Solo i bambini osano chiedere dei difetti che ti porti addosso. Si dice che lo facciano per l’impudenza della loro innocenza: il che non dovrebbe escludere anche un compiacimento sadico, cosa – si ricordi – che si stabilisce in noi prima che ne abbiamo coscienza, e prima che il pudore diventi la virtù del rispetto. Lo puoi notare dalle ripetute volte su cui tornano a volere spiegazione di ciò che hai già spiegato. Solo i nonni li difendono, salvo dimetterli

 anch’essi dalle proprie affettuosità quando si vedono aggrediti da una indiscrezione mal sopportata: e cioè quando si sentono specchiare ripetutamente le proprie rughe o gli acciacchi.

La piccola cicatrice che ho in fronte è stata osservata in età successive dai quattro nipoti che ho preso in braccio. E per fortuna che era un trofeo, se non proprio onorevole, certamente degno di una memoria familiare: a otto anni, sotto un pergolato di vite a lanciare un sasso per prendere l’uva nell’orto del curato, con la pietra che tornava puntuale come un boomerang – in una pioggia di chicchi inutilizzabili – sul lanciatore privo ancora della nozione di gravità. Un racconto ripetuto decine di volte a ciascuno di loro, con tutti i corollari del sangue che ti scopri addosso dopo un po’ che stai scappando, e i pianti dal medico per suturare la ferita, e le piccole bugie alla nonna per nascondere il mal fatto: un avvenimento diventato una favola, come le favole che occorre ripetere allo stesso modo, con gli stessi particolari, fino a che nasce il tempo in cui non gli servono più. E allora chiedono variazioni, che sono poi il segno che stanno finalmente entrando nella complessità della vita, e ti dicono – non chiedendo più – che possono fare a meno di te. Sbagliando. Perché se c’è un tempo inevitabile in cui chiedere memorie, è proprio quello in cui prevale il risucchio verso il futuro.

Mi stanno venendo questi pensieri di prima mattina, con una nebbiolina tediosa non ancora attraversata dal sole come è già sul colle, tra un primo urlare di sirene dirette all’ospedale. Dolly, la pecora del delirio, ha smesso di vivere ancor prima di ogni più pessimistica previsione. Meglio così, e non per la pecora, poveretta. Sarà che nei suggerimenti dei dieci libri per la lettura delle vacanze – volumi che so acquistati in quantità dagli studenti dell’Esperia di ormai una vita fa – era compreso I ragazzi venuti dal Brasile: il ricordo di una tragedia del mondo, e il pericolo di una sua perpetuazione. Un pericolo prevedibile. Un pericolo oggi immanente per l’uomo: biologicamente, la clonazione per bambini nati con una vita breve, già disperatamente vecchia, fatti nascere per deliri di onnipotenza altrui. Ma forma di clonazione è anche il fratellino fatto nascere apposta, da genitori sicuramente non avvertiti, per curare il primogenito malato. Ho visto la rassegnata tristezza del bambino, che si espone in una intervista dove senza criterio lo si vuol far passare per eroe. Ma i suoi occhi affliggenti sono lì a interrogare: quel non sentirsi nessuno per sé, un fornitore di ricambi… chi sono? da chi sono amato e per che cosa? La carità cristiana non abita lì, se per lenire un dolore se ne creano altri. Clonazione già vecchia è poi la notizia di questi giorni: saranno abbreviati a un anno gli intervalli del divorzio. Nei tempi velocissimi che viviamo, la devastazione nella vita di un figlio, soprattutto se piccolo, non è controbilanciata più da una ragionevole pausa di assorbimento per un padre o una madre che si pretende intercambiabile con un altro, un pezzo sostituibile.

La guerra ha molti nomi, e diverse armi mortali. Nei rumori di guerra, lasciarsi interrogare è una fatica da sollecitare, opportunamente e importunamente. Sulla propria vita, anzitutto. Per prepararsi con i più giovani che si prepara, venendo da un abbraccio che ricompone le favole con la vita. Per questo la pace non è un’emozione, ma una costruzione: come dicono le beatitudini evangeliche.