Il föhn che precipita vivace dalle Alpi scalda ancor più questo dicembre strano, e mette sulle teste questo cielo spazzato di marzo pazzerello: come era scritto nei sillabari della mia infanzia. Appunto quel manzoniano cielo di Lombardia così bello quando è bello, perché è luce, ma non solo: è movimento e tepore, e torpore della mente e sospiro di cuore. Quel cielo di primavera, insomma, che non ha alcuna parentela con il natale che piace a me: svegliarsi

con la neve alta sulla porta di casa, da spalare mentre si arrossano le mani e i pensieri si affinano – come mi è successo qualche anno fa, sulle scalinate del Tempio, di dover tracciare frettolosamente sentieri per dare strada a quelli della messaprima. Improvvisa e provvida, a chiamare insieme, e nello stesso tempo a tenere lontano: così è l’introvabile neve di natale. Il natale minuscolo, quello delle emozioni, che preparano lo stupore per il Natale di Chi ci è stato dato. Avvenimento della storia irripetibile, punto di separazione da ogni miraggio ulteriore, punto d’intimità, punto di convergenza di ogni attesa. Per questo a Natale ci si può scusare anche il peccato che lo accompagna: quando i desideri esorbitano, quando le emozioni offuscano, e la bontà si traduce in regali; ma per l’eccesso di voler racchiudere in una manciata di ore ciò che appartiene alla distesa dei giorni. Quando dunque si dice grazie, ma senza lo spessore dello stupore: lo stesso che ti costruisce dall’inizio, e dall’inizio sempre più si fonda nella vita. Stupore che prende il nome dalla fede assorbita, il nome di Gesù che è ritmo del respiro, inconscio e tuttavia irrinunciabile. Ma stupore per tutto ciò che ne discende, sulle persone e sui paesaggi, sui pensieri e sugli abbracci: quando abbiamo capito che nulla ci è dovuto, allora ci ritroviamo in mano la gratitudine. Lo stesso stupore cominciato in quella capanna – o grotta o stalla, a ciascuno il suo inizio – in Maria che abbraccia e in Giuseppe che provvede. Una beatitudine che avvolge ogni cosa, e il bue e l’asino, e chi sta per arrivare, angeli, pastori e magi; e chi arriverà, nei secoli fino a noi.

Una beatitudine durata poco, quasi icona delle ore rattrappite dentro cui costringiamo la bontà natalizia. Poco è durata l’illusione che il mutare del millennio portasse un’era nuova: voltar pagina non è come dirlo. Gli uomini sono tornati al mestiere della guerra, alla pratica dell’inganno, alla prepotenza di chi può in forza della ricchezza, o della furbizia. È l’illusione di cristiani che vogliono il mondo cambiato senza cambiare l’ordine dei fattori, perché tanto il prodotto non cambia, dicono: nella solita paura, che rimette subito dentro i propri giacigli scambiati per casa; e con la solita pigrizia che teme l’inizio. E invece l’inizio è lo stupore per un Dio che ti si accompagna, uno stupore che ti rende grato: quando tutto il mondo si sentirà più grato, allora le illusioni si muteranno in speranza; e quando ciascuno coltiverà gratitudine, allora la pace sarà una realtà. Se non per tutti, se non del tutto, ma certo nel cuore dei molti.