La guerra contro l’Iraq è scoppiata? O è stata rimandata di qualche ora, di qualche giorno? È già finita? O finalmente si è annunciato che non si farà, che nessuno ha davvero pensato di fare una cosa simile, che era tutta una tattica per convincere i dittatori della terra, satrapi senza legge e senza coscienza, a togliersi di mezzo da soli, per liberare i loro popoli dalla schiavitù? La pace ha meritato gli inutili costi – inutili per la guerra utili per la pace – di trecentomila
uomini trasportati alle frontiere, di centinaia di navi e aerei minacciosi dislocati sul respiro di una nazione, di migliaia di missili puntati al cuore di uomini e donne che tra il Tigri e l’Eufrate abitano l’antico grembo dell’umanità? La terra di Abramo, padre di tutte le genti, è immersa nella caligine di morte, e nel silenzio esterrefatto che segue l’osceno dispiegarsi del diluvio di fuoco? O sotto il sole che picchia a mezzogiorno, dalle bancarelle senza ricchezza, e tuttavia colorate, sale il vociare di sempre, scomposto e allegro, di un popolo graziato? Le preghiere delle sentinelle si sono intrecciate alle strategie dei potenti? O l’impudenza ha negato l’ascolto dei saggi? Chi sta vincendo, chi sta perdendo?
Mentre scrivo queste righe, che chiudono il giornale che avete tra le mani, siamo nel mezzo delle settantadue ore di ultimatum. Quando le leggerete, sarà successo tutto, o niente. Il tutto o niente di una particella di storia dell’umanità. Senza l’odierna enfasi di giornali o televisioni, è la stessa condizione di sospesa vigilia di tutte le altre guerre che si sono succedute nei lunghi secoli che ci separano dagli Assiri-Babilonesi: entusiasmo e angoscia, arroganza e rifiuto. Una delle maniere più efficaci di cambiare il mondo, astraendo dal bene e dal male. Ad ogni dichiarazione di guerra, dai quindici ai cinquant’anni – tutta la vitalità possibile – i Persiani erano colpiti dal servizio militare, poiché fin d’allora si era capito che la base su cui si regge un sistema imperiale è l’esercito, e la sua capacità di uccidere il nemico. Senza se e ma, per usare un’espressione oggi di moda. È scritto sui libri di storia: avendo chiesto l’esenzione per il quinto dei suoi figli infilati nella guerra, un padre vide il corpo di quel figlio tagliato in due, e le due metà poste ai due lati della strada attraverso cui l’esercito doveva passare. Tempi di Dario e Serse, li ricordate?, pur celebrati per grandi gesta.
Erano i tempi in cui “una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più”. Qualcuno ha osato in questi giorni ironizzare sull’amore di mamma, che farebbe soprattutto dei ragazzi italiani merce improponibile ai massacri di guerra: una non tanto sottesa accusa di vigliaccheria. Occidentali o irachene, del nord o del sud del mondo, si può pensarle diversamente tutte le altre madri? In una civiltà dell’orrore, dove la peggiore delle eresie è l’ideologia ottimistica, si vuole almeno ascoltare, come ultima difesa, il grido che sale dal ventre benedetto di chi ha dato vita? O ci si rassegna alla fatalità di una umanità che non sa pensarsi più grande di una inesorabilità?
La guerra è scoppiata? È stata rimandata? È stata cancellata? O è già finita? Voi ora lo sapete. Io, adesso, no. A me – è martedì – resta ancora la speranza. Voi ora – è domenica – siete messi nell’evidenza. Spero che sia meglio il vostro stato del mio.