Ciascuno ha negli occhi la sua estate. Che non è una stagione – questa è comune a tutti nel caldo soffocante e nella siccità senza tregua – ma la personale maniera di mettere un tempo tra un tempo e l’altro. La mia è stata di sei più sei giorni. I primi in privatezza, i secondi in comitiva: gli uni e gli altri a complementarsi in una pausa indispensabile. Mi auguro che in tanti della comunità se la siano potuti permettere o con un viaggio altrove, o creandosi un altrove

dentro la propria casa con ritmi capovolti rispetto al girare quotidiano.

Perché (e ritorna la massima di Orazio che è mio stemma da decenni, e che dunque può essere per alcuni di voi un tormentone: ma per me è ogni volta nuovo dirlo e dirmelo) perché non è l’andare verso cieli diversi – comunque fuori, l’uscire per uscire – che ti cambia l’anima; ma il trovare il tempo che separa, e lo spazio che unisce la tua anima alla meta verso cui sei diretto. Ecco perché un’estate può essere una sei più sei giorni, ma non solo. Estate è poter stare con meno frenesia di quel dopo che è sempre lì ad aspettare, a sollecitarti e a distrarti dal tuo presente che è l’unico tempo che ti è concesso: stare sia nella piacevolezza degli amici, sia nell’ascolto dei problemi del tuo prossimo, o al capezzale di chi sta uscendo dal mondo. Se c’è un andare, è per stare. Un viaggio del tutto calcolato, che non prevedesse digressioni o sconfinamenti, sarebbe un lavoro: molti tornano stanchi da una vacanza, anche se non hanno camminato per niente, e nulla rischiato. E poiché il viaggio è metafora della vita (ha scritto san Giovanni della Croce che sei vuoi arrivare in un posto che non conosci, devi prendere una strada che non sai) esso insegna che la stanchezza non è mai proporzionale a una fatica: la stanchezza è cosa del cuore e della mente, non dei muscoli. Affaticati, ma non stanchi. Ecco perché l’estate è il tempo di ogni stagione: dell’inverno e della primavera; e di quest’autunno che stamane si è presentato con una veste cenerina. Che non è il suo colore: ma oggi sta a separare nettamente da quella cappa monotona e lattescente della pianura padana, solo qualche volta trasfiguratasi nello splendore dei cieli pieni di vento, e di cirri innalzati, che sembrano invece generosamente assegnati alle pianure francesi e spagnole.

Ciascuno ha negli occhi il suo oggi. È ripresa del lavoro e delle quotidiane relazioni, con il carico di preoccupazioni e di speranze. Se penso al mio, così come mi è stato egregiamente riassunto in drammatica sintesi da un quotidiano nazionale – Essere parroci, oggi, è soltanto un fatto di cuore e di vocazione, chiede professionalità, conoscenze specifiche, scienza della comunicazione, prudenza organizzativa. Sono pastori di anime, ma prima ancora buoni psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, allenatori sportivi, esperti in flussi immigratori, consulenti matrimoniali, disinteressanti impresari di mense, professori e rettori di piccoli atenei della terza età, custodi dei beni culturali delle loro chiese – lo sento troppo. Vero, e bello, ma troppo. Il grembo della fede a cui è chiamata la parrocchia oggi si dilata enormemente nei compiti delle comunità che ancora non si sono date presenze differenziate rispetto ai presbiteri. Se vogliamo un’estate anche per loro, nel succedersi delle stagioni, serve che molti tra noi si offrano ad occupare un posto. E professionalmente: della professione della fede cristiana.