73. Il cristiano deve imparare la saggezza delle carezze di Dio: avere l’umiltà di aprire il cuore per essere guarito dal Signore e altrettanta umiltà e delicatezza per guarire il fratello che gli sta accanto, che ha bisogno del suo aiuto, di un consiglio, di una buona parola. Ed è proprio così che si costruisce una comunità cristiana. Tutti noi abbiamo bisogno di essere guariti, tutti; perché tutti abbiamo malattie spirituali, tutti; ma, allo stesso tempo, abbiamo la possibilità di guarire gli altri.

Siamo in un mondo “liquido”. Nulla a che vedere, naturalmente, con la pioggia che ha finalmente rotto i cieli in questo inizio di novembre. È liquida la società in cui viviamo che è in continuo divenire, dove ogni individuo è solo: e si compone e ricompone come sa e come vuole. Nel bene e nel male. Sentenziando di far parte della Chiesa, e distaccandosi dalle sue appartenenze rituali. Creandosi una pluralità di opzioni, che vanno dal mettere insieme diavoli e angeli

. Impegnando molti nel volontariato sociale, e solo pochi nel volontariato più strettamente evangelizzante. Che in un’era di difficoltà del per sempre coniugale, non riesce a immaginarsi costantemente fedele alle opere del Vangelo: trasformando così in altra cosa quello che il deposito della fede ha fondato.

Se leggo analisi della secolarizzazione in atto, vedo che le risposte delle comunità cristiane sono in genere molto restie a prendere atto della trasformazione in corso per cambiare. Appunto, si fanno analisi; si predica che il mondo è diventato diverso: i lontani diventano sempre più distanti e i vicini si allontanano. Ma le risposte che si danno? Non sappiamo come saremo, si dice: che è ovvio, prima ancora di essere strampalato. E intanto si avallano parrocchie come pronto soccorso dei bisogni. È vero che ci stanno i drogati, gli immigrati, e i vecchi senza più fuoco in casa; ed è vero che il caos del traffico impedisce di vivere le buone relazioni della strada, e l’affacciarsi sulle bellezze della città a surrogare la siesta. È vero che ci stanno le nuove povertà su cui si china come Gesù ogni discepolo (magari un po’ meno comprensibile che i bambini e i giovani – per il solo fatto di essere all’inizio della vita – siano collocati tra i poveri, come ho sentito fare in questi giorni: essi che hanno il volto della resurrezione portato dentro la terrestrità che ancora non si disfa). Ma chiamare le parrocchie a modernizzarsi, allargando sempre più la loro presenza nel sociale, non è la risposta a quest’uomo che oggi si desidera soggetto unico ed irripetibile di un destino. Se per ciascuno non s’impara il linguaggio che convince della bontà del Vangelo per la propria esistenza, come pretendere che i talenti diventino una gioia, e la pecorella spersa lo specchio del proprio smarrimento?

Non vorrei essere catalogato tra gli operatori ansiogeni della pastorale. Ma presiedere comunità mi ha insegnato che a un mondo confuso occorre rispondere con la fragranza del pane appena sfornato. E la freschezza profumata chiede che ogni notte il fornaio s’alzi prima di ogni altro. E che impasti calcolando l’umidità di quella notte. E che inforni su un fuoco che sia di legna crepitante. Qualche volta accettando d’aver sbagliato dosi. Senza queste immagini che l’era industriale ha spazzato via, non si capisce che cosa l’uomo chieda oggi al Vangelo. Senza questa memoria che ciascuno si porta nei geni – si ridipinge, si slarga, si abbellisce il non senso. È chiesto alla Chiesa di saper scrivere il suo Vangelo di adesso, guardando negli occhi chi ha fame e sete allo stesso modo di Gesù: per condurlo ad avvertire quell’altra sete e quell’altra fame. Opere sì, ma che accompagnino a credere.