha mostrato il giudizio sul mondo che solo a Lui appartiene, ma dentro cui ciascuno è chiamato a muoversi.

È finito il buonismo, anche perché sembra che nella sua stoltezza di tutto concedere a tutti, possa appartenere solo ad alcuni vincitori, e solo per il tempo che restano tali: sull’opposta barricata ci si sente subito diversi. È finito il buonismo – anche nelle sue intenzioni e nei suoi gesti migliori – per non averli saputi indicare come una promessa più che come una realtà: il cuore dell’uomo resta per sempre da convertire.

Ma serve, in tempi come questi, essere buoni e veri.

Serve non lasciarci traviare dalle regole del mondo. Che includono la guerra: talvolta necessaria – come forse nella situazione presente – ma mai ottusa. Mai sillogizzata: la guerra è il segno più alto del limite dell’uomo, e come tale va vissuta. O è breve, o vi si rinuncia. O è contenibile, o non la si incomincia. Non è mai una soluzione: può stare come una minaccia, ma per trovare soluzioni più certe. Si può ingaggiare una battaglia – succede a ciascuno con chi ha accanto, anche per scelta d’amore – ma non si può vivere in guerra più di un giorno, poiché ci è stato detto: “Non tramonti il sole sulla tua ira”.

Serve, in tempi come questi, non lasciarci traviare da un galateo cristiano ipocrita. Che scambia il porgere l’altra guancia con la debolezza di chi non esige giustizia dall’altro: “Perché mi percuoti? Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».

Ci si è rassicurati l’un l’altro dicendo che non è guerra di religione, ed è vero ma fino a un certo punto. Non mi pare infatti corretto non tener conto di ciò che l’altro dice, e l’altro dice che sta facendo una guerra in nome del suo Dio: che per noi è una bestemmia, ma questa cosa a lui non cambia la motivazione. O saremo così ipocriti da dire che non è guerra di religione perché non tutti i suoi correligionari sono d’accordo?

Si è detto, con altissima ragione, che i cristiani non pretendono il diritto alla reciprocità, ed è vero, perché sono stati investiti di una novità rispetto alle regole del mondo. Ma che si vada avanti imperterriti, anche in queste settimane che potrebbero chiedere un po’ di cautela, a costruire una moschea appena fuori l’ingresso della chiesa della natività a Betlemme, è solo maleducazione, o è una sfida di intolleranza?

E che altro è – in certe scuole – se non ottusa abdicazione dalle proprie radici, non chiamare più Natale il Natale, e non cantare più gli inni natalizi, o non esporre più il crocifisso, o rimproverare un bambino che si fa il segno della croce? È come per la laicità: c’è chi la intende come un’assenza di qualcosa, e chi invece come la compresenza di tutto. Non dirgli chi siamo, da quale storia veniamo, e in Chi crediamo, questa è mancanza di sinderesi.

Noi non faremo guerre di religione per il crocifisso nelle scuole: ma non mi pare che lo si debba togliere oggi. Oggi no: per rispetto a noi stessi, e a chi è differente da noi.