Pensavo di non riuscire più a battere il mio personale record di permanenza come parroco in una comunità, dopo gli undici anni in Valserina. Anche perché il pur bel poggio di Frerola era corretto dallo scendere quasi quotidianamente per la scuola, o per altri impegni esterni alla parrocchia. Impegni che effettivamente salvano il parroco da un improprio e talvolta pericoloso involtolamento nelle piccole braccia di un paesino di montagna. E poi perché è diventata convinzione comune
che il servizio pastorale non dovrebbe superare certe lunghezze, per svariati motivi, alcuni buoni, altri un po’ meno. Fatene un po’ voi: il prete si dissecca, la gente si stufa. Ma non tutti hanno le stesse capacità, gli stessi equilibri. In città trovate parroci di lungo corso, fino ai vent’anni di incarico: può essere che per qualcuno si debba dire che son troppi e per altri non sono ancora tutti quelli che possono proficuamente sostenere. E si giudica in relazione alla comunità (ancora – o non più – ravvivata) e in relazione al prete (stanco, o ancora motivato: per quel servizio in quel posto, s’intende). Ma chi giudica? Al prete riesce difficile staccarsi da sé per vedersi oggettivamente nella situazione che vive: può stare attento a ciò che gli si dice, e a quello che non gli si dice, ma se non si è allenato alle virtù dell’umiltà e del distacco, oltre a quelle più umane del mandare qualche volta a quel paese i nati per rompere, certamente finisce per rinchiudersi o nella torre d’avorio di chi si sente incompreso o nella concimaia di chi si butta a terra. E nella comunità, quale voce ha ragione? C’era una volta nei codici – e resti ormai confinato nel passato – l’odium plebis come valido motivo per allontanare un parroco da un posto: indicava una repulsione generalizzata al punto da non potersi più negare. Niente a che vedere con quello che invece più normalmente succede a tanti mortali che hanno conoscenze molteplici, al cui giudizio – affettuoso e partecipe, o freddo e scostante – viene sottoposta la loro linea. Quando ragazzotto tornavo dal Seminario al mio paese, al primo giro raccoglievo trenta giudizi contrastanti: per alcuni era diventato magro, per altri mi ero fatto bello, e altri non si ricordavano più com’ero l’ultima volta, ma insomma… A seconda di chi mi guardava, cambiavo aspetto: uno, nessuno, centomila per i loro occhi. Più largo o più lungo, o tutte e due le cose insieme. Se questo avviene per la linea fisica, vi immaginate che cosa sarà della linea pastorale? Se un parroco, immediatamente dopo una celebrazione, raccoglie pareri così contrastanti, da facilitare obbligatoriamente certe sue eventuali propensioni alla schizofrenia – da un grazie a un cheschifo in successione mitragliante – vi immaginate che coacervo di mali di testa e di fegato e di piedi che rosicano deve subire, di fronte a cose meno importanti, o più aleatorie, come, putacaso, le soluzioni che si prendono nella riqualificazione di un tempio? A chi piace caldo e a chi freddo, chi in alto chi sotto. È la vecchia storia dell’asino narrata sui muri dei paesi dell’Adda, che prima o poi vi farò conoscere.
Poiché ho battuto il record, è il dodicesimo anno della mia permanenza in Santa Lucia, mi pare bello raccontarvi i pensieri che mi colgono. Anche perché sono per natura propenso ad essere un ottimistico realista, uno che non incolpa solo gli occhi degli altri per una descrizione multiforme. Tu sei sempre lo stesso, ma non sempre ti rappresenti allo stesso modo. Chi senti simpatico e chi solo empatico (non voglio credere a schematizzate antipatie) ti fa mutare nell’approccio, e dunque cambia il giudizio. Gli uni e gli altri rivelano le differenze dell’io. Gli uni e gli altri servono per tenerti allertato sulla tua vita e sulle scelte che ne discendono. Non so se l’ho sempre tenuto presente. Certo ho incontrato qui, in questo pezzo del mio incarico presbiterale, tanta grazia. Tanti esempi, tanti stimoli, tanta ricchezza. Ho incontrato, e mi sono cambiato. Ho messo del mio, e ho lasciato spazio. Ho imparato ancora di più a predicare il Signore nella Comunità, predicandolo innanzi tutto a me stesso. Mi ritrovo ultracinquantenne con tanti vizi, e poche virtù. Ma non mi lamento più di tanto: è la mia povertà che chiede salvezza. Ho una fede nel Signore che si è alimentata della vostra presenza, e una visione delle cose che si è purificata al vostro fuoco. Ho debiti di riconoscenza nei confronti di tutti voi, preti e laici, che mi lasciano dormire di notte: so che li paga un Altro.