Che ne direste di un presepe senza Bambino? Con le casette, i ruscelli, le pecorelle e i pastori, gli angeli — tanti angeli a compensarne l’invisibilità in un cosmo di apparenze. Con il bue e l’asino, e la paglia. Anche Maria e Giuseppe. Ma Lui no. Lui è uno che ha l’ombra della croce che gli attraversa il corpo, Lui ha un mistero nello sguardo che potrebbe portare lontano, troppo lontano. Ma un presepe senza la fragilità e la storicità di quel Bambino,
a chi serve?
Ripasso qualche volta i miei vecchi scritti. Anche per la preoccupazione di non ripetermi. Si sa: di alcune cose ci si impadronisce a tal punto, e diventano così connaturali, da diventare una lingua. Ci si ripete, non perché non si abbia nulla di nuovo da dire (può capitare anche questo, ma non di questo sto parlando qui): si ribadisce, riproponendo, ciò che ormai ci definisce. E mi sono imbattuto in questa chiusa di un editoriale, scritto per un altro periodico, che ripeterei oggi allo stesso modo.
Perché anche oggi così? Perché nulla è cambiato nell’evidenza pacchiana di un’epoca che sembra non finire più: che nel natale mette tutto, ma proprio tutto — con un’infarinatura di vaga religiosità, volatile come lo zucchero a velo sul pandoro — e così non lascia posto all’Unico che dà senso al tutto. Fate un giro per il centro della Città: svestiti d’inverno, e gli stessi musi lunghi, come si fosse in primavera; brani da discoteca accanto alla capanna benefica; luminarie pirotecniche da luna park; unte esalazioni di cibo da spiaggia. Quest’epoca sguaiata non sa più scandire il tempo.
Dove sono i profumi dei mandarini che dicevano l’inverno insieme alla nebbia; o le zampogne che accendevano lo stupore dei bimbi e dei contadini con i suoni inconsueti? Con i contadini, è forse sparito anche il candore dei bimbi? Dove è il silenzio immobile del mondo in attesa, il fiato sospeso, alla meraviglia del cielo che si apre? dove il nitore di piccole luci bianche, immobili anch’esse sugli abeti fuori casa, a segnalare umilmente la strada al Redentore che vuol prendere dimora presso di noi?
Perché è finito il tempo della bellezza? Non è forse perché è finito il tempo della sobrietà? Poveri che vogliono apparire come i ricchi; e ricchi che non smettono di smarcarsi sempre di più dai poveri, con un fasto che grida vendetta al cospetto di Dio. Cristiani che mettono di tutto, ma proprio di tutto, nella loro vita, e non s’accorgono che Cristo non ha più posto dove piantare la sua tenda di nomade della salvezza.
E per non cacciare l’indice sugli altri, vi confesso che mi meraviglio di me stesso in questi giorni, di come non mi faccia più notizia il dramma di chi è in guerra, oppressi e oppressori, tragedia per gli uni e per gli altri: e questo nella mia vita, che, con la vostra, pure si nutre delle ammonizioni dei profeti. Se in questo natale confesso la mia insofferenza per i modi vita fatui in cui sono immerso, è per esserne assolto. E se vi ho indicato la virtù della sopportazione, è perché ne sento tutta la mancanza evangelica dentro di me. E perché vorrei trovare con voi posto per Lui: accanto alle mie pecorelle, sopra il mio muschio, dentro la mia capanna.
Mi mancherebbe molto, Lui. È la speranza della mia vita.