Una delle tante espressioni affettuose che hanno accompagnato lo scavalco di questi giorni mi ammonisce così: come tutti quelli che hanno passato gli anta, preferiresti non contarli, ma i compleanni vanno sempre festeggiati; la vita è dura e poter dire di aver passato un altro anno, e nella compagnia di Dio, è una gran bella cosa; e poi, come recita un proverbio inglese, non contare le rughe ma i sorrisi, non contare gli anni ma gli amici. Un compleanno

preceduto da una qualche autoironia che si è esibita in un apparente sgomento: giusto scotto, a chi, con mesi di anticipo, suonava la data caricandola di motteggi irridenti la mia carica vitale (un recente check-up ha pronosticato che morirò sano…).

Non è che non voglia contare gli anta: è che non ho mai contato neppure i venticinque, come ben sanno quelli di casa. Da sempre, porto in me un’insofferenza da compleanno: è stata senza eccezione una giornata mai marcata; come gli anniversari di messa; come ogni tempo che altri festeggia nel suo passare. Ho una mia filosofia: conto sul presente. Per questo, grazie a Dio, la mia ira e la mia superbia nascono e muoiono quasi sempre nello stesso giorno. E per questo, forse, la mia impazienza si spiega con il timore della brevità della luce per ogni tramonto incombente. Detta così, è chiaro che finisco per sottolineare non gli anni ma i giorni. E così si spiega l’enorme somma che la data di quest’anno traduce in un piccolo sgomento, questo sì: che è poi – per chi non sa e non vuole far di conto sul bene e sul male di una vita, né sulla propria né sull’altrui – la sensazione di un tempo insufficiente. Il che non è assenza di riconoscenza per ciò che è stato: è rifiuto della fine. Si traducesse in un rifiuto del male che ha fatto entrare nel mondo la morte, sarei santo. E invece resto una creatura che chiede conto al suo Dio di questa assenza di eternità già qui.

Questione di bagaglio genetico: il deposito di avi sconosciuti. Questione di storia: la mia, nella sua propria unicità. Questione di carattere: composito, tra flessibilità e resistenza. Ma, cristiano e prete, anche questione di fede: non snocciolo mai formule, né a me né agli altri. Ragiono: e ragionando ci si ritrova in boschi grondanti di pioggia, senza traccia di uscita talvolta; ma più spesso con una lama di luce a indicare l’est dell’anima. E ricordo: agli anni miei non negaro i fati la giovinezza, come invece è successo al Leopardi. Non mi sono stati negati i suoni e i bagliori che informano una vita: un fiume che scorre silenzioso tra due possenti ripe; la sirena dello stabilimento che si stende rauca sul vuoto di pomeriggi assolati; la suadente voce di contralto della donna che intona i canti nelle feste; le sere di maggio con il cuore profumato da occhi d’amore; l’areazione dei fienili, negli antichi cortili, fatti di mattoni a disegnare croci sul vuoto: l’intelligenza del contadino che chiama la protezione divina sul raccolto.

Per dire solo della primavera, e non dello snodarsi appagante dell’estate da cui esco. Non mi è stato certo sottratto l’accorrere del dolore: la lotta appartiene alla gioventù, e la sofferenza la tonifica. Semmai, è questo portarmela dentro intatta, questa giovinezza non finita, con la sua inalterata vocazione alla pienezza, che fa problema all’addizione che mi è presentata. Ma senza patemi eccessivi: nell’algebra che vedo, se mi si costringe a un bilancio, c’è un’inequivocabile gratifica. Per grazia di Dio, e di tanti uomini e donne.

Ringrazio e stacco: se proprio ci tenete agli auguri, chiedete la benedizione del Signore su un autunno lieve.