Quel Papa nella camera dei Deputati della Repubblica Italiana era proprio fuori posto: quelli che gli stavano davanti non erano alla sua altezza, all’altezza delle parole che stava dicendo, così dissimili dalle loro, così lontane dalla immediata attesa di personaggi incapaci di assumere la posizione dell’altro, se non per rilevarne l’inimicizia. Quando il giudizio soccombe al pregiudizio, diventa ben difficile curare il bene comune: questo ci sta mostrando l’attuale legislatura.

E questo hanno confermato gli applausi che hanno scandito il suo discorso: applausi che nascevano da sottolineature parziali, dal prendere ciascuno un boccone, il proprio, ciascuno piegando parole senza confini al proprio caseggiato. Al di là di un formale riconoscimento alla presenza di un uomo grande nella sua diversità, si è prodotta una sostanziale mancanza di rispetto per un servitore senza appartenenze quale il Papa è. Non lo rilevo da una solitudine aristocratica e sprezzante, io che mi vanto di essere figlio della pianura contadina: qualche altro cittadino si è chiesto se non valeva la pena di mettersi d’accordo prima sul sottrarsi agli applausi, proprio per non far mancare il rispetto.

Per la verità, è una specie di nemesi storica che il Papa è chiamato a patire. Giovane – la mia età attuale alla sua elezione a vescovo di Roma (ma notare l’autoironia, prego, del diverso criterio che ha la parola giovane se riferita a Lui o a me!), aitante, con un bisogno del suo corpo di darsi ad attività sportive in acqua e sulla neve, arrampicatore di ottima gamba a palesare le attitudini dell’anima, con il piglio teatrale che gli veniva da una passione coltivata da sempre, fin dalle sue prime messe urbi et orbi ha sollevato la testa dai fogli, in pause che hanno strappato applausi in scansione sempre più ravvicinata. Mai un’omelia era stata interrotta con applausi: mai così. Una partecipazione del popolo di Dio, la traduzione latina degli amen sparati nelle assemblee quacchere e fondamentaliste dell’America conosciuta al cinema? Forse. O forse un modo per liberarsi subito da una parola impegnativa, riposta prima ancora di essere accolta nelle fibre della mente e del cuore?

E da allora, gli applausi sono straripati nelle assemblee liturgiche in tutte le parti del mondo. Provo personalmente una grossa difficoltà: li sento quasi sempre fuori posto. Se è una folata all’inizio o alla fine di una festa, può essere accettabile purché non si accompagni a urla, o non sia ritmata in crescendo come si fosse a una partita di pallone o a una opera teatrale: si sia in un Tempio o in una piazza aperta, ciò che vi si celebra rende sacro quel luogo, e cioè separato dall’agire comune e avvinto alla musica dello spirito. Nei funerali mai: che c’è da applaudire? La morte in un morto? In questi anni si sono applauditi tutti: quelli che si sono suicidati e quelli che sono stati scaraventati via da una disgrazia. Le terribili ventotto bare bianche nel sole del Molise e quegli applausi: per chi? gente a una recita? Alla recita della propria sprovvedutezza di fronte al destino baro e crudele? Sempre a soppiantare il silenzio. O a interromperlo per una sorta di insostenibilità, con un esorcismo della fatica del lutto, che solo nell’urlo del silenzio trova tutta la sua drammaticità, e la sua elaborazione più matura.

Anche per ciò, questo Papa così tanto frequentato è stato così poco ascoltato: se non si permette alle sue parole di entrare e attraversare l’anima, se non gli si permette quasi rombo di tuono lontano di risalire con la forza che le rende Parola dello Spirito, e non compromesso di carne e di occasione, come si può essere fedeli, se non per parzialità? Strappandosi un lembo dell’abito di Gesù imprigionato, nell’incapacità di attendere a tutta la veste senza cuciture?