Alle cinque della sera – quando in Spagna il torero scende nell’arena, e in Inghilterra ci si inoltra nei salotti per il rito del thè – i boulevards parigini si riempivano di avventori in cerca di un liquore aromatico al profumo di anice, ma che anice non era. Era assenzio, di cui gli artisti maledetti, tutti riassumibili nei più noti Rimbaud e Verlaine, si illuminavano la mente: così si dicevano l’un l’altro. E così, tra le cinque e le sette della sera, a Parigi si consumava

 l’heure verte, l’ora verde del tardo pomeriggio. Verde certo per il colore della bevanda; ma colorando di verde le emozioni, e l’ora calante: l’ultima ripresa prima del morire del giorno. Il verde è nel nostro linguaggio figurato acerbo e giovane, ma insieme rigoglioso e zeppo di speranza, intenso e forte: verde è la primavera e una città non inquinata. Come ogni altro, è colore che si descrive prendendo il nome di ciò che esso riveste per bellezza e gusto: il verde pavone, o smeraldo; il verde oliva, o mela, o salvia. Ma verde anche è il rodersi di rabbia e invidia, e verde è la tirchieria e l’avidità. In quelle sere incipienti, di quale sfumatura si colorasse quella ricerca e quella bevuta – e i discorsi che ne discendevano, e gli sguardi buttati su una Senna di un verde suo proprio – sarebbe facile sapere: se conoscessimo di ciascuno i desideri e le attese. E le paure. Che sono poi le stesse nostre: anche senza il rito scomparso quasi un secolo fa, con la messa al bando dell’assenzio, divenuto ormai droga, nella smisuratezza dell’uso che se ne faceva: per fantasticare o per dimenticare.

O semplicemente per ricordare. Frammenti di vita che risalgono dalla profondità di un passato, a dirsi con fatica: quasi mai, accanto alla nitida figura del sambuco, s’accompagna il profumo che in quel momento per sempre ha suscitato in te un amore. E non trovi più, per quanto tenti, l’odore di ferro e di nebbia della Milano che, percorrendola appena tredicenne, si è installata come la tua città ideale. E viceversa scopri, da adulto, il sapore pieno di cose che hai attraversato, senza accorgerti di come si depositavano in te. Alla messa prima dell’alba, l’introibo ad altare Dei cui, sbadigliando, inginocchiato sui freddi gradini accanto al vecchio parroco rispondevo: ad Deum qui laetificat juventutem meam, la mia giovinezza per la sua. Quell’introdursi che avrebbe perso molta parte del suo segno perdendo quel dialogo, nei riti modificati della messa: e che tuttavia si è conficcato all’inizio di una vocazione, e di una storia, la mia.

È più tempo, questo, di fiore di loto che non di assenzio? Più di oblio che non di rievocazione? Certo l’assenzio è veleno: occorre prenderne a giuste dosi. Nell’heure verte che a ciascuno si dà, occorre stimolare la memoria di ciò da cui si viene, ancorché non abbia la stessa tenerezza e forza: per prepararsi a ciò che sta davanti, quantunque sconosciuto. Quell’ora è una grazia: racchiude il prima e il dopo, e solo così compone un presente accettabile. È ora che appartiene a ogni età: ogni giorno infatti ripresenta il nascere e il morire disteso su una vita. Purché sia un’ora vissuta dentro un scenario gradevole, e un tempo favorevole: ciascuno ha il suo angolo del Tempio, o i suoi boulevards parigini; ciascuno abbia le sue cinque della sera.