Un papa infermo è accettabile. Ma muto? Cambierebbe qualcosa della Chiesa? I venticinque anni di pontificato hanno smosso non solo i credenti, ma anche chi si dice lontano da quella sponda del Tevere. Secondo proprie angolazioni, e dunque con inevitabili riduzioni, si sono scritti mari di articoli ammirati, con qualche rarissima eccezione per altro intraecclesiale: come doveva essere. Non è stato un uomo insignificante. Nel suo opporsi e nel suo proporsi,

ha certamente segnato la vita del mondo. Nell’andare oltre ogni confine della terra, ha incontrato persone, e piantato picchetti, che alcuni ancora chiamano steccati. Nell’imporre la sua visione della vita, ha vistosamente separato, nella cura dell’uomo per l’uomo, chi la intende immersa nell’immediatezza della guarigione, e chi la inscrive nella totalità della salvezza. Lui, così terrestramente corporeo – il turbamento di una piscina a Castelgandolfo, lo sconcerto per le scappate sulle innevate del Gran Sasso, lo scalpore delle vacanze in comuni case di montagna – è lo stesso immoto credente che si sprofonda nella preghiera che lo disloca dal clamore circostante: attento all’uomo, ma non distratto nel suo andare. Lui così giocoso negli incontri con le folle, e così fisicamente pieno d’ira nella platea rumoreggiante del Nicaragua: il dito piantato sulla testa di un povero cristo di prete inginocchiato mi è rimasto per molto tempo fissato in sgradevole memoria.

Un uomo del Medioevo più retrivo, come qualcuno gli rimprovera? O piuttosto l’uomo che ciascuno di noi è, con i suoi bisogni e le sue paure, e con le sue visioni culturalmente connotate del mondo? Ma insieme, l’uomo che lui è stato: fedele, coraggioso, orante; e spalancato al Cristo che parla e che danza in modi diversi nei suoi discepoli. E indomito. Non soggiogato da attentati e malattie, non fiaccato nella sua volontà di esserci fino alla fine. Ma come esserci? È giusto che si mostri, o che sia mostrato, in questa maniera? Accettare la debolezza è un fatto altamente cristiano; ma esporla? La decadenza nell’intimità della casa ha sempre il rispetto della dignità; le telecamere no, implacabili nella loro freddezza che scandaglia il dettaglio della fragilità. I prelati suoi familiari raccontano ai cronisti che il papa non accetterebbe mai di diminuire i suoi impegni, e dunque le sue pubbliche apparizioni, e dunque la sua incalzante spossatezza. Anche i familiari del papa avranno avuto qualche vecchio nonno (lo stesso vecchio nonno che saremo anche noi, se Dio vuole) restio ad accettare la non corrispondenza tra gioventù del cuore e limitazione delle membra; quel nonno, a cui ricordiamo più di una volta che perfino l’apostolo Pietro è stato avvertito che da vecchio sarebbe stato condotto da altri. C’è una pietas umana da salvare, perché il rispetto diventi carità.

Si serve di più l’uomo, che Giovanni Paolo è, ponendosi questi interrogativi, o nascondendoli dietro dolorismi ascetici, e nelle sublimazioni di una paternità che non si dimetterebbe mai? Se è così, che ne è allora della soglia invalicabile per vescovi pure ancora vegeti? Non si serve di più la Chiesa, chiedendo al papa che accetti i suoi giorni: chiedendo preghiere, come fa; ma anche cercando nella propria forza spirituale quel molto di più, anche di inedito nel servizio petrino? Giovanni Paolo è un papa magno: e la sua grandezza potrebbe manifestarsi proprio nel non volere che il papa diventi invisibile. Per non permettere che della sua invisibilità se ne serva il tentatore dell’umanità; e se ne appropri chi non ne ha il dono dal santo Spirito.